venerdì 25 ottobre 2019

FRANCO CAMPEGIANI LEGGE: "ASSAGGI CRITICI" DI P. BALESTRIERE


Assaggi critici - Pasquale Balestriere - copertina




Assaggi critici, di Pasquale Balestriere
(Genesi Editrice, maggio 2018)

Franco Campegiani,
collaboratore di Lèucade

Nel maggio 2018 Genesi Editrice ha dato alle stampe "Assaggi critici" di Pasquale Balestriere, Primo Premio I Murazzi per l'inedito dello stesso anno, indetto dall'Editrice. Nell'opera, la raffinata intelligenza critica dell'autore ha avuto modo di sbizzarrirsi prendendo spunto dal poeta latino Orazio, conclamato maestro di eleganza nel circolo di Mecenate. Successivamente lo studioso ha esteso lo sguardo su alcuni massimi protagonisti della letteratura del Novecento, come Dino Campana, Pasquale Festa Campanile, Giorgio Barberi Squarotti, per giungere ad alcune voci di autori viventi di spicco, come Spagnuolo e Ruffilli, e concludendo infine con altri validi scrittori italiani.
Confesso di essere stato combattuto se parlare di questo saggio, o meno. Un certo pudore m'impediva di farlo perché fra gli autori commentati figura anche il mio nome (e ne sono molto lusingato), ma il lavoro di Balestriere è importante e merita di essere evidenziato a prescindere da questa considerazione personale. Dunque mi sono deciso a farlo. Come dicevo, gli Assaggi critici si aprono con pagine di grande spessore investigativo sul poeta latino Orazio, vissuto nel primo secolo avanti Cristo in una fase cruciale della storia romana, tra Cesare e Augusto, tra la fine della Repubblica e l'inizio del Principato che aprirà le porte all'Impero.
L'autore passa in rassegna varie opere del grande venosino (dalle Satire agli Epodi, dalle Odi alle Epistole) e si diffonde in pagine esemplari sulla radice epicurea, con venature stoiche, della sua poesia squisitamente armonica, "aliena da estremismi clamorosi e forse anche velleitari", a dispetto dell'inquietudine e dell'angoscia da cui è attraversata, in considerazione soprattutto del tempo che fugge e della natura mortale. C'è poi tanto spazio per l'eros, intensamente vissuto, ma sempre limpido e privo di foschie, per non dire del vina liques di cui il poeta è grande conoscitore: di quel vino che rallegra, donando "serenità d'animo ed equilibrata adesione alla vita". Da qui il carpe diem, invito a godere dei piaceri della vita senza abusarne.
"Qualcuno, sostiene Balestriere, potrebbe essere indotto a pensare a Orazio come a un libertino. Niente di più falso". Il suo messaggio, infatti, è di "vivere in modo onesto e tranquillo, sobrio e vero, con coraggio e parsimonia, con civiltà e lealtà, difendendo la giustizia, la religione e la patria, confidando nella missione imperiale di Roma nel mondo. E consiglia morigeratezza alle matrone e grande serietà, anzi severità, nel processo educativo dei futuri cittadini e soldati". Ligio ai dettami epicurei, che qui curiosamente sembrano coincidere con quelli dell'ascetismo nirvanico, egli si tiene lontano dalle passioni che danno dolore, prodigandosi per il dominio degli istinti e della vita sentimentale.
Dopo questo primo assaggio critico, dedicato ad un poeta classico universalmente noto per il senso della misura e dell'equilibrio, lo sguardo di Balestriere si sposta, con un salto di millenni, verso un autore contemporaneo, Dino Campana, fautore di una poetica diametralmente opposta, visionaria, allucinata e folle, titanica, pervasa da "onirismo evocativo e medianico", che fissa "una realtà profonda e oscura che reclama di essere condotta alla luce". Fascinosa espressione dell'Orfismo contemporaneo, questa poetica tenta morbosamente di catturare gli dei fuggiti dal mondo, senza ovviamente riuscire nell'irrealizzabile impresa.
Altra cosa è la sana, frizzante e sorridente follia del carpe diem, quel lasciarsi andare di Orazio ai sani piaceri, ma la storia dell'equilibrio è ovviamente pervasa di squilibri da equilibrare: un equilibrio mai statico, ma sempre in azione. E arriviamo al terzo cardine di questo stimolante elaborato, dove l'occhio investigativo si sofferma su un personaggio fondamentale della letteratura dei nostri tempi: Giorgio Barberi Squarotti, l'agguerrito critico che tutti conosciamo, di cui si esaminano alcune sillogi elaborate tra il 2006 e il 2011 in un surrealismo fluente e immaginifico, sostenuto da stile limpido e controllato. Un amante della bellezza, Squarotti, femminile soprattutto, che dipinge la serenità  in punta di penna ,"pur se, al fondo, non si fatica a trovare la consapevolezza della sofferenza e della violenza che intridono la vita".
Subito dopo lo sguardo si appunta su Paolo Ruffilli, cui sono dedicati ben tre capitoli, con l'analisi di quattro testi fondamentali: due in versi,"Affari di cuore" (2011) e "Natura morta" (2012), e due in prosa, "Un'altra vita" (2010) e "L'isola e il sogno" (2011). "Poesia come processo creativo ma, prima ancora, come atto cognitivo", dice Balestriere, purché non si pensi ad una conoscenza teoretica, bensì ad una conoscenza come consapevolezza di vita, esperienza vissuta, reale. "Poesia che si fa cosa", commenta, a proposito di "Natura morta", mentre per "Affari di cuore" evidenzia il "linguaggio spudoratamente nuovo e inedito nel dire dei sensi e dei sentimenti, di impulsi e di battaglie, del cuore gonfio di sangue vitale, di vene e arterie che pulsano impazzite".
"Una descensio ad inferos fin nel magma tumultuoso della passione", aggiunge, dove tuttavia regna incontrastato "il verso breve, talvolta scolpito in tre/quattro sillabe, che dice l'ansimo della passione, lo scoppio dei sensi". E parlando di "Natura morta", specifica: "Ruffilli è tanto smisurato nel sentire quanto asciutto nell'esprimere, convinto com'è che la poesia non possa essere altro che sottrazione estrema, anche feroce". Occorre tuttavia che qualcosa da sottrarre ci sia: quel vulcano di tumulti interiori, quel tornado di sentimenti e passioni da illimpidire, solo apparentemente lontano dalle onde tranquille e dall'aurea mediocritas dello spirito oraziano. "Dire tanto con pochi segni", ripete infine, soffermandosi su "Un'altra vita".
