martedì 20 maggio 2014

N. PARDINI: LETTURA DI “LA QUIETE DEI RESPIRI FONDATI” DI FERNANDO LENA





Fernando Lena: La quiete dei respiri fondati. Puntoacapo Editrice. I quaderni dell’Ussero. 2014
Pagg. 48. €. 8,00

Una quiete che può fiorire forse sull’assestamento dei nostri travagli

Poesia forte, coinvolgente, immediata, chiara i cui versi, con espansioni generose e audaci, intrise di una realtà vissuta su percorsi da via crucis, agganciano, con resa visiva, gli abbrivi emotivi dell’anima. Di un’anima che sente l’urgente bisogno di confessare, di dire, di comunicare dolori ed esperienze che, decantate da tempo in un cuore gonfio di vita, fuoriescono con polisemico ardore in un canto di proteiforme umanità, di doloroso impatto in un articolato linguistico di solida tenuta, diretto e nitido, denso ed espanso, che evita l’insidia dei luoghi comuni, l’armamentario di usi retorici. Un dire franco e verace tutto vòlto a concretizzare la densità di una grande e travagliata storia. 
Si tratta di una plaquette di 48 pagine de I QUADERNI DELL’USSERO a cura di Valeria Serofilli, edita con i caratteri della Casa Editrice puntoacapodi di Pasturana (AL). Un libro, come tutti quelli di questa Collezione Letteraria, ben fatto. Dalla presenza elegante che, con l’emblematica copertina raffigurante lo storico Caffè dell’Ussero e con l’autoptica esegesi prefativa della curatrice, fa da prodromico avvio ad una narrazione di stupefacente tragicità. E l’Autore narra e si narra, descrive e si descrive, affidandosi al corpo del suo dire, affidandosi ad una poesia che non debba parlare di bei tramonti o di autunni decadenti o di sperimenti panici. Ma di uomini e di donne che hanno provato a rinascere, ad uscire da un inferno che inghiotte, anima e corpo, dignità e libertà, agli occhi di chi è dentro o di un qualsiasi “cristiano” che ne è al di fuori. Qui c’è la vita, quella altra, quella, come afferma l’autore, di una “permanenza in un reparto del manicomio di Aversa….in uno di quegli edifici per la  riabilitazione… Un incontro fra menti disilluse… Convivervi ha generato in me uno sguardo poetico e crudele il quale a distanza di vent’anni mi ha spinto a riimmergermi in quel buio con la stessa rabbia che mi aveva concesso già un motivo in più per credere alla libertà”. 
E Lena canta, canta le sue pene intrufolandosi nel suo passato per farlo presente, attuale. E non cade mai nel becero sentimentalismo, o in una specie di pietismo che uno potrebbe, anche, aspettarsi da tali vicende; affatto! Narra con una obiettività emotiva che lascia di stucco. Ci sono dati, figure umane, situazioni che farebbero sobbalzare chiunque le avesse vissute. Fatti, appunto, sufficienti a scatenare risentimenti e scarti d’ira, linguaggi fuori misura come fuori misura sono tutte queste storie di grande disumanità. Ma qui, forse, ha giocato tanto la memoria a che la realtà più cruda si facesse immagine di un reale rivisto con animo più sereno; ripescato da un serbatoio memoriale che a volte può essere veduto anche con una certa melanconica nostalgia. D’altronde è un dei motori principali quello del ricordo nel fare da richiamo, da ritorno alla vita, pur trita e dolorosa essa sia. Lo afferma il poeta “Il ricordo ed il sogno sono i rivali più accaniti del dolore”. L’opera si divide in due parti: la prima di sole tre POESIE EDITE, come da titolo, in cui il poeta sembra servirsi di una natura ora dolce ora inquieta per esternare le  meditazioni sulla vicenda umana:

Il brivido del primo temporale
dilaga di assenze, di piastrine lucide
ancorate controtempo nel mare delle onde,
fino a quando la bramosia
di un scirocco migratore
porta con sé i ricordi fuori dal gioco.

I ricordi fuori dal gioco. Proprio quelli che riportano a tempi di burrasche e terre inondate dove l’acqua ha scavato “solchi grandi come avelli”, come afferma Baudelaire:

Voilà que j'ai touché l'automne des idées,
et qu'il faut employer la pelle et les râteaux
pour rassembler à neuf les terres inondées,
où l'eau creuse des trous grands comme des tombeaux.

