sabato 12 ottobre 2019

NAZARIO P. LEGGE: "L'ALTRO RODARI" DI M. GRAZIA FERRARIS



M. Grazia Ferraris,
collaboratrice di Lèucade

Maria Grazia Ferraris, studiosa e attenta divulgatrice dell’opera rodariana, si accinge a illustrare e a ricordarci, a cento anni dalla nascita del poeta, la molteplicità scritturale, la apparente  semplicità metrico-esistenziale, gli intenti più nascosti, e soprattutto quelli che erano i suoi desideri più segreti: scrivere per adulti.  Ma in effetti tutta la sua opera lo era. Non c’è riga dei suoi canti da cui non si possa trarre motivo di riflessione sugli uomini; sul loro esistere; sul loro comportamento, eros thanatos, vicissitudini, piaceri e dolori. Poesia complessa, totale, umanamente indagatrice, la sua: le radici, il memoriale, il sociale, l’autobiografismo… Numerose  possono essere le chiavi di lettura.  E nei messaggi poetici fa sempre intendere che tutti siamo stati bambini ma pochi sono quelli che se lo ricordano. La Ferraris, con proteiforme versatilità, con acribia culturale, e con plurale competenza, ci spiattella nel suo saggio le varie tappe di questo autentico e vero scrittore che mai dimentica di essere uomo, di possedere quei valori che ci fanno essere umani, nel bene e nel male. Credo che la letteratura critica abbia interpretato parzialmente lo spirito di Rodari; che non abbia capito fino in fondo la grandezza sociale, estetica ed etica di questo autore; la sua modernità, la sua attualità, il suo essere innovativo, sia nello stile che nel suo racconto-apologo.            
In ogni sua poesia c’è un insegnamento forte e audace, semplice e naturale: la storiografia avrebbe dovuto insistere su questo aspetto. Ciò che fa la Ferraris mettendo in evidenza la peculiarità della sua funzione col ricorso alla rotondità della vena ispirativa, all’unicità e profondità dei suoi scritti  che, pur operando a livello didascalico, mai vengono meno a quello che lo spirito del canto pretende: libertà, sentimento, ispirazione, musicalità, semplicità comunicativa, partecipazione e vita: il fatto di esistere che in lui sfodera tutta la sua complessità, con l’inquietudine, la turbolenza, il malum, lo splenetico travaglio esistenziale. Tutto questo emerge dalla sua produzione ed è con il suo  stile, parole giusta nel verso giusto, che sa trasmettere la pluirivocità dell’esserci, facendo della natura una coadiutrice assidua nel reificare sentimenti e pensieri. Così conclude la Ferraris toccando il nerbo scoperto della questione: “… E’  davvero quella di Rodari  la testimonianza di un uomo inquieto, che ha lavorato e faticato, senza desistere, ma che sa che il mestiere più difficile è forse quello di vivere, e dare senso alle nostre vicende, ai sogni e alle rinunce, e giunto alla fine del viaggio, che presagisce ormai prossima, anche se senza meta definita,  in un qualche modo- un po’ amaro, ma anche scanzonato e ironico- doloroso, incoraggia, corteggia la morte. Eppure nella sua vita si è sforzato continuamente, insistentemente  di “rubare una rosa al padrone di casa”, di “respirare la sua parte di mattino /alla finestra della primavera”. Anche la primavera però sa essere crudele.

“Pendono squarciate le ali/ dell’eucalipto/  non volerà più/
nel cuore dei venti/ il grande uccello vegetale. Ma /
gli è rimasto un ramo,/ un grido verticale:/
 nel silenzio sordo del mondo/ la bellezza non tacerà.”

