«(…) Forse so perché amo quest’autunno / con il sole che si spegne lentamente / nel mio orizzonte sempre più vicino / È perché assomiglia alla mia sorte / come la bruma avvolge i miei ricordi / come fa il vento… con le foglie morte» (Serata d’autunno). Iniziare dai versi incipitari di questa testuale poesia significa penetrare fin da subito nell’anima della ricerca poetica di Franco Donatini; nel suo messaggio di vita, d’amore, di solitudine, di sorte; di un autunno che si srotola con maestosi endecasillabi su uno spartito musicale tanto vicino alla melodia di grandi maestri. Una poesia che fa del simbolismo l’arma vincente, il valore aggiunto del canto, dove l’autunno rappresenta non solo l’ultima stagione dell’anno ma l’avvicinarsi al redde rationem della vita del poeta. Il sole che si spegne lentamente tanto rassomiglia alla sua sorte. A quella degli uomini legati da un filo sottile a questa esperienza unica e mortale. I ricordi, le foglie morte sono indici determinanti di questo linguaggio che trae dalla natura gli stilemi del suo dire.
Franco Donatini stringe all’anima i sogni e le speranze di una vita, di un viaggio in un mare non sempre tranquillo, a volte gonfio di onde burrascose, attraverso le quali raggiungere l’isola nascosta. Quel porto che è nella nostra mente e che forse non esiste nella realtà, ma è sempre motivo di ricerca e di nostos. Basta andare, non fermarsi, non restare ancorati, fermi, dacché la poesia è viaggio, è percorso anche in mezzo a cavalloni che ti fanno sbattere in scogli ripidi e aguzzi. Il poeta non si arrende, ricupera una tavola scampata e con quella continua il viaggio. Un cammino che la poesia traduce in vita, e che la vita traduce in poesia; nel misterioso cammino di un dilemma su cui indaghiamo senza risultati: «(…) Così è stato un giorno come tanti / che il caso ha estratto il nostro incontro / che i tuoi occhi hanno parlato ai miei / e la tua luce ha acceso i miei pensieri / Ignoro quanto tempo sia passato / un lustro un anno un giorno o solo ieri / Non son capace di contare il tempo / né prevedere quando finirà / e cosa resterà di questa storia / se il vento spazzerà… dalla memoria» (Questa vita).
Il tempus fugit e il mistero del visionario cammino umano si fanno cuore, focus della ricerca spirituale. Versi che scorrono fluenti, musicalmente avvincenti, di euritmica sonorità. La poesia è musica tutto il resto è letteratura, affermava Paul Verlaine. Affermava anche che l’uomo non si accontenta del suo stato terreno, della sua temporaneità, del suo essere a terra, aspira a qualcosa di eccelso, di superlativo: «Le ciel est par-dessus le toit». Aspira al volo, a toccare le corde dell’azzurro, ad elevarsi al di sopra delle aporie del quotidiano.
Da qui l’inquietudine di esistere, la splenetica saudade a cui l’uomo è condannato. La diaspora tra terrenità e volo. È proprio dell’uomo voler superare l’orizzonte che ci tiene vincolati a terra. Andare oltre le colonne che delimitano il nostro esistere. Si può ricorrere al memoriale: «(…) E ti stringevi a me / e mi seguivi / tra le aiuole di bosso e di lentisco / e percorrevi il tragitto antico / della tua esistenza / e senza affanno avvertivo / il respiro fluir dalle tue labbra // E ti stringevo a me / per non lasciarti / per tornare a contare i nostri giorni / a consumare insieme le stagioni / ma tu fuggisti senza far rumore / nella tua casa eterna ove ritorni / a divider con gli altri i tuoi ricordi» (Madre mia) e ripescare quelli che sono i momenti più intensi delle antiche primavere. Donatini lo fa, intendendo con ciò dare carburante al suo patos, dare vivacità ad una vita di cui conosce tutta la debolezza, tutta la fragilità. Scomodando Orazio: «Dum loquimur fugerit invita aetas». Il poeta conosce la brevità dell’esistere, e sa anche che a certi quesiti non ci sono valide risposte, quindi scrivere, rovesciare sul foglio le inquietudini se non si vuole impazzire: «Nulla è più triste / nel veder gli altri andar via / lasciarti solo / a consumar nei giorni / l’amara nostalgia / a viver il vuoto / che il loro pensiero / fa più amaro» (Gli altri che se ne vanno).
