mercoledì 23 maggio 2018

CLAUDIO FIORENTINI SU: "LA MACCHINA ANATOMICA" DI L. SANDON



Claudio Fiorentini,
collaboratore di Lèucade

Le opere letterarie che vanno per la maggiore sono gialli, noir e incredibili raccolte erotiche che ti fanno credere che il mondo sia popolato da giustizieri, commissari, magistrati, criminali e assatanati. Si prova più gusto se invece parliamo di giustiziere, criminalesse, magistrate, e... assatanate. Insomma, delle migliaia di romanzi che vengono pubblicati, pochi brillano per originalità, ma ci insegnano, tutti, chi sono i buoni, chi sono i cattivi, e come si fanno certe cose nell’intimità. Troviamo, quindi, molti titoli di dubbio valore che, invece di proporre valori, si adeguano alla tendenza del mercato, o almeno di quello che percepiamo come tale.
Quando però capita di leggere un libro che esce da queste riduzioni schematiche, occorre parlarne. È il caso di alcuni romanzi ad ambientamento storico che sembra abbiano una decorosa collocazione nella letteratura contemporanea, e ancor di più è il caso del libro che presentiamo oggi, un piccolo gioiello che propone un misto di immaginazione, di erudizione e di saggia scrittura.
Lucio Sandon è un autore che conosciamo, l’abbiamo già presentato quando il suo trentottesimo elefante ha fatto vivere la storia di Annibale raccontata dal figlio che il condottiero non ha voluto sacrificare a Tanit, un importante elemento della narrazione che l’autore ripropone anche in questo libro.
Ma chi è Tanit?
Tanit era la dea che deteneva il posto più importante a Cartagine e significativamente, per una città prettamente commerciale, la sua effigie compariva nella maggior parte delle monete della città punica.
Tanit era una delle consorti di Baal ed era venerata come dea protettrice della città e godeva di speciali favori e venerazione da parte dei cittadini di Cartagine e del suo impero.

Dea cartaginese, quindi, e anche assetata di sangue. La ritroviamo nella macchina anatomica in ben altre vesti, quasi una dea protettrice che dialoga con il protagonista, Angelo, un architetto che, nel 1740 viene incaricato dal re borbone di cercare il tesoro di Alarico.
E ancora, chi era Alarico?

Alarico I, o Alarico dei Balti, noto anche come Flavio Alarico, Flavius Alaricus in latino (370 circa – Cosenza, 410), è stato Re dei Visigoti dal 395 alla morte. Fu l'autore del celebre saccheggio di Roma del 410 dopo il quale morì improvvisamente mentre si dirigeva forse verso l'Africa.

Lucio Sandon è un autore di romanzi fantastici ad ambientamento storico; un esperimento lodevole perché unisce alla ricerca e all’erudizione l’elemento fantastico che ci permette di immaginare una storia, di viverla in modo diverso, dandoci chiavi di lettura inedite che ci consentono di dire: e se fosse stato così?

Eccolo, viene avanti.
Silenzioso, terribile. Invisibile, in questo nero di morte.
Il suo incedere nelle tenebre non produce alcun rumore.
Mentre si avvicina, non si riesce a intuire nemmeno la più piccola increspatura sull’acqua ferma del sotterraneo.
Ma le creature che, come me, abitano il buio, lo sentono ugualmente. Nessuno lo vede, però quando lui si avvicina tutto il mondo dell’oscurità diventa immediatamente consapevole del suo sopraggiungere, e improvvisamente, qui sotto, tutti i suoni si cristallizzano in una lunga pausa di silenzio.
Hanno paura di lui, tutti hanno paura di lui.
Tremano perché sanno perfettamente che, quando andrà via, porterà con sé qualcuno di loro, qualcuno che non farà più ritorno.
Ora si sta avvicinando a me: ecco, in questo momento riesco a udire distintamente il suo respiro pesante, il suo delicato e agghiacciante sciabordio nell’acqua immobile e demoniaca di questo abisso.
Non riesco a vederlo, ma so che i suoi occhi di pietra invisibili e crudeli mi hanno già individuato nel profondo dell’oscurità, in cui ormai vivo da tempo, e mi stanno già fissando immoti, dal buio profondo del fossato. Si è fermato esattamente qui di fronte. È venuto proprio da me, perché è sicuro di ricevere il tributo che gli è dovuto. Lui è certo che lo avrà, lo aspettavo e lo sa.