Nazario Pardini

L’altro Rodari: la forza della poesia, di M. Grazia Ferraris

Sembra che su Gianni Rodari (1920-1980) a cento anni dalla nascita, non ci sia ormai più niente da dire. La bibliografia sulla sua opera è corposa, sia per la ricostruzione biografica,  sia per l’analisi pedagogica,  sia per le analisi linguistiche raffinate intorno al suo stile, al suo racconto e alle sue filastrocche , che sono state magistralmente condotte da T. De Mauro e da A. Asor Rosa. Analisi didattiche e pedagogiche sono state compiute su tutti i suoi libri. La scuola l’ha saccheggiato.…
G. Rodari è entrato definitivamente nel canone letterario di <scrittore per l’infanzia > e come <uomo politico nella sinistra storica > italiana. Due etichette: indubbiamente vere, ma sicuramente riduttive che non ne rispettano la complessità umana e culturale. Manca uno spazio autonomo per lui nella storia della letteratura italiana, dove possa apparire nel posto che merita, nel capitolo Letteratura fantastica, e  nella Storia linguistica del nostro paese, per il contributo che ha dato dopo gli anni Cinquanta  alla diffusione e valorizzazione della lingua italiana; compare  solo nel capitolo, che sa molto di provvisorio e di incerto, di “ Letteratura di confine”, come appare oggi nella grande e  per molti aspetti meritoria letteratura Einaudi. Nessun rilievo è dato alla sua poesia.
Lui di sé poco parla in prima persona. Forse l’avrebbe voluto fare verso la fine della sua vita, quando dopo le poesie uscite su Il Caffè, nel ’68, manifestava qualche timida intenzione, di pubblicare poesie per adulti, svelando il suo “amore segreto”:

Amore segreto / segreta purità / come un fiume interrato/ che per grotte d’abissi/ sotto il suolo scorrendo/ un giorno eromperà, vedrà la luce/ e la specchierà cantando fra le rive/  e ora è un buio gorgoglio/e ignari della sua passione sepolta / sulla terra uomini e case / tramonti e vergogne /  e le stagioni si battagliano, /così per anni tu e me poesia / terribile parola / segreta nobiltà della mia vita / forza che turba i giorni più tranquilli / che incrina i vetri delle cento stanze/gli avvenimenti quotidiani/ e il suo grido imperioso e misterioso /  erompe improvviso, / a te si deve obbedire /cedere il passo all’onda che si gonfia / e per seguirla accettare / di scomparire-giurare obbedienza/ sorgi e cammina,/ chiama, riannoda il filo ininterrotto

Impiegherà molto tempo per ammettere questo amore irrinunciabile, avvicinandosi alla poesia con grande serietà e umiltà. Un esempio di questa sua ritrosia, lo possiamo cercare nelle parole che ricordano il suo esordio poetico: semplicità, quasi umile ridimensionamento, umorismo disincantato: “Facevo la terza elementare a Omegna, sul lago d’Orta, dove sono nato, quando scrissi su una carta assorbente i miei primi versi….La maestra lo mostrò al direttore. Ne venne pubblicata una…Questo fu il mio massimo successo in ogni tempo come poeta. Anche perché, raggiunta l’età della ragione e fatta conoscenza con le poesie di Montale, Saba, Ungaretti, Gatto, Quasimodo, ebbi il buon senso di capire che non avrei mai saputo scrivere cose tanto belle e smisi del tutto di scrivere.”
L’umorismo è una maschera graziosa, bonaria, allegra e arguta, divertente dietro la quale si celano i suoi dubbi severi, i suoi problemi esistenziali e filosofici, le utopie che ha continuato a corteggiare, i paradossi surreali che aprono la strada al metafisico, la sua coltivata modestia, da schivo pensatore.
“Avevo diciassette anni quando feci il proposito di starmi zitto, e uscivo dall’istituto magistrale per rientrare nella scuola dalla parte della cattedra, invece che da quella dei banchi. Ero troppo giovane per essere un buon maestro…A quell’età, come tutti i giovani, mi dedicavo soprattutto a me stesso, ai miei studi, alle mie letture, alle mie fantasticherie.. spero almeno di essere stato un maestro divertente. Difatti raccontavo storie…. Anni dopo lasciai la scuola per il giornalismo. …Quando un editore mi propose di raccoglierle in volume, ebbi di nuovo una pensata di buon senso, e invece di intitolare il libro <poesie> lo intitolai <filastrocche>....I miei prodotti finiti- siano filastrocche o favole- amo considerarli come giocattoli. Un buon giocattolo ha un posto importante…: mette in moto energie, fa lavorare, fa discutere, qualche volta fa anche pensare.

