mercoledì 22 giugno 2011

Prefazione a "Là dove finiscono le case" di Dino Traina

Prefazione
a
Là dove finiscono le case, Il Portone Letteraria, Pisa 2001. Pp. 24 
di
Dino Traina


Pochi si avventurano tra spini e fradice calanche
  “dove finiscono le case”
in Dino Traina


Quante, già, nella prima lirica A una finestra le corrispondenze tra il mondo esterno e il dipanarsi della vita! Quel crocchio che si avvia, la coppia sola, chi va, chi viene, l’azzurro, il nero; e il tutto si snoda e si oggettiva in configurazioni naturali, in fatti e cose di ogni giorno, che si fanno taccuino di notes, motivo di turbamento, di riflessione, tentativo di volo, anche, oltre quegli spazi che spesso opprimono e che nel poeta sortiscono conclusioni di una realtà che logora i sogni “...desolate vite / ed una sola morte / fuori d’ogni compianto, morte sola / tra falde di memorie irraggiungibili / come per me quei sogni ora che dormi”. (Ora che dormi). Schegge di memoria che affondano le radici nel terriccio di un’anima sempre disposta comunque ad affacciarsi “A una finestra” per tentare di spaziare oltre i limiti. “Quest’altro giorno incerto che tu vedi / chi se ne va chi viene chi rimane / la stessa identità che si rimescola / è tutto quello che era già passato / .../ ed ognuno che sa l’azzurro e il nero / che troverà domani che gli resta.” (A una finestra).
Ma ci sono i monti con la loro fissità a circoscrivere l’orizzonte e il nero di una burrasca a presagire; “La fissità dei monti taglia il nero / forse d’una burrasca” (A una finestra); tanti i simboli che si raffigurano come contenitori di corpi, di volti, di tempi, di spazi. Tema principale è il tempo: fugge veloce e lascia le sue tracce in quegli ambiti ristretti che ci videro nativi dove la più semplice parvenza naturale assume il senso di un incontro, di un’azione, una promessa. “E sono solo i giorni che tu intendi / come fossero gli ultimi che vivi / a tramutare il tempo in esistenza, / il tempo che ci unisce e ci separa” (A una finestra). “...Padre / non si è dispersa dopo tanto tempo / la fioca luce del fanale.../” (Antica sera). “Forse t’accorgi, o forse no, che il tempo / non fa godere d’essere passato / per novant’anni.../” (Compleanno). “vola solo un momento quel che è stato / e quello che sarà se tutto il tempo / non è bastato a darti quella voce / ... /” (Compleanno). E la “sera” si fa “antica” e accentua i pensieri, le armonie, le cose: la ghiaia più chiara, il vento e la sua canzone, una fioca luce che gonfia la sua luminosità nel memoriale. E i ricordi rimasti a lungo a covare fuoriescono, si trasformano in immagini, che spesso ingrandiscono la stessa realtà per farla desiderio, porto di ancoraggio.
Non mi è accaduto spesso di constatare in un’opera contemporanea un’attenzione così mirata anche alla parte tecnica. Lo si fa in questa raccolta dove metrica e sentimenti, verso e sensazioni, si compattano in una stretta simbiosi. Basta prendere la poesia Antica sera dove il ritmo dattilico del terzo verso “prima di me sono passati...” varia in anapestico in una serie di endecasillabi successivi “non si è dispersa dopo tanto tempo / la fioca luce del fanale, ancora /.../” come se l’autore volesse trasformare la leggerezza della prime immagini per dare più corpo al ricordo dell’adolescenza, rivisitata ora, coll’alchimia della memoria: un uso del significante metrico che spesso si ripete, durante l’intero percorso, amalgamandosi coll’impiego di un endecasillabo armonico, strumento ad archi in sottofondo alla plasticità classicheggiante della struttura dell’opera. E questa è la caratteristica che consolida per classici questi versi: l’impiego di endecasillabi rivisitati, lavorati in corrispondenze e punti fermi a metà del verso, ma anche personalizzati e ricamati quasi come un macramè nelle più diverse filature: novenari col tonico sulla 2a-5a-8a sillaba, endecasillabi col tonico sulla 4a-7a-10a, o sulla 1a-6a-10a, 2a-6a-10a, 3a-6a-10a; decasillabi che variano il primo tonico e fissano gli altri due sulla 5a e la 9a; chiusure in settenari; versi comunque che rientrano tutti in un quadro di poesia endecasillaba che sa cambiare il registro a seconda dei tempi di uno spartito da grande sinfonia.
Ma quello che mi avvince forse di più in questa silloge è la costante e precisa geminatio di elementi semplici e familiari che nella mente e nell’anima di Tino Traina si contornano di una luce terrena e dolorosa, affidata alla duratura magia della poesia: il mare, l’arenile, la darsena “La darsena in tormento? Lì c’è il peso / che di per sé c’è dentro l’esser nati;” (Compleanno), i passi, la ghiaia, la porta col battente, le case, il fumo dei comignoli, l’albero del giardino. Il tempo passa, e tutto trascina e porta con sé, forse là dove finiscono le case “...In questa valle / il giorno sale ancora a poco a poco / a poco a poco scende, qui le tante / vite una sola vivono serena / necessità, la stessa consuetudine / come comprese tutte in un viaggio / l’unico che si può, inevitabile, / compagna l’una all’altra per un tratto / che non si sa, dove morire nascere / è un niente che si muove / quello che se ne va quello che torna / qui, dove finiscono le case.” (Dove finiscono le case) e “Ora se io ti cerco tu non torni / agli occhi solamente, ma mi assali / come trovato d’improvviso al giro / d’un angolo di strade o come il volto / che ti lampeggia conosciuto a un tratto / tra le onde d’una folla e poi scompare” (Ultimo giorno).
Alla fine il poeta “tra quelle nebbie ondula l’eterno / ogni memoria immàrmora / il tempo consumato” (Universo) lascia al lettore un grande spazio per associarlo a questa sua immagine esistenziale: se l’eterno continua la sua storia brumosa, riuscirà la memoria a rendere eterno il marmo, come lo sono i grandi marmi della storia? o il tempo consumato (anastroficamente) renderà marmo freddo ogni memoria? L’impiego di sapienti strumenti tecnici tipo l’enjambement, l’adynaton, l’iperbato, e in genere la padronanza capace di tante variazioni sullo stesso ordito, danno a questo autore il diritto di essere inserito tra il novero dei poeti del nostro tempo.


                                                       Nazario Pardini
Settembre 2001

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