È così che Lucio Sandon introduce la storia. Un prologo misterioso, un corsivo che non chiarisce, ma incuriosisce. Ora entriamo nel romanzo, e per farlo entriamo anche nei sotterranei del Maschio Angioino dove il protagonista è rinchiuso da mesi, e dove nasce la sua amicizia con un … coccodrillo.

Napoli, Castel Nuovo
Giugno 1740

Credo che sia un maschio, non me ne intendo molto di coccodrilli. Grosso lo è di certo, anche troppo per i miei gusti. Per forza, lui al contrario di me mangia bene, anzi sicuramente mangia meglio qui che nel posto in cui è nato. Non so esattamente come abbia fatto ad arrivare fino al porto della mia città e poi infilarsi dentro a questa prigione: probabilmente, quando era un tenero cucciolo di poche settimane, potrebbe essere rimasto incastrato alla catena di un’ancora o magari è possibile che si sia aggrappato al fasciame di qualche bastimento nel porto di Alessandria d’Egitto o da dove diavolo vengono questi mostri, e abbia navigato fino ai nostri moli come clandestino inconsapevole.
Arrivato qui, sarà stato sicuramente facile per lui penetrare dal porto nel fossato del castello, e poi trovarsi una tana sicura qui sotto. Prima di vederlo con i miei occhi, ero convinto che il coccodrillo
del Maschio Angioino fosse solo una leggenda: in tutte le taverne, e in verità anche nei salotti buoni di questa città, ne avevo spesso sentito discutere. Il mostro corazzato che infesta i sotterranei di Castel Nuovo era un argomento che andava per la maggiore in città, almeno fino a qualche mese fa. Adesso non saprei.
Non frequento più le taverne, e tantomeno i salotti, buoni o meno. Ora che potrei disquisire di lui in tutti i particolari, sapendo descriverne con minuzia le scaglie rugose del suo dorso, il suo aspetto terribile e le relative abitudini alimentari ancora peggiori, non ho invece assolutamente nessuno con cui condividere le mie impressioni. Anzi, credo proprio che tra non molto farò esperienza diretta dei denti del mio feroce compagno di prigionia, dopodiché del sottoscritto resteranno solo dei bei ricordi.

“Il Maschio Angioino ha due locali sotterranei adibiti a prigioni: uno si chiamava “fossa del miglio” un altro “prigione della congiura dei Baroni”.  Il primo era un deposito per il grano, poi utilizzato come prigione, e prese il nome di “fossa del coccodrillo”. Narra la leggenda che i prigionieri ivi rinchiusi scomparivano all’improvviso; fu allora predisposto un controllo maggiore e si venne a conoscenza della presenza di un coccodrillo che entrava da un’apertura nella parete, azzannava i prigionieri e li trascinava con sé in mare. Pare che l’animale fosse giunto a Napoli seguendo una nave proveniente dall’Egitto. L’uccisione del rettile fu attuata utilizzando come esca una coscia di cavallo.  Il coccodrillo fu poi impagliato ed appeso sulla porta d’ingresso.”

L’autore non prende di petto la storia per deformarla, ma ci gioca, la modella a piacimento, la sottomette all’immaginazione e la rende viva. I personaggi che incontriamo nei suoi libri non sono contorti come in Proust, sono semmai semplici come semplici erano le persone nelle epoche in cui è ambientata la macchina anatomica, e come è giusto che sia per un romanzo storico con tinte di giallo perché, anche se non sembra, un po’ di giallo c’è, ma nelle sue migliori tonalità.