Ma la poesia in senso alto rimane la costante ricerca della sua vita. Il primo approccio è quello più intimista, il recupero del suo mondo affettivo. Poco  disposto a concedersi,  ritroviamo lo stesso tono dimesso, quasi evasivo, di nascondimento, allerta, senza mai esibizione, di antica ansia, toni e atmosfere fondamentalmente dolorose.
 I ricordi personali affettivi si mescolano con la storia della miseria della vita quotidiana di fine secolo nei nostri paesi- Omegna e Gavirate -, con l’emigrazione in atto e col ricordo dei primi moti socialisti della Lombardia, del ‘98. I genitori erano infatti lombardi, originari della Valcuvia. Giuseppe Rodari, il padre, nato nel 1878, come tanti giovani di quel tempo aveva lasciato la sua terra per cercare lavoro, dapprima ad Intra poi a Piedimulera in Piemonte, riuscendo poi a mettersi in proprio, con un forno da panificazione, ad Omegna, sul Lago d’Orta.
Il  padre morì sul finire degli anni venti. Rodari lo ricorda  in vari modi; dal  più intimo:

“… seduto su un sacco di riso violone vuoto a metà, con gli occhiali dalle lenti ovali sul naso che ora è mio, fornaio e anticlericale, l’uomo che chiuse gli occhi  per non vedermi vestito da Balilla, l’uomo che rivedo ogni volta che guardo il campanile di Omegna. Stessa espressione severa e ironica, stessa disperazione saggia e ostinata. Stessi occhi, campane a parte.” , al più affettuoso:
“ L’ultima immagine che conservo di mio padre è quella di un uomo che tenta invano di scaldarsi la schiena contro il suo forno. È fradicio e trema. È uscito sotto il temporale per aiutare un gattino rimasto isolato tra le pozzanghere. Morirà dopo sette giorni, di bronco-polmonite. A quei tempi non c’era la penicillina , al più melanconico, in un componimento poetico, pubblicato postumo da Einaudi, un ricordo lontano che affiora involontariamente durante un viaggio nell’URSS del ’79, dove si era recato per studiare il mondo infantile di quella vasta regione e si concentra in un grumo dolente di ricordi personali di un rapporto dolorosamente felice, finito troppo presto.

Oggi ho rivisto mio padre…./Ho visto d’improvviso,/mio padre bambino, /
lontano da casa, diviso dai suoi,/operaio di otto anni in un forno /tra le dure montagne dell’Ossola./Io l’ho riconosciuto nei bimbi sorridenti/che mi offrivano danzando il pane/della festa d’autunno, mi ha chiamato per nome dalla cupola dorata/ di quel grande, bellissimo pane: così sogna il pane chi ha fame/ e solo in sogno ne sente il profumo. Era contento, mio padre, e cantava/con le acute voci infantili/ come non l’ho mai udito cantare, quando era in vita./Nel mio cuore batteva forte il suo. Grazie, amici, per il dolce pane,/per i ricordi dolci e amari,/per mio padre bambino solo con la sua fatica/ a impastare nel dolore /il pane degli altri.

Verso la fine della sua vita il ricordo di entrambi i genitori si unisce in una lirica che riassume ed unifica passato e presente, e che dà peso affettivo , ma anche consapevolezza alla sua privatissima storia personale, includendo in questo bilancio  anche i suoi amati luoghi di nascita e di formazione adolescenziale:

Sono un uomo senza passato/ e me ne infischio del mio passato/
il mio passato è una bambina/ di sette anni che andava in cartiera/
e che io ho chiamato madre/i miei casi meschini/sono meno che merda/ di fronte alla sua paura alle sue piccole gioie così piccole/ che la storia non potrà registrarle nel mio passato c’è un uomo/ che ha impastato milioni di pani e che io ho chiamato padre../ la sua docile morte…
……. le montagne sono il mio passato i laghi prealpini e i loro pesci/ le stelle e i loro pianeti le candele e i loro altari/ le trottole i mitragliatori/ i nidi delle processionarie… io sono il mio passato…/me ne infischio del mio nome/
 posso perdermi senza rimpiangermi.. come si perde il sole ogni sera/ come si perdono le parole con cui si finge di vivere/ di essere un tale, quel tale, questo tale,questo stronzo.

