mercoledì 18 ottobre 2017

P. BALESTRIERE E N. PARDINI SU "IO, ORFEO..." DI U. CERIO

PASQUALE BALESTRIERE LEGGE
IO, ORFEO -NEL LABIRINTO-
DI UMBERTO CERIO
Pasquale Balestriere,
collaboratore di Lèucade


Ho letto più volte e con emozione questo intensissimo poemetto, permeato di sofferta partecipazione e connotato da accenti di profonda verità. Questo è un viaggio, mi son detto. Un viaggio particolare però, anche per l’assenza di notazioni spazio-temporali, che dice -letteralmente- una descensio ad inferos,  un cupo precipitare nell’ignoto, un perdersi irrefrenabile e irrevocabile; gelido, doloroso.
Perché i lettori intendano questo testo poetico nella sua pienezza e bellezza, va detto che esso trae origine da una situazione di grande difficoltà e pericolo che ha segnato la vita del poeta Umberto Cerio: un delicato intervento chirurgico, cui si fa cenno, in modo allusivo, in varie parti della poesia, che lo ha tenuto per lunghe ore “fuori” della vita  e che poi ha impegnato il Nostro in un’accanita resistenza, in una fiera lotta per la ripresa e per la sopravvivenza.
Tornando a questi versi che situano nel mito i loro protagonisti, deve essere immediatamente rilevata l’ambivalenza semantica della figura di Euridice, che è senz’altro -e in primo luogo- “una” donna o, se si vuole, “la” donna, intesa come compagna necessaria e insostituibile di tutta la vita; ma Euridice è anche -e  soprattutto- la vita stessa con la sua dote di speranza, di grazia e di bellezza. Per questo, per recuperare cioè questa dimensione vitale, il poeta, novello Orfeo, compie il suo viaggio in un aldilà cupo, estraneo, “maledetto”. Riuscirà a ritrovare la sua Euridice? Al lettore la scoperta.
Quanto a me, essendomi dilungato già troppo in una presentazione che dovrebbe essere breve per natura, aggiungo solo che sono rimasto davvero impressionato da questo testo poetico forte, sincero, talvolta icasticamente allusivo, in cui la vita si intreccia solidamente con il mito e con la poesia; che dice anche la non-vita; ma dove infine canta un cuore felicemente rinato.


Pasquale Balestriere


 UMBERTO CERIO
IO, ORFEO  - NEL LABIRINTO -
Di Nazario Pardini



Le mie foto
Nazario Pardini,
collaboratore di Lèucade


E inseguivo Euridice,
che ombra tra le ombre, si perdeva
fino a sparire in una nebbia ostile.
I miei passi, -e la flebile certezza-
sempre più arresi a vana speranza,                                                          
seppero vicino il precipizio
e l’angoscia della caduta
nell’improvviso spazio
del vuoto  ignoto della coscienza.

Umberto Cerio si presenta sull’isola con un nuovo poemetto strettamente legato ad una sua vicissitudine personale: un intervento a cuore aperto. Un viaggio, quindi, un odeporico intento, un nostos in cui il poeta va alla ricerca di sé, della luce, della vita in un momento di assenza dell’organo degli organi: di quello che tiene i nostri abbrivi emotivi, le nostre vertigini esistenziali, i nostri azzardi oltre la ragione, oltre l’omologazione tesa ad azzerare quella spiritualità che ci fa umani, soggetti a cadere nel regno degli inferi, nel regno buio delle tenebre, fra le rocce che squarciano la carne:

Ma io precipito, cado nel vuoto
nero, sbattendo sulle dure rocce.
Sanguina il mio corpo, sanguina
il mio cuore e lascia lunghe le tracce
del suo dolore oscuro
e il petto mi si squarcia, dilaniato
dalle lame feroci delle rocce.

Un vuoto fra la vita e la morte, in cui l’anima tiene sempre impresso il volto dei giorni felici:

Dove sono le stelle
e gli occhi della mia donna in amore
dopo il fragore del crollo
che improvviso portò buio e silenzio?