Il comandante supremo dei Goti era ormai il fantasma del baldanzoso generale che, nella notte del 23 agosto di quello stesso anno, alla testa del suo esercito di fulvi e selvaggi guerrieri aveva messo a ferro e fuoco la capitale dell’impero romano, al termine di un crudele assedio.
I Visigoti, Wesgote nella loro lingua, eranbo una tribù di nomadi, originaria di una piccola isola al largo della Scandinavia. Si erano poi spostati nelle pianure danubiane, sospinti e cacciati verso est dell’avanzata delle legioni romane, oltre i confini della Dacia. 

Prima ho detto epoche, termine usato volutamente al plurale, perché l’autore, come avete appena ascoltato e come ha fatto anche con Il irentottesimo elefante, intreccia diverse narrazioni ricollegandole al presente narrato, in questo caso il settecento, a Napoli, quando il misterioso principe di Sansevero si diletta in esperimenti di oscura origine.

Nel giorno di San Giovanni, il sole si sposa con la luna e l’acqua fa l’amore con il fuoco. In fondo alle campagne si accendono grandi falò per glorificare il sole, propiziarne la benevolenza e anche per tener lontani quei demoni che nella notte precedente erano stati liberi di scorrazzare liberamente in giro per il mondo.
Lo sanno tutti. A San Giovanni, nel tempo brevissimo in cui sboccia un fiore, nel brillare di un fuoco e perfino nell’istante della morte, proprio allora si liberano le energie della natura. Nel suo seno, in
quell’attimo preciso, avviene uno sposalizio ed è proprio in quel momento magico, nel giorno di Mezza estate, che il cielo e la terra si uniscono in un rapido, tragico amplesso.
“La notte di San Giovanni destina il mosto, i matrimoni, il grano e il granturco” dice l’antico proverbio.
Tutto succede nella notte più breve prima del giorno più lungo dell’anno. Al culmine di quella notte, mentre una luna rossa andava ad affogare nel mare, all’interno della camera attrezzata del laboratorio
segreto nascosta nei sotterranei di Palazzo Sansevero, il sergente Antonio dè Monaci detto Totò aprì lentamente un occhio, si guardò intorno per qualche breve istante, poi lo richiuse immediatamente.
Non era possibile, stava sognando. Rimase per qualche secondo così, le palpebre strette per non vedere, in bilico, con la coscienza sospesa tra l’oblio della droga e la debole luce riflessa di una lontana lampada ad olio sul punto di spegnersi.
Dopo un tempo che gli sembrò lunghissimo, riaprì tutti e due gli occhi, ma una tremenda fitta di bruciore lo costrinse a stringere di nuovo le palpebre.


L’autore è dotato di grandi capacità narrative, lo si capisce benissimo da questo frammento che parte da una bellissima narrazione della notte di San Giovanni per poi sprofondare, lentamente, gradualmente nell’orrore delle palpebre che non si riescono ad aprire. Una narrazione a intarsi, come a intarsi vengono presentate le storie che si narrano, partendo dal passaggio da Alarico in Calabria, quindi la sua morte, la sua sepoltura, e con questa la sepoltura del suo incredibile tesoro, con tanto di candelabro d’oro a sette punte, la Menorah, altro straordinario spunto narrativo che consente di mettere sulle tracce di quel tesoro anche i cavalieri templari che come ombre si aggirano nella narrazione principale e alla fine incontrano Angelo, l’architetto protetto da Tanit, in un momento di narrazione corale che unisce gli elementi e li trasforma in pilastri dell’intera struttura del romanzo. Giustamente, questo accade verso la fine perché, in tutti i romanzi che si rispettano, non si può arrivare a conclusione senza prima narrare gran parte della storia.
Ma sentiamo di nuovo la voce dell’autore, che ci racconta il male:

Quando iniziò a mostrarsi, affacciandosi da dietro il fronte delle coltri compatte di nuvole antracite, l’alba del nuovo giorno si presentò scarlatta di fronte al mare, che con pazienza l’aveva attesa
per tutta la notte. Il sole, nel suo lento cammino di risalita da dietro le spalle del vulcano, quella mattina sembrava voler scivolare al di sopra delle tenebre. Lento e inesorabile, come la lama di un boia.
Era grigio e immobile, quel mattino il Mediterraneo. Più che un mare, sembrava un lago di pianura. La città dormiva ancora, intontita dall’umidità della notte, Fiordarancio, invece, era sveglio già da molto tempo prima dell’aurora e in quel momento, fermo nel centro dalla piazza, fissava il disco di fuoco che si affacciava alla notte. Osservava quello spettacolo della natura senza emozioni, semplicemente perché il suo cuore non ne conosceva.
In quel momento, con tutto il suo essere, lui pregustava solo la sofferenza che quella giornata gli avrebbe elargito, ma anche questo senza gioia e senza dolore, con lo stesso atteggiamento di
chi attende l’impiccagione di un feroce assassino sulla pubblica piazza.
La sofferenza era per lui un nutrimento, e lui anelava il suo cibo. Attendeva solo il momento in cui avrebbe avuto il permesso di scatenare i suoi istinti più neri, laggiù nel regno del suo padrone.
Quello era il posto più simile agli inferi, quelli che lui aveva sempre visto soltanto dipinti nei quadri, che Fiordarancio avesse mai sognato. Non aveva dormito molto quella notte: il suo pensiero correva sempre a lei, la sua prigioniera inerme nel sotterraneo, legata sopra un tavolo di marmo. Lui pregustava nella sua mente tutto quello che avrebbe fatto per trarre la maggiore soddisfazione possibile dal suo strazio. Un sorriso sghembo gli attraversò il viso.

Linguaggio denso, ritmo costante, ottimo lavoro redazionale e grande erudizione sono altri ingredienti che fanno di questo libro un’opera di pregio, che va letta con attenzione e che va anche studiata.
I personaggi, ben lontani da descrizioni proustiane, sono ricchi di sentimenti e di valori. Alcuni risultano anche grotteschi, è il caso di re Carlo terzo, altri sono trattati con profonda delicatezza, plasmandosi nella storia per il valore che gli danno, perché questo rappresentano: un valore umano. È il caso del robusto sergente Cicciotto e del capo dei templari, o anche di Fiordarancio, un personaggio secondario che diventa primario perché unisce i due elementi: il bene e il male. Ed è proprio Fiordarancio uno spunto importante: sappiamo chi sono i buoni e sappiamo chi sono i cattivi, ma questi sono solo cattivi?
Tra le pagine più belle del libro segnalo proprio quelle che parlano della nascita di Fiordarancio, un mostro sia fisicamente che umanamente, ma pur sempre un uomo, vittima inconsapevole della disgrazia umana.

