Silvia
Plath- Un racconto giovanile ritrovato.
Mary
Ventura and the Ninth Kingdom, ed. Fabes
stories, 2019.
Maria Grazia Ferraris, collaboratrice di Lèucade |
1952: Sylvia Plath aveva appena incominciato il suo
terzo anno di studi allo Smith College
di Northampton, Massachussets.
Studia molto, con impegno, scopre Dante e resta folgorata dalla Divina
Commedia – il tema che l’affascina: come la biografia, la vita terrena, possa
fondersi nell’ultraterreno – ed è stordita dalla lettura di Franz Kafka, sfoglia Sant’Agostino. Letture importanti per
il suo prossimo lavoro creativo.
Viveva
nondimeno un periodo di forte depressione, quando si accinse a scrivere il
breve racconto intitolato “Mary Ventura and the Ninth Kingdom”.
A solo
vent’anni, aveva già ricevuto un premio
di cinquecento dollari per aver vinto il concorso di scrittura indetto dalla
rivista Madmoiselle, dove l’anno successivo avrebbe svolto un
praticantato, con il racconto “Sunday at
The Miltons”.
Nel
suo diario, in quei giorni del 1953 scrive: “Voglio scrivere perché sento il
bisogno di eccellere in uno dei mezzi di interpretazione ed espressione della
vita. Il semplice sforzo colossale di vivere non mi può bastare. Oh, no, io
devo sistemare la vita in sonetti e sestine e procurarmi un riflettore verbale
per la mia testa illuminata a 60 watt. L’amore è una illusione ma mi ci
perderei volentieri se riuscissi a crederci”.
Col
nuovo racconto pare consegnarci l’ennesima testimonianza sulla vita tragica e
geniale.
Così
lo descrive la Plath stessa due anni dopo, nel 1954, riscrivendolo per un
concorso letterario, i ‘Christopher Awards’:
“Questa è la storia di una adolescente che attraversa le tentazioni del
mondo materiale, cresce consapevole del proprio genio utopico e del potere di
aiutare gli altri; scopre la Città di Dio. La storia è raccontata nel modo di
una allegoria simbolica, proprio come alcune parabole della Bibbia, e per
esplicitare il suo linguaggio attinge a immagini della religione e della
letteratura”. Il racconto verrà rifiutato con delusione della Plath.
Il
racconto brevissimo, in nuce ingloba l’inizio del viaggio creativo della
scrittrice, indissolubilmente legato a quello psicologico ed esistenziale, ma
anche alla situazione storico-sociale che vive in quegli anni, situandosi al
principio della sua lotta interiore, e riassume i temi e le difficoltà che la
porteranno alla stesura del suo primo e unico romanzo The Bell Jar e
alla creazione della figura di Esther, con cui la protagonista del racconto ha
più di qualche cosa in comune.
La
tematica. La scena si apre in una stazione ferroviaria. La protagonista, Mary
Ventura, viene accompagnata dai suoi genitori lungo i binari affollati, su un
treno con destinazione sconosciuta.
La
madre le sistema una ciocca di capelli dorati sfuggita dal cappello di velluto,
il padre la esorta a sbrigarsi se non vuole perdere il treno. Ma Mary non è
convinta, non vuole partire e nella sua titubanza si inizia a intravedere
l’atmosfera misteriosa e vagamente inquietante che permea l’intero racconto.
La
componente mistico-simbolica comincia a
farsi strada nel racconto: i binari trasportano i passeggeri attraverso campi
incolti, lunghi tunnel e, mano a mano che il viaggio procede, l’atmosfera fuori
dalle lunghe vetrate diventa sempre più grigia. Tuttavia, nessuno oltre Mary,
sembra accorgersi del cambiamento.
Il
treno, scopre, è diretto al nono regno.
Mary decide di voler scendere dal treno.
Non è
stata lei a scegliere di intraprendere quel viaggio, sceglie perciò di scendere e abbandonarlo, ad ogni costo.
Segue le istruzioni: tira il freno d’emergenza, riesce a sfuggire agli uomini
che cercano di inseguirla e arriva a una porta. Percorre una scala e raggiunge
un giardino dove, accompagnata dal suono delle campane, trova una donna che
l’accoglie con un sorriso: Mary è riuscita a scappare. Ma da cosa? E dove è
finita?