Un metaforico allungo pieno di significanza ontologica. Ma nel viaggio c’è un’isola in cui approdiamo prima del porto finale; quella del rifornimento, del rimessaggio, quella di un bilancio momentaneo, dell’aggiornamento della carta nautica; è lì che facciamo il punto della situazione: riflettiamo, ripeschiamo le memorie, riviviamo i rischi e le difficoltà incontrati fino ad allora, e aspiriamo, sì aspiriamo a raggiungere la meta; ci organizziamo, rinvigorendo le forze; cercando energie nuove nascoste dentro di noi per la risalita; per il canto di un nuovo Orfeo:

Pietra dopo pietra e ombra dopo
ombra cerco la luce.
So che il mio canto tonerà
a smuovere macigni
a scuotere gli alberi dei boschi
a rendere mansueti gli animali
a placare gli uomini selvaggi.
Il canto mi renderà Euridice
e ci riporterà al Sole
e questa cava testuggine
che sempre offre suoni così dolci
renderà più bello il mio canto
quando risplenderà a me vicina.

Si fanno vive, corpose, e tracimanti le memorie; il loro serbatoio contiene le immagini di un lungo cammino:

Le notti passate col fremito
della mia dolce Euridice?

 Ed è così che focalizziamo il punto d’arrivo; la meta dettata da una mente rinvigorita, trovatasi sola senza il compagno della vita. È qui, durante le quattro ore in cui il poeta si sfronta  con la morte, quando tutto è in mano di coloro che in camice bianco giocano sul suo esistere, proprio in questa fase, si conferma la natura poetica del nostro; si fa più potente, più visiva; i personaggi intervengono con più virulenza; appaiono più significanti nel loro ruolo:

Era vero ciò che il mio canto
otteneva, oppure era inganno
di Persefone il turbamento
e lo sguardo incredulo di Ade
per noi che tornavamo alla luce
e alla vita del mondo superno?

Ecco la mitopoietica; quella che fa del mito la rielaborazione della vita personale; la contestualizzazione di una realtà a volte crudele, a volte feconda. Tutto si fa simbolo, estremamente dialettico e plurale, poeticamente affabulante. L’amore ideale sembra vincere su thanatos; si incarna in Euridice, sogno, vita, luce, rinascita; la navigazione vede il faro dell’isola agognata. Il viaggio si completa. Appare la sagoma della foce; si torna al reale. Il risveglio è il sublime. Una voce: “Tutto bene”. E accanto la moglie che, come la luce del vero, del bene, e del sacro, forse piangente e tesa per i rischi corsi dal suo navigante, l'abbraccia risalito ai lampi del giorno: 

Euridice era lì. Io tornavo.
Alla forza del fremito di vita
che impazzito tempestava la linfa
che aspettava il tumulto vitale,
l’esplosione improvvisa della luce.
E il sangue di nuovo
premeva nelle vene e nel cuore.
Scomparvero le nottole urlando.
Tornarono i frutti della terra.

 Nazario Pardini


IO, ORFEO  - NEL LABIRINTO –
Umberto Cerio,
collaboratore di Lèucade


E inseguivo Euridice,
che ombra tra le ombre, si perdeva
fino a sparire in una nebbia ostile.
I miei passi, -e la flebile certezza-
sempre più arresi a vana speranza,         seppero vicino il precipizio
e l’angoscia della caduta
nell’improvviso spazio
del vuoto  ignoto della coscienza.
Non c’era più la luna
e il manto delle stelle
e i noti sentieri
né il sole i fiumi e le montagne
né la cetra del  canto mio di luce.
Conobbi altre certezze
-atroce cateratta di straniero
fiume turbinoso in piena-
senza speranza di catarsi,
ormai smarrito nel labirinto
oscuro del corpo e dell’anima.

Questo gelido vento
che l’anima in vortice divora
e il corpo fiacca e frantuma,
le ombre dei morti inchioda alle rocce
-e tremano degli Inferi gli abissi-
dove vuole portare anima e corpo
che sprofondano in buio atroce?
E’ questo dell’impassibile Ade
del Tartaro il regno
dove si addensano ombre famose
e anonime di  morti?
E sono io Orfeo che cerca
Euridice ritrovata e perduta?
E perché Caronte mi nega
il secondo passaggio?
E dov’è la mia Euridice
e dov’è tutta la mia vita.
I ricordi scavalcano il fiato
del lamento dei morti e volano
con la mia caduta lunga, feroce,
e perdono la luce della vita.
Quali sorrisi lievi mi donavi,
mia dolce Euridice,
quale bellezza del tuo corpo
donavi ai miei nervi tesi
e la fragranza dolce
dell’abbraccio al tuo respiro.
E i tuoi occhi profondi come il mare
che già altro gorgo preannunziavano
se a sera le braccia mi tendevi.
Maledetto del serpe il morso
e Aristeo che ti ha inseguita
nell’erba alta della morte.