E il peso dei ricordi è inteso come fonte di dolore e di poesia :

Ricordi, ciarpame, cascame,/ ma io posso sconfiggerti, memoria / perché a tuo dispetto, con rabbia e furore/ nel mucchio dei rifiuti/ posso scegliere,/ con mano furente il filo trovare / che mi lega agli uomini/ alla storia / al Kaiser, a Hitler a Gengiskhan / agli Albigesi, a Dachau alle pietre/ che hanno bevuto il sangue di Thälmannn..…. Vattene, memoria, / andate via, ricordini, patetici / croccanti delle sagre padronali file di castagne arrostite infilate,/campane, prati, ragazze, laghi/ autunni, primavere, boschi/io non vi accetto. 

Ricordi, studio, meditazione, affettività che si avvitano sul rimosso e si liberano. C’è posto importante anche per l’inconscio e i suoi conflitti, l’esperienza, la memoria, l’ideologia, la parola nelle sue variabili e funzioni.
Della sua famiglia di formazione, moglie e figlia, ci parla poco. Il privato, l’intimità,  tale devono rimanere.Tenerezza e affettuosità sono vivissime, ma anche queste permeate di preoccupazioni, di un senso intimo, inconfessato, di inadeguatezza.  Raccontano della figlia neonata in una poesia inedita e dell’affetto per la compagna della sua vita:

Se un giorno alle stelle si daranno nomi nuovi, io ne prenoto uno, una vispa stellina alla destra della Luna,per darle il nome della mia bambina La mia bambina sorride nel sonno,/..come un sorriso dimenticato con i piccoli pugni chiusi/ difende la sua cuccia, il suo respiro.
Tutto quello che ora le sussurro/ non le arriva là dentro, le più dolci parole le girano intorno/ come farfalle lenci sulla zanzariera scaldano il buio perché non le pesi sugli occhi/ e le dicano le più belle bugie per farle diventare vere.

Per la moglie: .. ma tu sei ben viva /e nostra figlia è vera / e sono veri i bambini di tutto il mondo e vero è il dolore/che bisogna cancellare/ vera la morte/ che bisogna morire vero l’amore/ che bisogna inventare

Le parole più forti sono quelle della paura e dell’ansia che vuole esorcizzare, (dolore , morte, amore da inventare, tormento, sforzo di esistere),delle illusioni cui vuole volontaristicamente credere in un momento felice, (farfalle lenci, belle bugie),  quelle dello sforzo eroico della volontà che cancellino l’impotenza e il male di vivere.
E più tardi, quando la figlia cresce e comincia a fare le sue scelte autonome:

Il gioco di fare da sola/ è quello che più ti tenta/ e già non vuoi che ti tenga la mano/ e ogni giorno vai più lontano/ per questo sono così pronto/ a dirti sempre di sì/ per ripagarmi fin d’ora/ del no che mi dovrai dire/ per essere giusta con te stessa.

Sapienza e vasta cultura. Nessuna ottimistica fiducia nella leggerezza del gioco. Nell’illusione della idealizzazione. Neppure in quelle davvero favolose novelle in cui il gioco della fantasia e del paradosso sembrano catturarlo completamente. Dietro alla trovata grottesca, ironica, traspare la carica del severo osservatore, dello psicologo introspettivo, del moralista infelice, del naturalista pessimista.  Riserbo, scarsa condivisione della propria intimità, dolore inconsolato che tenta costantemente di razionalizzare sono le sue costanti.
Come quello per la perdita degli amici. Due soli amici che rimangono come punto fermo della sua affettività privata, Nino Bianchi e Amedeo Marvelli, purtroppo morti giovanissimi: ritornano al suo ricordo durante il viaggio in Urss del ’64, nella poesia Il treno del Caucaso:

A. dorme in terra russa / ha tutte le Russie per cimitero/ e una tomba grande come il mondo, / se c’è un mondo grande come una tomba, /una steppa intera per un ragazzo / avvolto in un lungo mantello / gonfiato dall’astuccio del suo violino / parlavamo di Kant…,pedalando / tra le verdi colline / azzurro il lago dorato il vino / ero inquieto a lui daccanto / perché non sognava / né  si disperava”  ed io rimasi solo…solo e atterrito/ come l’uomo che si sveglia in treno/ e capisce che non tornerà dalla guerra.

