MI
SONO SENTITA A CASA, QUASI PARENTE
di
Maria Luisa Daniele Toffanin
Piace trattenere ancora su queste
pagine sorrisi, sguardi, parole, moti d’animo, attimi di quel megatempo
che coinvolge tutto l’uomo-poeta Zanzotto dalla sua nascita alla sua morte e
oltre, frammenti di quell’umanità che era suo stile di vita umile, amabile,
sempre ricco di stupori, raccolti in più di dieci anni d’intensa frequentazione
con lui. Mi pare un’esistenza intera percorsa da tutto il suo ardore per l’uomo
e le cose e dai riverberi in me riflessi, impressi in questa amicizia fra
noi leggera1 durata fino alla sua morte. La storia ebbe inizio
ufficialmente ad Abano Terme il 9 maggio 2000, ore 16, con l’incontro del poeta
con gli studenti dell’Istituto Alberti da me voluto, allora come coordinatrice
culturale del Centro di Orientamento Levi-Montalcini di Abano Terme ideato dal
premio Nobel Rita, incontro in cui Zanzotto, con la sua arte affabulatoria
insieme al suo innato trasporto per i giovani, incantò i miei ragazzi
dell’Aberti, da me da poco lasciati. Li intrattenne, usando parole
comprensibili e raffinate, su argomenti vari veramente particolari: dallo
squilibrio ecologico alle loro responsabilità da assumersi con spirito critico,
dall’incitamento ad accostarsi sia agli stupori della conquista scientifica e
del suo linguaggio sia a quelli della poesia la cui parola non solo è musicale
ma anche universale. All’ultimo momento soltanto li avvicinò ai suoi versi con
la lettura di “Per la finestra nuova”2 spiegando ai ragazzi le
meraviglie del paesaggio, un misto di vegetazione e stelle, entrato
d’improvviso nella casa con dietro orizzonti di nuovi sogni, fantasie. Fu
un momento di grandi stupori per l’inattesa amicizia creatasi con un poeta così
importante. Per me poi fu l’inizio di un discorso inaspettato che continuò
negli anni attraverso lunghe conversazioni nella sua casa o al telefono sempre in
un variare di argomentazioni dal quotidiano al sociale, dal letterario agli
affetti, perfino al gatto. Forte, come già detto, era il suo sentimento
dell’amicizia e lo percepivi a tal punto che ti sentivi non solo suo amico, ma
quasi parente: così lessi un giorno tra le righe di Turoldo. Tanto che
dopo anni di frequentazione, mi confidò l’attesa della nascita di un nipotino:
era stupito e confuso che a quell’età lì, ormai avanzata, si sarebbe sentito
chiamare nonno. “Che nonno sarò mai?”. Lo confortai al pensiero che questi
nipotini avrebbero prolungato la nostra vita. E gli parlavo della speranza e dell’attesa
di una bambina che mi facesse ritornare piccina accanto a lei riscoprendo la
magia dell’infanzia. Li un po’ alla volta, ormai alla nascita, confermava la
mia certezza di continuare a vivere nei nipoti, lui che dall’infanzia, insieme
alla natura, traeva ispirazione come forza rigeneratrice, catarsi, tante volte
espressa anche in Ligonàs3, quel mitico luogo di C’era una
volta. Gli era così entrato nel cuore questo bimbo, Andrea Luigi, che al
primo compleanno inventò la “Filastrocca sul micio Uttino”4, quasi
persona di famiglia.
Un libricino raffinatissimo, in 114 esemplari numerati, editore il cugino Bernardi di Pieve di Soligo, con sovracoperta raffinata eseguita dalla mamma Elisabetta Di Maggio, autrice anche dei disegni del gatto, con uso di carta elegante su cui compare la filastrocca scritta a mano dal poeta, a lato riprodotta a stampa.
a veder com’è vario il teatrino
che col micio combino.
Egli ha tanti nomi perché
muta secondo quel che fa
ma Uttino soprattutto resterà.
Intanto si sente re del giardino
e gira a far la guardia con orari
alquanto misteriosi o immaginari…
Ma quando da fuori arriva un rumore
anche solo di un motorino
scappa fin dentro la cappa del
camino.