Il
personaggio di Mary Ventura anticipa di quasi dieci anni un’altra figura
estremamente importante nella carriera di Plath: la protagonista del suo primo
e unico romanzo The Bell Jar.
Tutte
e tre le figure – Mary, Esther e l’autrice- vivono in un mondo che non sembra
appartener loro: vengono spinte su un binario che procede in un’unica
direzione, quella che la società o comunque l’autorità ha scelto per loro, e si
sentono in trappola, incapaci di reagire alle pressioni esterne. Il tema
coinvolgente è quello della fuga : la fuga della protagonista da un destino che
non aveva scelto, ma verso cui era stata spinta da forze esterne, dalla
famiglia stessa.
Depressione,
morte, rinascita, sono questi i pilastri centrali del racconto “Mary Ventura
and the Ninth Kingdom”, è il viaggio verso il nono regno da cui nessuno può
tornare, il viaggio di Sylvia attraverso la depressione, verso la morte e la
rinascita, allo stesso tempo.
Tra le
stesse pagine dei suoi diari, troviamo uno dei riferimenti che riesce a togliere
ogni dubbio su quale sia la destinazione del treno su cui viaggia Mary Ventura.
Sylvia
considerava questo racconto come la trasposizione, la metafora del suo viaggio
attraverso e verso la fase più buia
della sua depressione, verso l’unico futuro che in quel momento riusciva a
considerare: la morte. Il treno ha la stessa funzione della barca di Caronte,
quella di accompagnarla nel suo ultimo viaggio.
Mary
Ventura è con i suoi genitori:
“Madre”
disse Mary, fermandosi sentendo il rumore del mastodontico motore sul binario
incassato. “Madre, oggi non posso andare. Semplicemente non posso. Non sono
ancora pronta per il viaggio”.
Ma i
genitori insistono e Mary si ritrova presto seduta al posto che il padre ha
scelto per lei, la valigia sistemata nella rete sopra la sua testa. Accanto a
lei si siede una donna ansimante e dal viso arrossato, con una borsa color
terra in mano. I suoi occhi blu si stagliavano in una massa di rughe e la sua
bocca grande e generosa si estendeva in un sorriso…..Veniamo trasportati in un
mondo cupo e misterioso, dove il colore rosso viene contrapposto al buio dei
paesaggi isolati e al grigio del cielo.
“Guardi”,
disse Mary. “Stiamo uscendo dal tunnel”.
Il
treno correva dentro un pomeriggio grigio, campi desolati si estendevano sui
lati dei binari. Dal cielo pendeva un disco piatto e arancione, il sole.
“L’aria
è così densa”, esclamò Mary. “Non ho mai visto un sole dal colore così strano”.
“Sono
gli incendi nelle foreste”, disse la donna.
Una
baracca di legno comparve e si spense, in lontananza.
“Perché
quella casa è così distante da tutto?”.
“Non è
una casa. Era la prima stazione sulla linea, ma ora non la usano più, è
chiusa”.
Cullata
dal ritmo d’orologio delle ruote del treno, Mary guardò fuori dalla finestra.
Dal
campo di grano uno spaventapasseri attirò la sua attenzione; sopra assi sospese
bucce di mais erano stese a marcire. Il cappotto scuro e irregolare ondeggiava
al vento, vuoto, senza sostanza. Sotto quella figura ridicola i corvi si
muovevano, avanti e indietro, beccando grani sulla terra arida.”
Rassicurata
dalla presenza della compagna, Mary scopre poco a poco che il loro incontro non
è casuale; mentre la protagonista non sa assolutamente nulla del viaggio e
della destinazione che la attende, la sua nuova amica sembra sapere molte cose
del treno su cui si trovano, sulle fermate e sugli altri passeggeri. Ma
soprattutto sembra sapere molte cose sulla stessa Mary e sulla fermata a cui è
destinata: «il nono regno, il regno della negazione, dell’annichilimento della
volontà».
Non si
arrende. E avrà il consenso dell’accompagnatrice.
“Ah”
sussurrò: “Bene, hai davvero del fegato. Non ti vuoi arrendere. Questo è
l’unico trucco rimasto. L’ultima affermazione di volontà che ti era rimasta.
Credevo che persino questo fosse congelato. Ora so che c’è una possibilità”.