Non ci sorprendono quindi la malinconia, la solitudine, il pianto inconsolato, l’infelicità, l’addio irrevocabile ai sogni della gioventù, tale da rasentare il nichilismo, della poesia che ha dedicato a Gavirate:

L’autunno è la mia patria,/ riconosco i suoi monti/ e gli alberi di cui ritrovo i nomi./I loro volti sereni e severi/ come per anni li ho portati in cuore
senza sospetto ma non senza piangerli/ oscuramente. Ritrovo i sentieri che furono miei,/ riascolto il vero suono del mio passo. Questa è stata la mia giovinezza,/ questo bosco prigioniero dei suoi rami, nutrito dai suoi profondi odori,/ vivo di mille morti,…il capanno in fondo alla pioggia. Non mi inganno, vi amo,/ amata prigione che odiai,/ dove solo i ricordi giacciono in pace,/ricordi di ricordi, impietose menzogne/ che la pietà di me mi fabbricava/per consolarmi di un meschino rifugio.

 La poesia è però anche speranza, forza di volontà, impegno, emozione politica,  sentimento,  passione autentica di quegli anni- siamo nel 1955-, quando come direttore di <Avanguardia>, organo della federazione giovanile comunista, in occasione dell’80esimo compleanno di papà Cervi scriverà :

Vecchio nodoso come un olmo antico,/ pianta potata dei suoi sette rami,
che dura scorza gli anni ed il nemico/ han fatto al mio volto, alle mie mani.
I Cervi, è buona terra: ara, nemico,/ affonda il vomero nelle mie carni,
coi pugnali dell’erpice colpisci:/ morte non puoi darmi, male non puoi farmi.
E’ buona terra questa carne antica,/ mieti, nemico, le mie sette spighe:
il grano non muore nel pane,/ non sono morti i miei sette figli
che hanno dato la vita alla vita. In tutto ciò che vive sono vivi,/ in tutto ciò che spera sono vivi, in tutto ciò che soffre e lotta e vive/ i miei figli sono sempre vivi

Accanto a questo grande nucleo di poesia intesa come emozione, espressione diretta dei sentimenti assistiamo in Rodari anche a una meditazione sul ruolo, significato, necessità  della poesia nella nostra società.

A Roma, in piazza dell’Argentina, /suona un ciechino la fisarmonica.
Si ferma la gente ogni mattina /a quella musica un po’ malinconica. Prima di correre a lavorare,/ prigionieri in una stanza, gli impiegati si fermano a fare/ provvista di musica e di speranza. Quando finisce la canzonetta/ si ricordano di avere fretta.

 È vero che le poesie sono come bolle di sapone, ma  salgono verso il cielo, come una preghiera, come una favola, piena d’ogni dolcezza che non si può perdere…giacché…
non ci sono abbastanza plotoni d’esecuzione/  in questo mondo e in ogni altro
per fucilare le bolle di sapone… Ed anche quando si conquista orgogliosamente la Luna, bisogna essere molto cauti….

Sulla Luna, per piacere, / non mandate un generale:
ne farebbe una caserma / con la tromba e il caporale.
Non mandateci un banchiere / sul satellite d’argento,
o lo mette in cassaforte / per mostrarlo a pagamento.
Non mandateci un ministro/ col suo seguito di uscieri:
empirebbe di scartoffie / i lunatici crateri.
Ha da essere un poeta /  sulla Luna ad allunare:
con la testa nella Luna/lui da un pezzo ci sa stare...