Ma io precipito, cado nel vuoto
nero, sbattendo sulle dure rocce.
Sanguina il mio corpo, sanguina
il mio cuore e lascia lunghe le tracce
del suo dolore oscuro
e il petto mi si squarcia, dilaniato
dalle lame feroci delle rocce.
Questo vento gelido, furibondo
straniero e malvagio
continua a trascinarmi tra scogli aguzzi
che ancora, ancora mi tagliano il petto
e il cuore senza più sangue
nel buio sempre più tetro e amaro.
Oh la vita con la mia Euridice!
vissuta nei giorni del Sole
nelle notti delle tede e la luce
sui nostri occhi e sui volti
dall’amore fatti divini.
Quale fiamma scaldava i nostri corpi
o mia fragile, mia dolce Euridice!
-la tua chioma ed il corpo fragrante-.

Cado, cado! E precipito nel buio
profondo, maledetto
tra spuntoni delle rocce sporgenti
-acre lacerarsi di nervi e carne-
-dolore al cuore trasmesso e alla mente-
che son divenuti memoria
appena svegliato dal nulla
di una notte solitaria
ove ricomincia vita precaria
che incompiuta speranza si aspetta
dai detriti della vita passata.
Ma dove sono le stelle impazzite?
Le notti passate col fremito
della mia dolce Euridice?
Dove sono i Mani che si pieghino
al mio desiderio di riavere
Euridice alla vita del Sole?
Era vero ciò che il mio canto
otteneva, oppure era inganno
di Persefone il turbamento
e lo sguardo incredulo di Ade
per noi che tornavamo alla luce
e alla vita del mondo superno?
Poi il tuono e lo schianto,
un baleno più forte dell’Averno
ogni cosa travolse
e scomparve Euridice e la strada.
Il buio lungo fu il tutto,
e nero precipizio fu lo sbalzo
che stavamo salendo,
precipizio che ancora mi percuote
mentre cerco la mia Euridice.

Dove sono le stelle
e gli occhi della mia donna in amore
dopo il fragore del crollo
che improvviso portò buio e silenzio?
Il mio canto più non ha senso,
più non commuove le fiere selvagge,
non fa più tremare le rocce
e gli alberi delle foreste.
Restano lame di pietre taglienti
che strappano la mia carne
e tagliano le mie ossa.
Sono questi gli Inferi
dove cercavo la mia donna,
dove si consuma l’involontario
martirio e la vita di Orfeo?
Le ombre che vedo nel buio
sono davvero le ombre dei morti,
o vaneggia la mia mente?

Ma ecco, la tempesta si arresta,
si arresta infine la caduta,
ma più non c’è cielo sole o stelle.
Resta la memoria di ogni frammento
del tempo e dello spazio
e torna il gioco della memoria,
l’altalena dell’attesa insonne,
la ricerca di ombre conosciute.
Si placa lo scempio delle mie membra
e l’inconscio dolore.
Ricomincia il respiro: quanto tempo
è passato, che cosa è accaduto
al mio corpo, quali ferite?

E quel che noi cercammo
il primo barlume ci diede,
un po’ cieco un po’ luce su abissi
discesi atrocemente in precipizio:
la difficile strada del ritorno
senza la dolce mia Euridice.
Ed io, martoriato Orfeo,
comincio a risalire i dirupi
e le stanze orrende ed informi
delle ombre stupite,
incredule della mia risalita,
così, così i supplicati Mani,
così Persefone addolorata
mentre stranita il volto nasconde,
così l’incredulo Ade, in guisa
di mortale, si pone ad ascoltare.
Pietra dopo pietra e ombra dopo
ombra cerco la luce.
So che il mio canto tonerà
a smuovere macigni
a scuotere gli alberi dei boschi
a rendere mansueti gli animali
a placare gli uomini selvaggi.
Il canto mi renderà Euridice
e ci riporterà al Sole
e questa cava testuggine
che sempre offre suoni così dolci
renderà più bello il mio canto
quando risplenderà a me vicina.