Una poesia densa di vita, di recondite armonie direbbe il mio maestro Puccini; una poesia attiva, fattiva, coerente e plurale, in cui il poeta racconta sé stesso, allontanandosi da ogni tentativo sperimentale di positura prosastica. Qui il verso si amplia e si rattiene per seguire i movimenti di un cuore che palpita, che sente, che ama, pensa, e freme. E sa anche conoscere quando è il momento di andare a capo, di interrompere una misura per crearne una nuova che continui l’armonia della poetica. Ed è così che la natura si fa compagna inscindibile di un’anima che lo segue e lo rivela. Sì, è essa che lo prende e lo trascina nei meandri più nascosti del suo panorama. Gli dà il sintagma, il lessema; gli dà il verbo, la parola, tramite cui il poeta rivela il fatto di esistere; rivela la matassa dei sentimenti che covano da tempo nel suo crogiuolo esistenziale: «Ho visto / i miei pini scomparire / sotto il calore di un cielo ingrato / il sole snidare ombre / e scolpire di crepe aride terre / Ho visto fuggire / e perire sotto il fuoco / voli d’uccelli e strisciar di serpi / e morire con loro / il mio passato» (Alberi miei).
Il poeta fa dei simboli naturali (tramonto, alba, meriggio, mare, cielo, alberi…) il linguaggio del suo poema. Non è di certo vano tirare in ballo Albio Tibullo (54 a.C. – 19 a.C) col suo apologo della natura: «Non ego divitias patrum fructusque requiro / quos tulit antiquo condìta messis avo: / parva seges satis est, satis est requiscere lecto / si licet et solìto membra levare toro. / Quam iuvat immites ventos audire cubantem /aut, gelidas hibernus aquas cum fuderit Auster, / securum sommos imbre iuvante sequi! / Hoc mihi contingat!». («Io non voglio per me le ricchezze e i guadagni dei padri che i raccolti procuravano agli avi antichi; un modesto raccolto mi basta e, se mi è lecito, mi basta riposare nel mio letto e rinfrancare le membra nel consueto giaciglio. Com’è bello starsene a letto e ascoltare il soffiare impetuoso del vento stringendo dolcemente al petto la donna amata, oppure, quando l’Austro invernale rovescia gelide acque, addormentarsi al sicuro, consolati dal rumore della pioggia che batte! Questo mi tocchi in sorte!»).
O ancora Friedrich Hölderlin (Lauffen am Neckar, 1770 – Tubinga, 1843) che nove anni prima di essere ricoverato in una clinica per alienati mentali, chiede nella lirica Iperione o l’eremita della Grecia al «canto» che sia per lui «rifugio amichevole», affinché la sua «anima, raminga e senza radici / non smanî di oltrepassare la vita» e divenga «luogo di felicità (…) giardino curato con premuroso amore, / ove aggirandomi tra fiori in perenne fioritura, / in sicura semplicità io abbia dimora, / mentre di fuori con tutto il suo ondeggiare / il tempo possente, il tempo mutevole rumoreggia lontano»; e nell’elegia Pane e vino invita tutti i poeti a unirsi in un’universale fratellanza: «… e molto (buono) ascoltare dei giorni d’amore, / dei fatti che accaddero un tempo /… Sono i poeti, a fondare quel che rimane». Trovare la serenità là da dove siamo partiti è forse il sistema migliore per calmare il disagio che incontriamo misurandoci con il tempo e la morte, se non si vuole impazzire. Questo fa il nostro poeta: ama, sente, medita, e rielabora, reificando sentimenti e passioni che mai tradiscono l’aspetto umano; e lo fa con versi che ricuperano il passato nutrendosi di presente, tracciando un percorso vicino e attuale. Molto coerente con la vita che ci si presenta in tutta la sua plurale emotività; in tutti i suoi polisemici messaggi che la rendono varia e articolata, multipla e densa di ricordanze, di inquietudini esistenziali, di solitudini meditative, di pensamenti in cui le domande fagocitano risposte. Il titolo della silloge La solitudine del poeta indica forse che ogni porta cerca la solitudine per meditare su questa storia che ci tocca da vicino; lo fa perché è nella solitudine che l’uomo trova se stesso, il suo patema, la sua intensità vitale, afferente al suo processo emotivo.