Il mondo in cui viviamo del resto, così affannato,  poco attento ed educato, si presta malvolentieri ad aprire il cuore alla poesia.
 Ed ecco emergere il pessimismo rodariano come in  “Situazione impoetica” :

E’ difficile leggere i poeti / in una casa senza pareti 
Il cristallo di Juan Ramon / lo sbriciolano le motorette,
lo friggono le canzonette / Gatto, Montale o Pasolini, 
come distinguere le loro parole / dall’audio dei vicini?
Povero Esenin, povero Pasternak, / sulle loro betulle / fioriscono i detersivi.
Zanzotto, Sanguineti, / dai vostri versi schizzano / confetti purgativi.
È la vita un mistero / o un telequiz a gettoni?….

Eppure non si deve desistere, scoraggiarsi:  la poesia è anche azzardo, il desiderio e volontà di salvarsi, speranza di cogliere l’autentico nella banalità delle norme, dei doveri e  delle prescrizioni del quotidiano:

Ho rubato una rosa / al padrone di casa. La primavera fa l’uomo ladro,/ la primavera e la finestra ventosa e l’aria di mille amori invasa la mia parte di mattino ho respirato / alla finestra della primavera ho pagato l’affitto / ma la rosa l’ho rubata

La vena surreale che si consolida sempre più nel tempo gli fa immaginare la Poesia come una allegoria, che non può fare a meno della sua componente ossimorica:  uno splendido pianoforte a vela. Ne ribadisce la forza nella storia fantastica di un pianoforte a vela che unisce paradossalmente le caratteristiche del fascino dello strumento musicale, antisentimentale e affamato d’ideale, con la leggerezza della vela che corre veloce e leggera sul mare.  È  l’ allegoria della pesantezza e arretratezza della cultura ufficiale, che non sa alzare un’unica, ideale bandiera, ma solo rafforzare le pesanti difese e della cultura accademica e l’espressione della speranza che, nel paradosso fantastico, la poesia salvi se stessa allontanandosi nel sole, armata solo di dissonanze a lunghissima gittata.

 C’era una volta un pianoforte a vela / che navigava di porto in porto,
sempre sul mare, vivendo di musica e di pesca,/ strumento di marea e non privo di ancora,… temperamento sportivo e dodecafonico/ che aveva giurato eterno odio ai romantici e ne sconsigliava l’ascolto…. Tali principi inevitabilmente gli valsero / l’odio di numerosi pianisti battenti ogni sorta di bandiere, /non c’ è da stupire né da rimanere di sasso apprendendo che essi organizzavano  /una flotta di corazzate e incrociatori,… allo scopo di colare a picco il pianoforte a vela. La spedizione salpò le ancore un lunedì mattina,/gran folla di patronesse, autorità religiose navali militari civili incivili… fin che la flotta non fu una manciata di note,/una collana di semibiscrome sparse all’orizzonte. Allora apparve da oriente e biancheggiò / una vela solitaria ammiccando ironicamente. Il pianoforte antiromantico si era armato /di dissonanze a lunghissima gittata….. si allontanò verso il sole / seguito da delfini elettronici e concerti in un mare finalmente mal temperato.”

Eppure il bilancio della sua vita, nonostante gli sforzi, l’impegno profuso, il lavoro costante, la lotta, la consolazione del dovere compiuto non è detto che sia del tutto rassicurante:

Io non sono che uno sforzo per esistere/ qualcosa che arranca/ nel nulla quotidiano per giungere alla sponda dell’essere/ mille volte ricade/ mille volte ritenta s’arrampica s’aggrappa/ e sa che non avrà/ se non questo tormento
e sa che saperlo una volta/ non è saperlo per sempre sempre bisogna imparare daccapo/ con sudore e con lacrime.

