giovedì 16 giugno 2011

Da "Si aggirava nei boschi una fanciulla", Edizioni E.T.S., Pisa 2000



Il mare               

E venne il mare.
Eppure il sole comandava al blu
di ridere con occhi luccicanti
sopra i salmastri verdi. Eppure i campi
gridavano dintorno spazi ricchi
di gigli e di campanule vibranti
ai venti maggiaioli. Ma la gente
di quel paese non aveva gli occhi
né l’anima.
                Volgevano fanciulle                                    
ciglia nerastre a terra e proferivano
spirito e corpo schiave di magnaccia
che promisero falsa libertà.
Sorrisi vani, mescolati a selve
frementi all’aria che spirava un mare
saporito di terre d’oltremare.
Ci vennero vicino, ci narrarono
dei tempi dei regimi che le tennero
lontane da Occidente, dalla musica,
dai libri, da ogni arte che parlasse
la lingua dei borghesi. Strane idee,                                          
che avrebbero corrotto il socialismo,
l’unico bene, l’unica ricchezza,
conquista del marxismo. Poi ci lesse
una di loro i versi che compose
un dissidente. (Era morto dopo
la fine del regime in Albania
nei disordini di una libertà
non ancora matura). Lacrimava
di nostalgia per una terra amara;
per la sua terra. Aveva solamente 
una memoria: un uomo biondo e magro                                 
che lasciò per le strade, proprio in quelle
dove si lotta sempre per avere
il diritto alla vita. Di politica
non si intendeva, lei voleva amare.                          





La fuga

Il rumore del popolo vaniva
allo strèpere del treno. Le madri,                              
i padri con i figli si accalcavano
alle barche. Non c’era più timore
tra di loro; bramavano soltanto
penetrare sulle luride zattere       
adatte per i porci. Si pestavano.
L’umanità spariva. I genitori
premevano le braccia sopra i corpi
indifesi dei figli. Dalle bocche
usciva un po' grigiastro ( come quando
si agita il vento nelle forre e porta
in alto il turbinìo) un fumo denso.
E si era aperto il mare. Là accalcati
gemiti umani defilati ai venti
zuppati di salmastri e di miraggi.
Era il fiottìo dell’onde ormai affidato
alle mani grecali. La speranza
era la fuga. Si pensava di certo
ad un paese nuovo
che offrisse quel motivo sacrosanto
di vivere di pace e di lavoro.
Lasciavano alle spalle quei natali
d’odio e d’eccidio di anni in cui il regime
aveva reso vano ogni pur minimo
valore di esistenza. Più la patria,
più la terra degli avi o un solo lembo
di cielo, d’orto, o di giardino che
ricordasse qualcosa della verde
giovinezza o della veneranda
vecchiaia, permaneva. Solo brama
di fuga. Solamente antiche voglie
di rinverdire libertà sognate
anche a rischio di morte o peggio ancora
di morte della prole, li spingevano
su quel mare turbato dalle grida
di speranza, di dolore e di sgomento
su fuscelli di legno. E venne terra.
Terra amara di scogli dove le onde
divelsero le mani abbarbicate
alle livide sponde. Dove i flutti                                 
con irruenza spesso si prendevano                                                                       
solo i corpi di carne. Ormai gli spiriti
avevano di già varcato i limiti
tra sogno e realtà, tra turbamento
e pace. Dai relitti galleggianti
si vide uscire un volo di falcate   
verso il cielo. Saranno stati angeli.
Ma forse solamente dei gabbiani
nelle sembianze uguali a stormi d’anime.





Carso

Sopra i suoli innevati dei declivi                                             
del Carso, ci apparve poi una donna                                       
novantenne, coi fiori nelle mani
tremolanti e insicure. Tra la neve               
(rossa neve di morte fu il suo dire
del quale noi restammo assai perplessi
e certamente avvinti) rovistava                  
per dissodare un varco. Poi si aprì
ai nostri occhi una voragine di un
cunicolo di monte. Sono tipiche,
in quei pianori carsici, le foibe.
Pochi i raggi di sole incastonati
in quei tepali brevi di stagione
tra la neve macchiata  dal livore
delle rocce supreme. Con la voce
rotta dall’emozione volse l’occhio                           
al nascosto strapiombo: “Inverne fosse
che contenete i resti di mio figlio
in fondo al ventre buio, ricevete
questi colori memori di luce.
Fate che questi sprazzi di giardino
che vide i nudi piedi barcollanti
di lui che fu bambino, gli ricoprano
i resti mescolati assieme a tanti
di cui conosco i nomi. Il solo cippo
al quale posso dire una preghiera
è questa nuda pietra, silenziosa
compagna di due legni messi in croce
che solo io conobbi e solo io
ne eressi l’esistenza. Troppe voci
non si udirono più, troppo potere
si scordò di quel sangue”. La mia anima
si rivolse alla donna che in silenzio                                        
chiedeva solamente                                                                                                                
rispetto del dolore. Ripeteva
le solite parole un po' sconnesse
tra di sé. “Coi camion, mi dicevano,                                       
li portano al lavoro. Camion zeppi
di giovani, di vecchi. Ma tornavano
vuoti. E vuoti ritornavano dai lividi
sentieri. Mi dicevano che i camion
li avrebbero portati sul lavoro
in cima al monte. E muti ritornavano,
ritornarono vuoti verso il piano”.
















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