Una
metafora autobiografica, certo, che diventa però anche un messaggio politico,
una denuncia sociale in cui i genitori di Mary fungono da complici della
società, spingendo la propria figlia verso il futuro che il mondo si aspetta da
lei.
La
morte: presente nella maggior parte dei suoi lavori, è una delle costanti che
la accompagna dalla giovinezza, un masso che si è trasportata attraverso gli
studi, con cui ha convissuto con la famiglia e che l’ha seguita fino alla fine,
chiudendo il circolo che aveva iniziato.
Maria Grazia cara, hai tessuto la vicenda di Silvia Plath in modo così straordinario che hai permesso a noi lettori di entrare nel vivo dei suoi tormenti, della "metafora del suo viaggio attraverso e verso la fase più buia della sua depressione",quella depressione che l'avrebbe portata al suicidio. Il racconto è quanto mai esaustivo e coincide con la fase dell'esistenza dell'Autrice nella quale scriveva di avere molta più speranza rispetto alla sua Mary Ventura… Atteggiamento filosofico: bere e vivere la vita fino alla feccia… Desiderio di assaporare ciascun giorno e berlo, senza temere la sofferenza, né rinchiudersi in un guscio di torpida indifferenza. Dopo la lunga, accurata disamina, asserisci che il racconto si identifica con "una metafora autobiografica, che diventa però anche un messaggio politico, una denuncia sociale", e punti il tuo riflettore interiore sull'essenza della donna. Dieci anni dopo Mary Ventura, la Plath si esprimeva quasi con le stesse parole: "e c’è questa terribile, autoimposta volontà raggelata ... lasciatemi soltanto morire e non tornare più". Dell'artista descrivi ogni particolare saliente con la consueta incisività venata di un'empatia che è divenuta il focus del tuo scrivere. Ti sono infinitamente grata per questi insegnamenti e per queste pagine indimenticabili e ti abbraccio insieme al nostro Capitano.
RispondiEliminagrazie Maria:come sempre scavo nei precordi della letteratura femminile. Ormai faccio con piacere solo quello e scopro, davvero "scopro", tesori indicibili,sconosciuti, che affondano nella preistoria della scrittura femminile e delle dimenticate autrici stesse. Questa è la prima novella, scritta prima di ogni altra cosa dolorosa- prosa e poesia- che caratterizza e fa luce sulla Plath.
EliminaÈ notevolissimo come i suoi studi giovanili l’abbiano influenzata, dandole la possibilità di rielaborare in modo autonomo,creativo quanto studiava...da meditare.
In questa "metafora autobiografica", dal sapore profetico, di Silvia Plath, Maria Grazia Ferraris individua e sciorina i temi portanti della poetica della nota scrittrice, da quello della fuga, tipicamente kafkiano, a quello del viaggio di ascendenze dantesche, a quello esistenzialista e nichilista in generale. Attraverso la metafora del treno, questo racconto giovanile della scrittrice statunitense, nata nel 1932 e morta suicida nel 1963, a soli trentuno anni di età, mostra la precoce maturità della sua squisita ispirazione onirica, successivamente sviluppata in narrazioni più conosciute e di più ampio successo. Di particolare interesse trovo il passaggio in cui Maria Grazia avverte che questa metafora autobiografica "diventa anche un messaggio politico, una denuncia sociale in cui i genitori di Mary Ventura (la protagonista del racconto) fungono da complici della società, spingendo la propria figlia verso il futuro che il mondo si aspetta da lei". Una denuncia di quel diffuso plagio mentale di cui purtroppo nessun genitore e nessun figlio, a dispetto di ogni buona volontà, può onestamente dichiararsi immune.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Grazie a Franco C., che come sempre, da par suo, sa cogliere il messaggio profondo di chi scrive e anche di chi commenta, ben consapevole non solo del valore letterario di ciò che leggiamo, ma soprattutto di quello sociale che la letteratura aiuta a veicolare e decifrare con visibilità chiarificante.
RispondiEliminaHo letto tutto con grande interesse e, non conoscendo i romanzi della Plath, ho potuto ritrovare appieno la sua poetica. Animismo e morte, vitalità e disincanto in quella ricerca continua e quasi obbligata dalla corsa. La volontà resta nell'ultima scelta. Congratulazioni, Maria Grazia.
RispondiEliminagrazie per la tua attenzione partecipe.
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