Tante mattine fa l’equilibrista
ma non sempre riesce a spostarsi
sui tralci e cade fuori dalla pista.
Ma subito scatta su un altro appiglio
con volteggi speciali, e arriva a
terra
con ricche acrobazie che vi
sconsiglio.
Ciò capita d’inverno, quando lui si
fa grosso,
di ciccia e di pelliccia
e, cantando, lo chiamo «Cioccio,
Cioccio»!
Al dono di quel libretto mi sentii
proprio una di casa, anzi parente. E pensai tra me che quell’uomo, a quest’età
prestigiosa, aveva già scritto altre filastrocche nell’incontro indicibile con
Federico Fellini, suo grande amico, filastrocche che sono entrate nel mondo del
cinema e hanno incantato per la freschezza, per l’inventiva nativa in questi
due maghi dell’immagine e della lingua uniti insieme. In “Zanzotto: io e Fellini”
Antonio Costa5 dice che su richiesta del grande regista per il Casanova
“sono nati Recitativo veneziano e Cantilena londinese6.
La prima per la sequenza d’apertura del Casanova, quella in cui viene fatta
emergere dal Canal Grande una stupefacente testa di donna; un rituale di pura
invenzione felliniana, cui Zanzotto aggiunge arcane sonorità veneziane. L’altro
era una filastrocca in petèl della gigantessa di origini venete che Casanova
incontra a Londra. L’incontro di Zanzotto con Fellini avviene all’insegna del
dialetto. È nel lessico familiare della propria infanzia, nelle sonorità
magiche del petèl, che Andrea Zanzotto scopre le profonde affinità con
il cinema, lingua primitiva, arcaica, mitica”. E pensai che quel poeta, amico e
creatore accanto a Fellini, era riuscito a ritornare fanciullo raccontando nella
nostra filastrocca il mondo felino con i suoi istinti, le sue abitudini con
voce affettuosa, cantilenante trasmettendo così il suo amore per il gatto al
nipotino per avvicinarlo più a sé, stringerlo alle piccole cose del suo mondo
di uomo grande, in un colloquio che si prolunga per 11 pagine, senza mai
perdere il suo stupore, il suo cuore fanciullo pur nell’habitat della quotidianità.
E il piccolo Andrea Luigi così interiorizza i versi del nonno da interpretare
il suo ruolo nell’intervista fatta da un regista piombato in casa con tutti i
suoi ingranaggi per registrare le parole di Andrea il grande. Ma il piccolo
seppe ben rispondere con prontezza e divertimento. Immaginarsi con quanto
stupore il Poeta mi raccontò di questo bambino seduto sul suo trono in piena
intervista, tanto da rivelare nel volto segni di una nuova freschezza e negli
occhi una luce indicibile.
Una sera, nell’ora ultima di luce, rividi
in lui quell’espressione ormai a me nota: accompagnandoci affettuosamente alla
porta come sempre, offrì a me e a mio marito l’indimenticabile esperienza di
quel mondo paesano in lui e intorno ancora vivo, palpitante: “Vedete quell’uomo
che passa in bicicletta? è il nostro postino” e mio marito: “A quest’ora il
postino che gira ancora per il paese!”, “Noooo, è il postino dei nostri
scherzi” pronto a rispondere con un’aria sorniona. E ci raccontò di come
passasse di casa in casa portando un bigliettino con lo scherzo proposto per
uno degli amici, ignaro che sarebbe stato fatto il giorno dopo. Noi increduli
che a quell’età si potesse ancora giocare, diventammo suoi complici-bambini di
questa pagina di vita autentica, paesana, refrain di altri tempi, della
coralità vissuta nella contrada Cal Santa, dello spirito che animava i rapporti
con Nino Mura incoronato Duca di Rolle, poi ribattezzata Dolle. Partendo,
ancora stupiti di questo ardore, parola che lui particolarmente mi
raccomandava, inseguimmo per un po’ il postino che si fermava in varie case
consegnando una busta. Il resto è mistero ma quello che rimane è l’inventiva
giocosità paesana, ormai scomparsa dalla nostra società e certamente, secondo
lui, anche tra quei giovani studenti incontrati ad Abano.