Rigore ed emotività fusi in un solo respiro, per citare un noto motto di Braque a proposito della pittura: programma assai caro allo studioso ischitano impegnato in altro campo espressivo. Ne "L'isola e il sogno", da lui definita labirintica, con riferimento alle travolgenti passioni amorose e politiche di Ippolito Nievo, il poeta garibaldino morto naufrago nel mare di Ischia nella notte del 4 / 5 marzo 1861, in realtà Ruffilli - così argomenta Balestriere - concede molto più spazio alla parola che non in altri suoi elaborati. Ma subito aggiunge che "la sua scrittura, pur sempre sobria, composta e quasi severa, ma meno laconica, nulla perde in intensità... in urgenza o in efficacia".
Quale sia pertanto l'ideale estetico di Balestriere, risulta evidente. Sta tutto nell'urgenza di chiarezza e di rigore formale - che è anche morale ed intellettuale - imposto all'onda emotiva dall'esercizio della scrittura. Ciò che più sta a cuore allo studioso, in queste attente disamine, è l'istanza di equilibrio tra il dentro e il fuori; l'incontro del conscio con l'inconscio sul piano scritturale; la familiarità tra il livello discorsivo dei segni e quello dei sogni e dei moti interiori. Turbolenza e austerità in equilibrio tra di loro. Ed è da queste premesse, improntate a un'esigenza di profonda armonia, che si sviluppa l'appunto riservato a un'opera demitizzante e dissacrante di Pasquale Festa Campanile, "Uno strano amore" (1983), Premio Campiello dell'84.
Questa narrazione tende all'umanizzazione di personaggi agiografici come San Giuseppe e la sacra famiglia, sfatandone la valenza sacrale loro assegnata dalla tradizione. Dice Balestriere che l'orizzonte d'attesa di Festa Campanile, da intendersi come "pubblico a cui rivolgersi", è quello della società materialistica e consumistica dei tempi attuali, e ciò è un bene, ma la contaminatio risulta alla fine sgradevole, per cui il critico si chiede "se valesse la pena che l'autore operasse tale scelta discutibile", mentre "avrebbe potuto scegliere di scrivere una storia ex novo". Un'opera, secondo Balestriere, che, pur notevole sotto il profilo scritturale, penalizza la valenza mitica e leggendaria necessaria per storie di tal fatta, e perciò risulta sbilanciata.
Dopodiché sfila una carrellata di validissimi autori in pagine di grande acume e forte partecipazione emotiva. Si parte da Maria Ebe Argenti, che in Dell'anima e del cuore "esorcizza il male e lo risolve in occasione di riscatto, in motivo di canto", per giungere a Carla Baroni che, in Rose di luce offre una visione della morte "che non ha nulla di tragico" e "nulla di orrendo", e che "si esaurisce nel trionfo della luce", dacché "la poesia è sempre poesia della vita. Anche quando parla della morte". Segue l'esame di ben quattro raccolte di Giannicola Ceccarossi (in particolare Dove l'erba trasuda narcisi del 2014), "testimonianza di un animo umanamente inquieto, che cerca... la composizione, e forse il totale superamento, degli affetti terreni in una dimensione... iperurania, se non propriamente spirituale e sacrale".
Quindi è la volta di Umberto Cerio (La luce o del gioco delle memorie, 2016), con la sua poesia che "rampolla dalla vita reale, con il suo carico di gioie e di dolori... (e) se ne solleva, depurandosi del torbido e delle scorie dell'hic et nunc e cercando una dimensione spirituale... in una recuperata misura di saggezza... Perché la luce e il buio come la vita e la morte sono complementari, proprio come facce di una stessa medaglia". Ed eccoci a Nazario Pardini, di cui si analizzano due intense raccolte poetiche (Foglie di campo, aghi di pino, scaglie di mare, del '93, e Alla volta di Leucade, del '99), dominate dal "motivo del ricordo e del rimpianto... in un contesto naturale - elegiaco e insieme georgico - ... dove si realizza e trova compimento un tipo di poesia... che erompe da pienezza di cuore e da tripudio d'affetti".
Una poesia, quella di Pardini, ricca di colti richiami "per una sottesa solida filosofia che aderisce saldamente alla vita e alle cose, pur nella consapevolezza della loro precarietà". Balestriere dedica un secondo capitolo al poeta toscano, prendendo in esame l'aspetto esegetico della sua scrittura, di cui coglie la valenza squisitamente intuitiva ed estetica, "prevalente sul dato puramente critico", soffermandosi su Lettura di testi di autori contemporanei del 2014. La carrellata continua con Gianni Rescigno, di cui l'autore esamina Un sogno che sosta (2014), soffermandosi su una poetica "votata all'essenzialità", nonché all'intreccio di realismo e simbolismo, di lessico quotidiano e parlar figurato, in un binomio strettissimo di terra e cielo, di sangue e spiritualità.
Altra voce poetica, quella di Serena Siniscalco, dei cui Poesiari (in particolare Il Poesiario IX, 2014) il critico apprezza la sobrietà dei toni, "la serietà, lontana dagli estremismi, sapida di humanitas, con qualche punta di piacevole ironia". Quindi è la volta di Antonio Spagnuolo, con Oltre lo smeriglio (2014), un canto orfico, tenero e disperato, dedicato alla donna scomparsa, alla sua assenza/presenza "dolcemente ingannevole, amaramente reale". Ed ecco infine Inventario di settembre (2015), di Umberto Vicaretti, metafora dell'"autunno della vita", di cui si esaltano il labor limae e ancora una volta l'ideale di classicità. Di questo ideale si torna a parlare in dettaglio nell'ultimo capitolo, dopo aver affrontato, in L'accento nella traslitterazione del Greco antico l'interessante discussione filologica della corretta dizione di termini il cui uso gergale si discosta dalla grammatica.
Per quanto concerne il capitolo conclusivo, trovo molto stimolante, infine, il seguente pensiero, denso di sviluppi riflessivi: "certamente parametro di bellezza, armonia, pulizia, ordine interiore, misura, (la classicità) non va però imitata, ma... rivissuta, senza rimpianti e nostalgie e, nei limiti possibili del nostro tempo, reinterpretata, ricreata e riproposta... nella sua profondità, nei valori essenziali che sono quelli dell'humanitas nel senso più ampio del termine. Intendo dire che i classici non sapevano di essere (o che sarebbero stati ritenuti) tali: non erano certo chiusi in una torre d'avorio (dove poi li ha incastonati, relegati e cristallizzati un'ottusa ammirazione) ". Un'estensione davvero ammirevole del concetto di "classicità", fino a diventare sinonimo di "umanità" (di humanitas), nel senso più pieno e sempre attuale del termine.
                                               