Canterò la mia donna
lungo le rive del freddo Strimone,
tra l’erba alta dei serpenti,
i templi sconosciuti degli Dei
minori per uccidere Aristeo.
E pregherò i Mani e Persefone
dal tenero cuore pietoso
-e l’acre, ostile, oscuro Caronte-
perché viva a me la diano ancora.
E la cercherò tra costellazioni
segrete, più lontane dalla terra,
dagli spazi bui e sconfinati.
Tra l’una e l’altra riva del freddo
Strimone chiamerò la mia dolce
Euridice. Griderò “Euridice!....
Euridice”! e forse risponderanno
per lei le due sponde del fiume
e mi diranno il non luogo
dove ancora cercarla.

Ma era stata un’esplosione
primordiale con un rombo infinito,
con la sua luce informe e violenta
e il tuono irrefrenabile del buio
che sprofonda nel nostro universo.
Non c’è la distesa del cielo
di quando in volo inseguivo i gabbiani
e gli aironi leggeri
sul canto azzurro del mare,
quel mare dall’arenile selvaggio
silenzioso e solitario
che ogni volta mi affascinava
e mi stregava con l’onda leggera
di una danza sconosciuta e segreta,
mare che aveva profumo d’estate
e della nostra giovinezza,
che infrangeva tempo di clessidra
e spazio di aria di terra e di luce,
quando i sogni avevano colori
di speranze e di sicuro futuro.
Nelle notti serene
noi leggevamo nelle nubi bianche
e nei bagliori della luna
il fremito della tua tenerezza.
Ed ora tutti i crolli
-crollata anche l’illusione-
hanno distrutto la via del ritorno.
Da qui non si torna indietro nel tempo
e non si torna alla luce del Sole,
agli spazi gioiosi della terra.
Si deve cercare uscita certa
nella bigia incertezza dell’oltre
-tra le siepi di pietre aguzze
e taglienti- dall’esito incerto-.
Devo ancora vedere altre ombre
nelle nicchie oscure e nascoste
delle rocce  fredde e nodose.
Ombre di grandi eroi
e di anonimi grigi guerrieri.
Sono negli Inferi strani e dubbiosi:
le ombre dal colore della morte
dal dolore delle ferite
ma senza il sentore del sangue.

Dove sei mia dolce Euridice?
Tu mi hai portato il vento,
le tempeste del buio della notte.
Tu mi hai portato il Sole
e la luce del meriggio infuocato
e i lenti canti dell’aia
al sapore dei frutti succosi
al crepitio del grano
che fragile cedeva alla falce
impietosa tagliente e dolorosa.
Tu mi hai portato le primavere
e i pomiferi autunni
tra le stoppie chinate alla terra
delle timide allodole al canto.
Eri alla luce alle soglie del Sole, 
al di là del sogno e della morte
e lenta rinveniva la coscienza:
con me già respirava Euridice,
-la tenera cercata Euridice-
tra la mestizia di ombre senza vita.

D’improvviso dal buio della notte
fu il giorno. Si svegliarono
e tremarono gli alberi e le rocce
e piansero di gioia le Driadi.
Euridice era lì. Io tornavo.
Alla forza del fremito di vita
che impazzito tempestava la linfa
che aspettava il tumulto vitale,
l’esplosione improvvisa della luce.
E il sangue di nuovo
premeva nelle vene e nel cuore.
Scomparvero le nottole urlando.
Tornarono i frutti della terra.