Ed ecco una famosa telefonata, piena
di entusiasmo e di vitalità, con il suo annuncio dell’uscita di quel famoso
libro in prosa e poesia per lo più in dialetto, “I colloqui con Nino”7,
l’amico contadino Nino Mura, che rappresenta poi il costume di quella vita
paesana capace di divertirsi con poco, animata da tante figure locali ma anche
da scrittori famosi come Giovanni Comisso, Ferdinando Camon, Diego Valeri e
altri notabili del paese partecipi a questi momenti scherzosi, festosi, a base
di salame, pan biscotto, vino rosso, come racconta l’autore. Civiltà
ormai estinta, dominata da un individualismo acceso che determina una chiusura
in se stessi e pure la solitudine. Mi chiedeva, molto animato al telefono, di
aiutarlo a diffondere questa sua opera in cui tra l’altro si parlava anche del
nonno veterinario dei miei amici gemelli con cui avevo trascorso da piccola a
Pieve di Soligo indimenticabili ore da favola. Si diceva anche delle sue
dimensioni corporee, già a me sottolineate da Zanzotto, per cui avrebbe
avuto bisogno di servizi igienici adeguati. E ancora mi risuona la sua risata
vivace e divertita al racconto in puro dialetto solighese: scherzose allusioni
prive di malizia. Un libro quindi che viveva nel C’era una volta e che
cercava di trattenere in vita palpiti, voci di un mondo ormai scomparso, parte
del suo archivio memoriale a cui ricorreva per fare scrittura e trasmetterla al
dopo. D’altra parte la mitica contrada Cal Santa in cui era vissuto
frequentando l’asilo Maria Bambina, tra gli affetti della nonna paterna e delle
zie e le tradizioni paesane, anni e luoghi della sua formazione, rappresentano proprio
quell’archivio memoriale or ora citato, da cui lui trarrà il materiale per la
sua poesia facendo rivivere così le persone della sua famiglia, i dipinti del
padre, i vecchi mestieri. In questo suo amore per la coralità della contrada,
mi sento legata a lui nel mio forte sentire via Gabelli, luogo mitico della mia
nascita, infanzia, formazione, di memorie storiche che ho cercato di trattenere
probabilmente sollecitata anche dal Poeta in “La stanza alta dell’attesa tra
mito e storia”8. Questa affermazione non deriva dalla mia
autostima, ma è dimostrazione che ognuno di noi possiede un lucus quale
è l’infanzia, scrigno di ricordi e verità, vetrina di figure, volti, incontri
umani in cui riconoscersi, ritrovare il senso del proprio presente. Questo è
l’universale amore per le proprie radici, per il latte materno succhiato da
tanti poeti, dallo stesso Pasolini di cui parla Turoldo nella postfazione a
“Mistieròi”9 tradotto in friulano. Ascoltiamo le sue parole: la
vera umanità non può avere che una radice sola, la fedeltà alla “madre” … e
alla madre terra. […] Ed ora, accanto alla gioia, come dicevo, di sentirmi
imparentato a Zanzotto, almeno per questo amore alle origini, dirò anche la mia
gratitudine verso di lui per aver cantato il poema degli umili, di quelli che
portavano sulle proprie spalle il carico dei valori... degli antichi
mestieri, espressione della nostra civiltà contadina. D’altra parte Zanzotto,
in una sua prefazione all’opera di padre David Maria Turoldo, altro segno di
amicizia, aveva già affermato che la sua poesia nasceva dalla madre - che è
anche madre terra - e dal latte succhiato della lingua materna. Ecco, spinto da
questa umanità, da questo linguaggio infantile solighese, il petèl di
cui macchia i suoi versi, da questo profondo sentire le sue radici,
Zanzotto vorrebbe salvare il salvabile del suo mondo, della vita, dal diluvio universale.
