venerdì 17 giugno 2011

Da "Dal lago al fiume", Edizioni ETS, Pisa 2005




Il Serchio

Anchise                                                          
(Parla il lago con Anchise)

Il fiume frammentava le figure
dell’ombre che le acacie ed i canneti
specchiavano nell’acqua. Dalle rame
s’involavano i colombi ed i martin
pescatori che stillavano le gemme
nel placido defluire del suo corso.
Profumo d’erba e d’alghe e tutt’intorno
una brezza di salmastro che spirava
dalla vicina foce. - Anchise! Anchise! -
Sfioravo la capanna. La baracca
si levava da tempo sulla sponda
di un corso verdeggiante. Ed era là                           
quell’uomo che il paese rammentava
come il matto dei giunchi. Le mie onde
lambivano le sponde - Anchise! Anchise! -
Ed affacciò la sagoma brunastra
alla porta di stoia. Una figura
bassa e tarchiata con il folto crine
che gli scendeva giù fino alle spalle.
Gli brillavano gli occhi. Di già prima
della morte del padre aveva dato
segnali di squilibrio, ma da quando
era rimasto solo, i suoi discorsi
erano stati oggetto di ludibrio
e di scherno per tutti gli abitanti
di un paese un po' chiuso. E proprio i giovani
si recavano sul fiume incuriositi
a stuzzicare Anchise. Venne avanti
senza posare gli occhi sopra i chiari,
ma volgendo lo sguardo
nel cielo sui pini o alle rovaie
distrattamente come se nessuno
avesse detto - Anchise! - I suoi discorsi,
pur strani e fuori senno, trapelavano
un senso di poesia e molto spesso                                           
l’andavo a trovare per porgli                                     
questioni all’impronta. Quasi sempre
- di certo a sua maniera - rispondeva
ai miei quesiti. - Anchise la capanna
d’autunno - e tu lo sai - è pericolosa.
Il fiume gonfia il letto e col libeccio
allaga le golene. Sarà meglio
che tu torni al paese?  Casa tua
è sempre là che aspetta il tuo ritorno -.
- Amico, tu a chi parli? Qui non c’è
né Anchise, né suo padre. Solo frulli
di rondini su sponde,
e tremiti che vibrano al canneto.
Anchise vola. Senti? Fai silenzio!
Vibra dall’alto immerso nelle nubi.
Ascolta il sibilare del suo volo
lontano, più lontano. Tu lo cerchi?
Se cerchi Anchise devi ritornare,
devi tornare amico; più nessuno
proietta la sua ombra. Solo tu
lago col mio fiume qui a rumoreggiare -.
- Io ho bisogno d‘Anchise.
Già venni l’altro giorno per sapere
qualcosa sulla vita, sulla morte,
sulla gioia e il piacere dei piccoli esseri
che sono nel miei pelaghi.
Mi disse lui di tornare. -
- Va bene amico, dirò che ci sei,
apparirà di certo dagli azzurri silenzi..... -
- Chi mi chiama? con un gesto pose l’ali e tu chi sei?
Ah mi ricordo, la gioia, il dolore,
la vita, la morte......Credevo, mio amico,
che la morte fosse eterna e che la vita
sorgesse solamente per quei giorni
appena sufficienti a dimostrare
che esistesse la morte. E non potesse
sussistere né gioia né dolore;
solo parole vuote, solamente
vuote parole. Poi, dacché son morto,
e so ch’eterno sono perché morto,
provo gioia a volare ed il dolore
mi viene solamente dal pensiero
che vivo morte eterna. Ma io ti parlo
di un uomo che non vive e non esiste,
io ti parlo di Anchise prima che
indossi le sue ali e voli in cielo
fatto solo di nulla. Là nessuno
mi può vedere, né può domandare
le cose che non vissi. Tu sapessi
quanto è brutta la morte, questa morte
che non ha giuste risposte da dare;
è  per questo che solo
e solamente solo vivo il nulla o forse il tutto:
l’assenza, il dolore, il piacere, l’amore,
la vita, l’erranza. Lo senti l’odore
selvaggio di vita. L’odore di vita
che vibra nel lago. Non spira dal lago                      
- tu pensi sia quello - l’odore che respiri;
ti viene da un mondo che vivo da sempre,
e per questo non vivo. Lascia stare
i sentori, i silenzi. Da quel tempo
ch’io conobbi la morte, sai!, compresi
che ogni fatto è pur piccola cosa,
un semplice soffio che vuole imitare
l’idea del totale che esplode oltre i monti,
oltre i cieli. Ed è questo il tuo dolore,
è di un piccolo laghetto che sciacquetta.