                                     Franco Campegiani


3 commenti:

  1. L'ho già detto in privato e lo ripeto qui su Leucade: l'amico Franco Campegiani ha percorso il libro con pazienza e sapienza, con diligenza e dottrina; ne ha detto con chiarezza e partecipazione struttura e contenuti, squadernando l'opera davanti agli occhi del lettore e mettendolo in condizione di capirne, pur senza averla letta, le caratteristiche fondamentali, in termini di note critiche e spunti esegetici.
    In poche parole Franco ha colto e sottolineato, con la ben nota acutezza, gli aspetti salienti del libro, come appunto una nota recensiva deve fare, e li ha offerti al lettore con generosa dovizia.
    Grazie infinite a Franco per il notevole impegno profuso in questa non facile operazione; e affettuosamente grazie a Nazario per lo spazio messo a disposizione.
    Pasquale Balestriere

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  2. Mi complimento vivamente con questi due notevoli studiosi-Balestriere e Campegiani_ che alla competenza e bravura uniscono quella importante dote che si chiama chiarezza..
    Grazie!
    Edda Conte

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  3. RICEVO E PUBBLICO

    Caro Franco, grazie per aver ricordato nella tua recensione anche i "piccolini" come me, inseriti nei saggi di Pasquale per la grande magnanimità dell'Autore. Però essere stata messa accanto ad Orazio, anche soltanto per locazione cartacea, fa sì che mi dia delle arie.
    Ciao e grazie

    Carla

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