Umberto Cerio

7 commenti:

  1. Una lectio magistralis di tre grandi di questa meravigliosa isola: poesia, critica letteraria, racconto, storia, humanitas, omnia sunt ibi. Un vero capolavoro di arte poetica e di vena interpretativa.
    Mariagrazia

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  2. Ti sono veramente gtato per la tua nota, che, anche se breve, è densa e esaustiva. Grazie
    Umberto Cerio

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  3. Un grazie a U.Cerio che regalandoci questo straordinario poemetto ci ha fatto partecipi di una sua personale storia oscura, buia, incerta e infida come quella del dolore e della malattia, e grazie soprattutto per essere riuscito a insegnarci che la poesia è un’immensa riparatrice di lutti, di sofferenze, di dubbi, di angosce. La fabula chiarisce la storia di un viaggio di discesa agli Inferi, e Orfeo è l’adiuvante, che può anche dubitare: “Il mio canto più non ha senso,/ più non commuove le fiere selvagge,/ non fa più tremare le rocce/ e gli alberi delle foreste…”
    L’esperienza drammatica ci coinvolge emotivamente, senza enfasi e senza lamenti. Per lui gli antagonisti diventano Ade, Caronte,le ombre tutte … e il paesaggio si deforma emotivamente: “Non c’era più la luna/ e il manto delle stelle/ e i noti sentieri/né il sole i fiumi e le montagne/ né la cetra del canto mio di luce…”
    Ma è pur una esperienza di conoscenza, nella perdita di ogni certezza nella caduta nel vuoto, sbattendo su dure rocce: “Conobbi altre certezze/ -atroce cateratta di straniero/ fiume turbinoso in piena-/ senza speranza di catarsi,/ormai smarrito nel labirinto…”.
    Rimane ferma,certa,Euridice, “Il canto mi renderà Euridice/ e ci riporterà al Sole…” e d’improvviso dal buio della notte fu il giorno.
    O potenza del mito, sempre vivo e vitale!

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  4. Mi ha fatto molto riflettere questa fascinosa e poetica rivisitazione del mito di Orfeo, svolta sotto lo stimolo di una dolorosissima vicenda personale. Noto una differenza fondamentale: Orfeo perde Euridice, tornando alla luce dagli inferi, mentre il Nostro, al contrario, la ritrova. Orfeo torna sconfitto e disperato dall'Ade, sapendo di avere lasciato la sua vera vita là; il Nostro invece, nel tornare dalle tenebre, trova Euridice ad attenderlo, con tutto ciò che metaforicamente può comportare. Non credo sia una differenza di poco conto. Il canto di Umberto Cerio è catartico, quello di Orfeo non lo è. Dove il mitico cantore non riesce a guarire dalle malattie del cuore, il Nostro invece, liberato da quelle trappole mortali, restituisce al cuore la rigenerazione di battiti incorruttibili e la bellezza di emozioni purificate. Ringrazio Umberto per avermi (averci) dato la gioia di questa rinascita.
    Franco Campegiani

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  5. Complimenti a U.Cerio...per questa rivisitazione del topos della catabasi, un viaggio per riscoprire il buio di un'assenza, la luce di un ritorno! A volte si deve perdere, o rischiare di perdere qualcosa, per riscoprirne il valore. Emanuele Aloisi.

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  6. Grazie all'autore e ai nostri meravigliosi critici: Pasquale e Nazario. Il mito di Orfeo e Euridice assolve alla sua funzione rivelatrice. In fondo, è sempre rimasta una domanda: Perché mai Orfeo si voltò perdendo per sempre la sua Euridice? La vita, la consapevolezza della stessa, la forza dell'amore hanno portato il nostro autore alla ri-conoscenza. Bellissimo testo.

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  7. Quello che ci ha affascinato non è stato tanto la storia conosciutissima di Orfeo ed Euridice quanto la delicatezza e le sofferte ferite disegnate magistralmente dai versi dell'autore; sempre lucido, mai fuori dagli schemi, Umberto Cerio continua, con pazienza e capacità, a cercare una via, un cammino meno tortuoso, con una determinazione tipica dei personaggi che molto hanno nell'anima e che desiderano trasmettere le proprie sensazioni a un pubblico preparato, attento e non distratto. E' comunque sempre il mito che primeggia nelle sue interessanti e particolari pubblicazioni. Molto si potrebbe scrivere sull'autore. Molto ci sarebbe da meditare sui suoi versi. In questo breve vol d'oiseau vorremmo far presente a Umberto Cerio di non abbandonare la sua emozionante ricerca ma di continuare in questo meraviglioso iter che, forse un giorno non lontano, lo porterà finalmente alla luce “Pietra dopo pietra e ombra dopo / ombra cerco la luce”. Quale luce? La luce che è nel suo cuore.
    Giannicola Ceccarossi

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