La mia riflessione sull’intimo rapporto Zanzotto-Turoldo appartiene sempre ai
dieci anni di frequentazione del poeta, anzi è conseguenza del suo essermi
divenuto maestro, guida nel capire la sua vita, anche attraverso i suoi tanti
legami amicali, come impegno-senso-ruolo della poesia stessa e ad avvicinarmi
ancor più alla sua lettura della natura, della storia, ai suoi colloqui familiari10.
E mi sento quasi parente quando leggo il ricordo della più cara delle mie
zie “Onde éla mai la pi cara de le mé jèje…”11, emblema di tutte
le zie che hanno attraversato la nostra vita, come la mia zia Pina, incidendo
nella nostra formazione. Così infatti Zanzotto: “Dove sono. Dove è mai
la più cara delle mie zie / che scriveva per carnevali e feste / i dialoghi in
poesia, perfino / con dentro parole in latino / che tanti li ricordano ancora;
/ «si era data al bere» dicevano, / per passar sopra alla malora. / Chi sa. Ma
soltanto lei sa quanto / in questo scribacchiare le assomiglio.” E così quando
leggo i versi dedicati a M., la sua futura moglie, ritrovo in essi l’incantamento
delle nostre vicende amorose: “… Ma noi sediamo intenti / sempre a una muta
fedele difesa. / Tenera sarà la mia voce e dimessa / ma non vile, / raggiante
nella gola / – che mai l’ombra dovrebbe toccare – / raggiante sarà la tua voce
/ di sposalizio, di domenica…”12. Mi sono sentita a casa, quasi
parente di queste due figure femminili perché la sua poesia, pur articolata poi
in percorsi del pensiero altri, esonda di quell’umanità in cui ci riconosciamo
con le nostre storie minute che Zanzotto rende universali.
Questi aspetti evidenziano le varie
sfaccettature dell’anima di Zanzotto che, pur mantenendo sempre quella purezza
propria del mondo infantile, sapeva guardare dalla sua insula al mondo
intero comprendendo i pericoli di quel degrado del sacro a cui stava assistendo
e insieme della furia del progresso scorsoio di cui eravamo ormai già vittime, oggetto
di un’ampia conversazione con Marzio Breda in “In questo progresso scorsoio”13.
Lui così attento agli altri, così stretto in molte amicizie, così collaborativo
con artisti di ogni genere, presente come sentinella dei valori in trasmissioni
radiofoniche o interviste giornalistiche, lui con la sua poesia talora
difficile da comprendere, tutti in realtà ci coinvolge partecipi della stessa
umanità, civiltà veneta e oltre. La sua scrittura infatti, soggetta a continue
ricerche linguistiche come anche in “Conglomerati”14 nella visione utopica
di una lingua pentacostale, rappresenta la coscienza europea che si rivela a
noi con i suoi messaggi spirituali, etici, poetici sempre di grande spessore
valoriale. Ora, nel festeggiamento del suo centenario, oltre la selva dei
percorsi critici impegnati a sezionare la sua opera e il suo linguaggio in
un’accanita ricostruzione, comprensione, il Poeta mi appare quale miracolo nativo
della sua terra espanso dal suo pensiero ovunque (come) … una scintillazione
che pare casalinga / ed invece è stellare … 15. E io che ho
avuto l’onore, il privilegio, la gioia di frequentarlo per dieci e più anni
intensamente, io che trattengo tutto questo come prezioso patrimonio in me, mi
unisco alle parole di Carlo Ossola16: “La poesia di Andrea Zanzotto
è infatti coscienza europea: attraversa la lingua-madre del dialetto veneto,
medita le “ustioni verbali” del Novecento di Artaud, Michaux, Celan; ricompone
la lezione dei classici; collabora con Federico Fellini alla più alta
cinematografia di affetti e memoria. Tradotto in francese, inglese, tedesco,
Andrea Zanzotto è, oggi, il poeta del “cuore d’Europa”, «Europa melograno di
lingue» (com’egli ha definito): da un luogo amato e mai abbandonato, egli parla
all’umanità intera, con le “lanugini” della lingua, con il filo ininterrotto
della civiltà italiana”.