La vedi la mia tomba. è proprio là
sfiorata dalla battima del fiume.
Io fui sepolto dalle voci mistiche
ch’ebbi dentro di me.
Mi dissero che il corpo era un involucro
inutile e nocivo, solo l’anima
doveva svolazzare sopra gli ambiti
che sempre amammo nella nostra vita.
Il corpo ormai si è spento, mi ha lasciato
un’immagine vaga dei suoi occhi
e del suo aspetto. - - Allora chi è che parla?
chi parlò con me, se non Anchise?
- Non t’ingannare amico. Anchise vola,
e quando non lo fa vive d’attesa
che non è vita. Quello di cui parli
è un’immagine immemore e deserta
di un uomo che ripete solo l’ombra
di un essere che fu. - - Anchise ascolta... -
- Anchise deve andare. Le sue ali
non possono restare. Qui s’ingrumano.
Non sono nate per restare a terra
tra i rumori di tarpe e gli squttî
dei corpi passeggeri. Cerca Anchise
levando i tuoi riflessi sopra i monti,
tra le nubi, al brulicare dei meriggi,
o nella sera seduto sulla luna
a itinerare attorno alla tue acque
che sono solo un falso accadimento. -
- Ed il tuo fiume, Anchise,
e la pineta e la capanna
attorno a cui, mi dici, che il tuo spirito
si aggirerà per sempre? - - Non capisci!
Allora non capisci, caro amico.
Se finita è la vita, io vivo pura
l’immagine che resta. Non ti credere
che sia lo stesso luogo che tu vivi
quello che vive in me. Né ti pensare
sia lo stesso profumo. La mia morte
equivale alla vita che è rinata
sfoltita di un reale troppo vero.
Io porterò con me ciò che non fui
nei cieli estremi e quel che fui sarà
immoto sulla sponda di quest’acque.
E non temere il mio fiume. Se in piena


io sarò fiume e andrò in seno al mio mare. -



- Mi riportano i tuoi chiari la memoria
di un giorno d’autunno su questi prati
lambiti dall’acque. Proprio qua
si ergeva un casolare. Gli abitanti
vivevano di terra e di pesca
e si aggiravano spesso nelle vicinanze
in cerca d’insalate per la cena.    
Era il turno dei ragazzi quella sera.
Flettevano raggi le chiarie;                                                       
e i pioppi ingialliti dal tempo
spargevano le spoglie di stagione.
Che misteri espandevi mio piccolo lago!
Ogni angolo, ogni ombra, ogni bisbiglio
attorno a me frugava                                                                                 
tra il morbido ondeggiare delle canne.
Forse è l’autunno. Sarà sicuramente la stagione
ad accostare il morire odorato di verde
al fluire leggero della vita.
Ma quello che vidi e ascoltai
- ancora non so se sogno o realtà -
era senz’altro frutto delle immagini
che dentro me rifugiate da tempo
sortivano i quesiti dell’esistere.
Ascolta le parole e ciò che vidi.