Rimangono al di là di ogni ragionevole dubbio però anche le poche certezze che diventano consolanti nella consapevolezza di aver speso la vita in cause non individualistiche né meschine, di aver collaborato a rendere più umano questo nostro mondo infelice, anche se l’ansia del futuro, la mancanza di risposte certe, l’affievolirsi delle speranze nella morte delle utopie, il sentimento della morte che si avvicina stanno diventando allarmanti:

Lo consolava la matematica degli insiemi. Riflettendo sui suoi casi facilmente scopriva /di far parte di numerosi insiemi così catalogabili: l’insieme degli uomini nati nel 1920,/l’insieme degli uomini nati nel 1920 ancora viventi, l’insieme di tutti i nati,…/l’insieme degli italiani sopravvissuti alla seconda guerra mondiale, l’insieme degli italiani che tremano per la terza,…

Col tempo si rese conto, non senza sentimento di orgoglio di essere un elemento di un insieme infinito/quale è certamente e al di là di ogni meschino dubbio l’insieme degli uomini reali e degli uomini immaginari. Scoprì con gioia di far parte di numerosi sottoinsiemi,/di insiemi universali, di insiemi disgiunti,/di insiemi complementari. Lo entusiasmò la certezza che mai, per soffiar di venti,/sarebbe precipitato in un insieme vuoto….. Ogni giorno aggiungeva/ all’inventario dei suoi insiemi  decine di nuovi interessanti raggruppamenti. Come avrebbe potuto sentirsi mai solo,/ o temere per le sue difese personali, contemplando l’insieme di tutti gli insiemi,/vedendolo crescere a vista d’occhio, docile ai suoi comandi? Mai vi fu un uomo più sicuro, più protetto, eserciti innumerevoli muovevano in suo soccorso/ da ogni parte del cosmo, dalle sterminate riserve dell’immaginazione,..

Eppure, di quando in quando, con frequenza irregolare,
guardandosi allo specchio o toccandosi una guancia,
 non vedeva che un’immagine un po’ assurda.

Chiusa la porta di casa,/oltre a lui non v’era anima viva nelle stanze.
La notte si destava inquieto… pensava stancamente un insieme /che costringesse almeno i fiori finti a schierarsi al suo fianco / e, <che sarà >, si domandava, <di me >. 

E’  davvero quella di Rodari  la testimonianza di un uomo inquieto, che ha lavorato e faticato, senza desistere, ma che sa che il mestiere più difficile è forse quello di vivere, e dare senso alle nostre vicende, ai sogni e alle rinunce, e giunto alla fine del viaggio, che presagisce ormai prossima, anche se senza meta definita,  in un qualche modo- un po’ amaro, ma anche scanzonato e ironico- doloroso, incoraggia, corteggia la morte.

Eppure nella sua vita si è sforzato continuamente, insistentemente  di “rubare una rosa al padrone di casa”, di “respirare la sua parte di mattino /alla finestra della primavera”.
Anche la primavera però sa essere crudele.

“Pendono squarciate le ali/ dell’eucalipto/  non volerà più/ nel cuore dei venti/ il grande uccello vegetale. Ma / gli è rimasto un ramo,/ un grido verticale:/ nel silenzio sordo del mondo/ la bellezza non tacerà.”

Maria Grazia Ferraris



5 commenti:

  1. un ringraziamento sentito al nostro Nazario, lettore acuto, preparato e generoso che ospita e commenta da par suo il mio lavoro su un aspetto del grande Rodari, di cui celebriamo in questo mese il centenario della nascita.