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1 L’amicizia fra noi leggera
in “Il sacro e altro nella poesia di Andrea Zanzotto”, 2013, Edizioni Ets, Pisa
2 Da IX Ecloghe, in A.
Zanzotto, Le poesie e le prose scelte, Milano, Mondadori, 1999
3 In Zanzotto “Sovrimpressioni”, Collana
Specchio Mondadori, 2001
4 In Zanzotto “Filastrocca del micio
Uttino”, Grafiche V. Bernardi, 2005
5 Antonio Costa in Corriere del
Veneto 20 settembre 2011, pagina 12
6 In Zanzotto, La Beltà (1968)
in “Zanzotto – Le poesie e prose scelte”, Milano, Mondadori, 1999
7 Andrea Zanzotto, “I colloqui con
Nino”, Il Ponte del Sale, 2005
8 Maria Luisa Daniele Toffanin, “La
stanza alta dell’attesa tra mito e storia”, Valentina Editrice, 2019, Padova
9 Andrea Zanzotto e Amedeo Giacomini,
“Mistieròi/Mistirús”, Piccola Biblioteca di Autori Friulani, Biblioteca civica
Pordenone, 2012
10 Dietro il paesaggio (1951),
Il galateo in Bosco (1978), Vocativo (1981) in “Zanzotto – Le
poesie e prose scelte”, Meridiani Mondadori, 1999
11 Da Idioma, in A. Zanzotto, Le
poesie e prese scelte, Milano, Mondadori, 1999
12 Da La vita silenziosa, in IX
Ecloghe, in A. Zanzotto, Le poesie e le prose scelte, Milano, Mondadori,
1999
13 Andrea Zanzotto e Marzio Breda,
“In questo progresso scorsoio”, Garzanti, 2009
14 Andrea Zanzotto, “Conglomerati”,
Collana Specchio – Mondadori, 2009
15 In Altri topinambur, da Meteo,
in A. Zanzotto, Le poesie e prose scelte, Milano, Mondadori, 1999
16 Carlo Ossola, “Nessun Consuntivo -
i 90 anni di Andrea Zanzotto”, Antiga Edizioni, 2011
Marisa carissima, in questa pagina da non dimenticare, illustri il tuo rapporto con il grande intellettuale che hai avuto la gioia di conoscere e di coinvolgere nei rapporti con i ragazzi. Ebbi modo di vedere un filmato con l’attore Giorgio Albertazzi, insieme a un gruppo di studenti che intesseva con l’autore un dialogo incentrato sul rapporto tra poesia e realtà. Descrivi in modo poeticissimo il rapporto tra l'Artista e il nipotino, che è addirittura commovente. La poesia che posti sembra scritta da Italo Calvino, con l'adozione del realismo magico. Illustri molti altri aspetti illuminanti di Andrea Zanzotto, e sapere che ti è stato così vicino per dieci lunghi anni mi provoca un senso di vertigine. Tu, così vera, umile, non sfoggi la tua esistenza, la narri con pacata dolcissima volontà di conferire il giusto tributo a un intellettuale che, in tempi non sospetti, voleva chiedere perdono al nipote per il mondo che gli lasciava. Quanti spunti di riflessione, Amica mia, e quanti profondi insegnamenti! Cosa dovremmo dire oggi? Ora so di volerti stringere per questa testimonianza straordinaria. E lo faccio, perchè l'affetto ha mani che bucano i muri!
RispondiEliminaMaria cara, sei davvero unica nella capacità di comprendere fino in fondo il mio stato d'animo, il mio rapporto con quest'uomo a cui ho veramente voluto bene, e a penetrare fino in fondo la vicenda del nipotino fino ad arrivare al rapporto vita-arte. Sei una donna di grande umanità ma di inesauribile spessore culturale e mi onoro di conoscerti. Ti abbraccio anch'io con grande affetto e per questo ti ho ricordato nella sala del Romanino del museo Civico degli Eremitani quando abbiamo presentato "La stanza alta dell'attesa". Ti ho ricordato perché so che tu partecipavi con me a questo momento di festa della poesia.
RispondiEliminaNice post and thanks for on this platform your beautiful article on BlogSpot .
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