Tutti lo chiamavano Fiordarancio, ma nessuno ne sapeva il perché. Forse nemmeno lui avrebbe saputo dirlo, sempre se ne
avesse avuta l’intenzione, ma semplicemente lui non ci aveva mai pensato. Alcuni pensavano quel nome fosse dovuto ai suoi capelli biondo-rossicci, ma probabilmente chi, all’epoca, per la prima volta, aveva suggerito quel soprannome conosceva la leggenda secondo la quale il primo albero delle arance era stato piantato da Dio stesso nel giardino delle tre figlie della Notte. E lui era figlio della notte.
La mamma di Fiordarancio, fin da giovanissima, si era sempre venduta a chiunque per pochi spiccioli, ma non era mai rimasta incastrata da gravidanze indesiderate, un po’ per una buona dose di fortuna, ma anche perché aveva imparato tutti i trucchi da sua madre, la quale, essendo una vera e propria strega, conosceva tutti i metodi e tutte le erbe da usare per evitare la malaugurata evenienza.
Dal momento in cui aveva raggiunto la quarantina, smarriti i suoi flussi mensili e perduto quasi tutti i denti, la brava donna aveva pensato di essere definitivamente fuori pericolo e stante anche l’allarmante diminuzione della clientela, aveva eliminato parecchie precauzioni. Il diavolo invece, come si sa, è sempre in agguato dietro l’angolo e un bel giorno lei si accorse di aspettare un figlio. Quella rogna non se l’aspettava. Cercò di ricordare, di risalire a chi potesse essere stato il colpevole, e come potesse essere capitata una disgrazia del genere. Quando ritornò con la mente alle settimane precedenti, rabbrividì, nonostante fosse una tiepida giornata di fine aprile: la lista dei potenziali indiziati avrebbe potuto ben figurare nel museo degli orrori, ma comunque decise che non era il caso di pensarci troppo. Aveva ben chiaro cosa fare.
Si preparò immediatamente un decotto potentissimo, lo ingurgitò tutto d’un fiato superando il disgusto per la sua puzza mefitica, ma pregustandone gli effetti sul suo corpo, e attese con fiducia. Lo aveva tracannato tutto, fino all’ultimo residuo nero e amarissimo, ed era sicura che avrebbe funzionato subito, come le altre volte. Passarono alcune ore: nulla, nemmeno una goccia di sangue o un crampo, un indizio che il veleno con il quale voleva uccidere il suo bambino avesse sortito qualche effetto, ma non successe niente. Provò anche a trafiggere quel corpo che cresceva dentro di sé usando un ferro da calza, ma quello reagiva attaccandosi a lei con maggior vigore e scalciandole dolorosamente il ventre dall’interno.
Lo odiava, lo odiava con tutto il suo cuore di mamma. Attese il momento del parto tra i morsi della fame. Nessuno,
infatti, voleva più avvicinarsi al suo corpo sformato e ai suoi occhi allucinati. Quando finalmente venne l’ora, era notte fonda. Fece tutto da sola, prese il fagotto insanguinato e urlante e lo gettò tra l’immondizia, all’angolo della strada, poi tornò alla sua misera stanza e cadde sfinita sul letto, il suo posto di lavoro.
Morì dissanguata prima dell’alba.

E i personaggi femminili? Certo, le epoche e le epopee narrate lasciano spazi narginali alla sfera femminile, ma rimangono pur sempre dei pilastri perché lo spirito guida è sempre l’amore. Quindi il ruolo di Marianna, la donna di Angelo, di carattere forte e di tempra invisiabile, Rosina, la mamma di Angelo, l’unica a conoscere il segreto di Tanit, la stessa Tanit che sorveglia e manipola la realtà con la sua misteriosa potenza.
E infine, la macchina anatomica, cos’è veramente? Sentiamo:

La realizzazione dei modelli fu commissionata da Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, ad un anatomista palermitano, tale Giuseppe Salerno, intorno al 1763. L'eccezionale realizzazione del sistema circolatorio artificiale dei modelli ha alimentato la credenza popolare secondo cui i due corpi sarebbero stati il risultato di esperimenti alchemici condotti dal Principe di Sansevero su due servi ancora in vita. Nel 2008 i ricercatori dell'University College London hanno ricevuto l'autorizzazione da parte degli attuali proprietari della cappella ad eseguire esami scientifici sui due modelli; da tali studi è emerso che gli scheletri sono effettivamente umani, ma i sistemi circolatori sono completamente artificiali e costituiti da filo metallico, cera colorata e fibre di seta con tecniche artigianali comunemente utilizzate dagli studiosi di anatomia dell'epoca.

Ed è qui che la storia supera la realtà e l’autore ci sorprende nel finale con una macchina anatomica figlia di una altro, meraviglioso mistero, che rivive in un sogno letterario che ci fa dire con un filo di impietosa speranza: e... se fosse veramente così?
 
Claudio Fiorentini

Nessun commento:

Posta un commento