Ma Franco Donatini, alla fine della lettura, anche se fa trasparire note di melanconico travaglio, tuttavia è estremamente legato a questa storia; ne vive i momenti capitali, gli attimi più fecondi. E forse se troviamo qualche risentimento è perché come ogni umano la vorrebbe diversa questa vicenda, la vorrebbe più a dimensione umana: «Non resta che il cuore a riannodare / ricordi che la mente ha già perduto / Perché tremare ancor su questi muri / in piedi ormai a rinnovar il dolore / La vita pulsa chiusa dentro i sassi / La pioggia li nutre e li disseta / Con mani di luce il sole / li accarezza / Il vento gli sussurra nell’attesa / parole di speranza // Spunta un fiore / Timido e lieve come un batter d’ali» / (Non resta che il cuore).
Terminare la mia narrazione critica con le parole della poesia forse è il sistema migliore per avvicinarsi allo spirito di Donatini: speranza, un fiore timido e lieve come un batter d’ali. Un fiore lieve come la vita.
Nazario Pardini
L’AUTORE
Franco Donatini, professore universitario a Pisa, critico d’arte è presente nelle commissioni di importanti concorsi in campo letterario. Impegnato nella comunicazione, ha collaborato e partecipato a trasmissioni televisive quali “Linea Blu”, “Rai Utile” ed “Evoluti per caso sulle tracce di Darwin”. Autore di poesia e narrativa, ha pubblicato molteplici opere letterarie: In viaggio, prefazione di Patrizio Roversi (2008); Galileo, i giorni della cecità, prefazione di Carlo Rubbia (2009); Intorno a lei. Chagal, amore e arte (2009); Giuseppe Verdi e Teresa Stolz. Un legame oltre la musica (2011); La vestale di Kandinskij (2012); il romanzo Dov’è Charleroi (2013) e il saggio storico Capodanno pisano, una questione di stile (2014); Modigliani, mon amour (2014); Lautrec, anima di Montmartre (2015); La nostra vita con Dalì e il saggio Il mulino dei sogni, glorie e disgrazie del nucleare (2016); Io non sono Magritte (2018); Un futurista romantico (2019); Antonia Bolognesi, l’amore segreto con Giorgio de Chirico (2021). Nei suoi libri dedicati a figure storiche e artistiche, approfondisce personaggi del mondo dell’arte e della scienza, secondo l’approccio “visti dal di dentro”, analizzandone in maniera introspettiva il rapporto tra l’opera e il profilo umano.
Franco Donatini, La solitudine del poeta, prefazioni di Nazario Pardini e Floriano Romboli, Guido Miano Editore, Milano 2021, pp. 92, isbn 978-88-31497-70-1, mianoposta@gmail.com.
Il nostro Vate presenta l'Opera di Franco Donatini con la consueta capacità esegetica e illustra il suo mondo di empatia e di saudade. Legami forti con gli amori e con gli elementi di madre - natura. Non a caso il Maestro cita Albio Tibullo, che nelle sue elegie cantò l'amore per Delia e dedicò altre tre odi a una seconda donna, chiamata con lo pseudonimo di Nemesi, e intesa come Vendetta per i tradimenti di Delia. L'accostamento del nostro Poeta al poco noto artista elegiaco, è confermato dalle tematiche trattate da quest'ultimo, infatti nei suoi testi si affacciava, prepotente, il mito della campagna: essa non era solo quella di Delia e delle tenerezze d'amore, ma anche la realtà del mondo agreste che, con la sua idillica pace, si contrapponeva agli avidi guadagni e al fragore delle armi. Tibullo, infatti, non cercava la ricchezza e detestava la guerra, nella quale vedeva un mezzo di arricchimento, non di diffusione della civiltà. Nazario ha scelto un Poeta sovrapponibile al caro Donatini, soprattutto nel modo di concepire i territori dei ricordi e le vicende amorose, infatti asserisce: "ama, sente, medita, e rielabora, reificando sentimenti e passioni che mai tradiscono l’aspetto umano; e lo fa con versi che ricuperano il passato nutrendosi di presente, tracciando un percorso vicino e attuale." Ho già avuto modo di commentare questo Autore, ma le capacità ermeneutiche del suo Relatore ne donano un quadro introspettivo nel quale tutti possiamo specchiarci. Li ringrazio e li abbraccio entrambi grata!
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