Anche se, fra tutte le tempeste di una vita, c’è sempre un’attesa, un abbandono ad un lirismo psicologico di grande resa realistica:

_ eppure io ti aspetto
nel battito vulcanico
di troppi anni,
nel cuore forse
dei versificatori stanchi _

La seconda parte è costituita da un poemetto (La quiete dei respiri fondati) di XXX canti, contraddistinti, ognuno, da un numero romano. E quello che colpisce subito è l’ossimorico dualismo fra il fascino di una poesia che avvolge, e la crudezza dei contenuti; dacché è la dualità della vita, la contrapposizione fra gli estremi il sale e il pepe del poema;  è la dualità di un esistere, fatto di luce e di buio, di bene e di male, di albe e tramonti, di quiete e dolore a combinare lo struggimento del nostro esserc-ci.
       Una quiete che può fiorire forse sull’assestamento dei nostri travagli, sul ritorno a pensieri che un tempo ci resero di fuoco e che ora di cenere calda. Manicomio di Aversa. È così che inizia il Poemetto:


Sono le 22 di una sera d’ottobre un po’ gelida.
Davanti a me queste mura altissime
inquietano allegramente poiché la vera prigione
è il caos che mi setaccia dentro…

Un dire asciutto, apodittico, descrittivo di un’inquieta paradossale allegria. Un ossimoro che fa da incipitario annuncio a un percorso narrativo di turbamento rattenuto, o riposato. Sembra che l’Autore veda quasi da esterno, coinvolgendosi minimamente in un’avventura che lo tocca da vicino, anche se le sue vene conoscono l’alito dei cadaveri “mai del tutto seppelliti dall’indifferenza civile…”.
E si alternano momenti, figure, riflessioni, luoghi che riguardano non solo l’Autore, ma tutti noi in questa turbolenta via cosparsa di pene e di affanni che ci girano attorno. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, mi verrebbe da dire. E si legge di chi “Intinta da almeno cinquant’anni/ vive intrappolata/ nella coscienza di una bambina./…./ la sua follia ha una logica/ che la proietta nella libertà:/ ha scelto di non essere donna/ per contenere l’odore infernale/ degli uomini”, dove “ogni camera/ è un trionfo di piscio”, e dove “ la voce di Ciro/ ha il carisma dei flaconi di tavor/ che rivende dopo averli/ sottratti all’infermeria/ per comprarsi un po’ di vino…”; e s’incontra Milena, questa  figura infinitamente umana che si sperde fra i  raggi del sole:



 “Milena fissa il sole/ come se lo stesse invocando/ per una scottatura esilarante/ vuole essere cenere/ sperando che il vento/la soffi fuori…”, un soffio che sa di aspirazioni, di voli che si traslano facilmente dalla gabbia di Milena a quella degli uomini che tanto sono stretti dal  gioco del vivere. Qui Lena raggiunge delle vette di lirismo difficilmente eguagliabili, di un realismo lirico talmente espanso da proiettarsi simbolicamente sulla vicenda umana in quanto tale; però, pur drammatica, sempre controllata da robusti argini a che non esondi in sentimentalismo decadente. Insomma non vi scandalizzate perché questa è un po’ la simulazione della vita, dove si vive morendo e si muore vivendo; dove una “chiesetta accenna/ un do di campane/ però non è domenica/ quindi è solo/ un altro funerale…/ qui si muore e si vive/ con un tempo indifferente”, e dove “l’urlo supera/ il confine spinato/ evade da ogni/ camicia di forza/ avvolta in un lezzo/ di bestemmie/ incredibilmente/ mette in ordine/ l’identità/ delle lacrime:…”. E per sorprenderti ecco venirti incontro Cecilia. Esce dal buio con una vestaglia bianca per cercare un secondo del respiro di Lena… forse le basta per non soffocare ne solito pensiero di suicida: “Una come lei/ se ha una certezza/ è quella di essere primordiale/ come Eva bandita dal paradiso/ per avere tradito”.
       Un quadro plurale, totale, di polisemica tracciabilità umana e disumana, che tanto sa di vita. Lena sente con tale energia, con tale vis esperita che la sua storia gli sgorga dal cuore ispirato a puntino. Meditazioni, pensieri, illusioni, delusioni, tristezze, amarezze che si succedono increspandosi su una versificazione che lo segue fedelmente. Che lo ritratta con proteiforme duttilità tanto che la prosodica andatura si può permettere anche di trasgredire interpunzioni o regole morfosintattiche; si può permettere di usare verbi desueti per anime puritane; quel che conta è raggiungere il suo scopo principale: una libera confessione impossibilmente possibile dove c’è posto per tutti e persino per un topo che viene a godersi la sua boccata d’aria per poi sparire verso la puzza dei sogni; o per Suor Adelaide che da vent’anni aspetta un miracolo… invocando una deriva dolce per queste cavie, rischiando di morire per l’aggressione del suo discepolo più giovane…; o per Paolino che inizia a lacrimare per Maradona che aleggia sul prato; per Paolino che chiede alla felicità quello che altri calpestano da sempre. Tutto questo e tanto altro: la luna che piscia penombre, scarpe logore di schizofrenia, la trincea del tuo vomito, Franz nano che si arrampica su un raggio di sole, e mani che inconsapevoli porgono un po’ di morte. Di certo è che c’è un uomo; un uomo, che, reggendo a denti stretti la sua dignità in un inferno dove è più facile smarrirla che mantenerla, ha fatto della sua croce un grido di Bellezza; un urlo di Munch da un Fregio della vita.   
E l’amore? il sentimento dei sentimenti? il motore della vita?:

Forse ho solo amato
il ciclo terminale di un miraggio      

                                             Nazario Pardini

20/05/2014

Nessun commento:

Posta un commento