Apparizione                                                  

- Quanta luce! Che cosa splenderà
sopra il prato asfòdelo? Tu che vedi
nel cielo che effonde sopra di noi
tanto giorno accecante? - - Io vedo il sole,
ma il sole è di settembre
e l’aria, anche se chiara, annuncia sera;                  
è obliquo l’astro e credo
che non possa brillare così forte. -
In fondo al prato in mezzo ai rami d’oro
di un povero albigatto, si levava
tanto lucida un’immagine di donna
da sembrare infocata. Stava avvolta
in un candido velo. Attorno al capo,
folto di chiome bionde, risplendeva          
una luce  d’argento. Gli asfodeli
di per sé perlei, lucevano ancora
di più per il dolce incantamento.                              
- Non vedi tra le rame di quel pioppo
un’immagine di donna evanescente? -
E l’altro sbiancò il volto di stupore.
- Da allora l’aquilegia timorosa
rivolse a terra i sepali d’amore -
Mosse la  donna i labbri sopra i fiori
candidi avìti e tradizionalmente
pietosi per gli avelli. Le sue labbra
vibrarono di un tremito quasi invisibile
agli occhi umani: - Che cercate, voi,
in questo prato sacro dove un tempo
gli antichi si riunivano in preghiera
a libare con bianco latte e miele
per i loro defunti. Sempre viva
una fiamma nella sera s’incolora
su questo luogo sacro. Le corolle
si mettono a danzare e con i petali
si accostano, bisbigliano e nei loro
moti gentili parlano d’eterno,
di gioia, di dolore ai metafisici
colori settembrini. - Era il pittiere
arzillo sopra un ramo a molleggiare.
Guardava tutto e tutti, ora abbassando
ora alzando la coda tremolante.
Sul butto all’albigatto, tinteggiato
dal sole che calava, il solitario
cantava una romanza tanto dolce
e tanto triste che lo stesso sfagno
smise di soffocare le violette
ai trilli del volante. Mentre il cuculo
non avvisava ancora del vinchietto.
Salterellava  all’aria sempre zeppa
d’afrore di vinaccia. Cinciallegra
di nuovo era di nido, il torcicollo
scartava tra le frasche nell’attesa
dell’ora della canapa e la lodola
effondeva il suo canto d’oltrenube
da somigliare che cantasse il cielo                          
un po' rosso e un po' glauco. E l’usignolo?
E l’usignolo tutto ravvolgeva
con la sua melodia. Se il tuo udito
carezzato mai fu dalle sue note,
comprendere non puoi né la dolcezza
dell’amore né lo strazio del dolore.
Contiene la sua voce tutti i tasti
per la povera anima. Un ragazzo
(aveva fatto uno zufolo arcaico                 
nel tempo che le piante erano in succhio
e che  la scorza dolce si distacca)
diffondeva un lamento pastorale
sul cromatico piano. - Siamo gente
umile. Andiamo tra l’erba a cercare
cicerbite e cicoria per la mensa
che nostra madre ci appresta.
Siamo sempre venuti a questo piano
per cacciare, raccogliere l’erbette
o correre con ansito
in gare giovanili. - - Dolce immagine -
l’altro aggiunse - - Chi sei? sei la Madonna
forse che ci annunzia con miracolo
che ogni vita ha diritto di gioire
in questo prato sacro? o forse Diana
a ricordarci che di già i pagani
ci avevano avviato a questo rito                
tanto dolce e civile? - Alle macèe
coperte di papaveri e gramigna,
di ginestre, narcisi ed asfodeli
una gran luce (a un angolo del prato)                                   
squarciò le sponde aprendo un tempio eguale
a quelli della valle d’Agrigento.
La fanciulla in alba veste si spostò
nel cuore della cella. Melodiosa
levò una calda voce: - La natura
è sempre stata santa e nel settembre
ancora tanto più sa di mistero.
Volli venire al prato di settembre
un’altra volta a vivere la vita
il candore il dolore. Io fui vestale
di quando la mia fiamma perenne-
mente ardeva nel mezzo a questo spazio
dedicato agli dei e ai nostri morti.
Germinavano sacri gli asfodeli,
pietosi, e i loro semi continuarono                                          
a gemmare su questa densa terra.
Di me si volle offrire il sangue giovine
all’ara di Proserpina ché avesse
a cuore chi alla riva d’Acheronte
attendeva il passaggio. è di settembre
che il mio sangue calò. Rossa di sole,
di sole di settembre la mia ara
si tinse. Ora è rimasto solitario
e privo della bella gioventù
che si adornava di candide vesti
per le funebri feste, il mio sagrato.
Andava sui viali. Genuflessa
ed in preghiera pia ad affidarsi
al profumo dei gigli e alla clemenza
del volere d’Olimpo. è questo il tempio.
E là sotto quei fiori ancora nutre
l’anima mia il bianco del narciso
il rosso del papavero l’arancio
del corbezzolo la spina del ginepro. -


E presa la parvenza di un pavone
dalle tinte policrome
si dileguò nel cielo. Il tempio greco
scomparve da quel luogo. Continuarono
il solitario, la canipaiola,
il cuculo, il pittiere, l’usignolo,
la capinera, la lodola e gli altri
meravigliosi frulli del creato
a fondersi all’aria dell’angolo asfòdelo,
a squittire, a cantare, a svolazzare
radendo la vista dei due giovinetti.                                                                                                                   




I templi di Paestum



Chiusura 

Sopra l’azzurro del mare
e il perdersi odorato di fiume, una poiana
staglia la sua apertura e fende il cielo                                     
sbirciando dalle nubi la sua preda.
Indifferenti i gabbiani reali
i germani gli aironi al gorgheggiare
disperso tra le rame. Il sole tinge
l’arco dell’orizzonte; affoga in mare,                                     
quando i cormorani lentamente
ritornano alla foce. Si scurisce
gradatamente l’aria; è delle vispe rane
l’ultimo concerto e alle cannelle
odi dei tocchi al muoversi leggero
                                    delle fronde.










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