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  2. Il progresso scientifico-tecnologico ha portato l'uomo sulla luna e alcuni hanno stoltamente gioito per il colpo mortale inferto - secondo loro - alla poesia. "Finalmente la luna è stata tolta ai poeti, così zittiranno per sempre questi ubriaconi!". Gianni Rodari non si scompone, ha la risposta pronta, ironica, mordace: "Ha da essere un poeta / sulla Luna ad allunare / con la testa nella Luna / lui da un pezzo ci sa stare". Non c'è barba di positivismo che possa togliere di mezzo la poesia. Perché dovrebbe? da dove nasce questa intollerante e assurda pretesa che la verità stia tutta da una parte e l'errore dall'altra? Vogliamo capirlo, o no, che è un'auto castrazione? Non esiste una sola logica al mondo, l'umanità ne ha sviluppate tantissime, nel corso della sua storia e tutte indistintamente le occorrono: non importa che siano in contrasto tra di loro. A cento anni dalla nascita di Gianni Rodari, Maria Grazia Ferraris, nota studiosa dello scrittore e splendida divulgatrice della sua opera, ne fornisce un ritratto molto più attento e aderente dell'usuale. Sostiene infatti che il desiderio segreto dello scrittore è stato di "scrivere per gli adulti", a dispetto del suo essere relegato, da un certo pressapochismo critico, a "scrittore per l'infanzia". E fa benissimo Pardini a ricordare che lo scrittore, "nei messaggi poetici fa sempre intendere che tutti sono stati bambini ma pochi sono quelli che se lo ricordano". La fanciullezza viene giustamente equiparata all'innocenza, ma è un crasso errore pensare ad essa come ad un grezzo stadio mentale da superare con l'esperienza (del negativo, ovviamente). Innocenza non è assenza o ignoranza del negativo, ma equilibrio, armonia, capacità di neutralizzare il positivo con il negativo, e viceversa. Capacità che solitamente si arrugginisce con il raggiungimento della maggiore età ("età della ragione"), dove si tende a viaggiare a senso unico, separando il bene dal male, come ogni altra coppia di opposti in armonia. Purtroppo, la stragrande maggioranza di noi adulti vive come adulterazione il passaggio dalla fanciullezza alla maggiore età e a farne le spese è la nostra innocenza, il nostro equilibrio, la nostra naturale sapienza. Sta nella fanciullezza il nostro vero stampo. Stanno lì i nostri veri valori, i nostri ideali e tutti quei sogni che solitamente, da grandi, finiamo per chiudere nel cassetto per codardia o pura e semplice pigrizia mentale. E così facendo tradiamo noi stessi. Ascoltiamoli dunque i fanciulli, solo la loro sapienza è in grado di salvare il mondo. Abbiamo sentito tante sciocchezze sul movimento adolescenziale che è insorto a livello mondiale in favore dell'habitat. Quei ragazzi, si è detto, non sono attendibili perché si limitano a fare proclami senza dare esempi personali e diretti. Che vergogna! Sono gli adulti a dover dare degli esempi, non i fanciulli, e purtroppo gli adulti raramente li danno. A proposito di Gianni Rodari, la Ferraris cita questo interessante passaggio: "Avevo diciassette anni quando feci il proposito di starmi zitto, e uscivo dall'istituto magistrale per rientrare nella scuola dalla parte della cattedra, invece che da quella dei banchi. Ero troppo giovane per essere un buon maestro... A quell'età, come tutti i giovani, mi dedicavo soprattutto a me stesso, ai miei studi, alle mie letture, alle mie fantasticherie". Però, "buon maestro", Rodari lo è diventato da grande, quando ha iniziato a prodigarsi per realizzare, anziché mortificare, i suoi sogni.
    Franco Campegiani

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    1. ESEMPLARE: così mi viene da aggettivare questo commento di Franco Campegiani. Esemplare, e pungente, come è giusto che sia nei riguardi del positivismo: "Non c'è barba di positivismo che possa togliere di mezzo la poesia. Perché dovrebbe? da dove nasce questa intollerante e assurda pretesa che la verità stia tutta da una parte e l'errore dall'altra? Vogliamo capirlo, o no, che è un'auto castrazione?".
      E aggiunge, a sostegno di quanto asserisce Maria Grazia Ferraris su Rodari, con la competenza che la distingue nei confronti del poeta, così ingiustamente bistrattato dal "pressappochismo" critico, che "Innocenza non è assenza o ignoranza del negativo, ma equilibrio, armonia, capacità di neutralizzare il positivo con il negativo, e viceversa.", nonché in favore di Pardini: "E fa benissimo Pardini a ricordare che lo scrittore,
      'nei messaggi poetici fa sempre intendere che tutti sono stati bambini ma pochi sono quelli che se lo ricordano'.".
      Complimenti vivissimi a tutti e tre. E non arrendiamoci!

      Sandro Angelucci

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    2. Grazie all'amico Sandro A. che con la sensibilità che lo distingue sa cogliere anche il meglio degli interventi altrui e valorizzarli. Grande e sensibile lettore!

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  3. Un grazie all’attento e profondo Franco C. che sa riprendere e universalizzare il discorso rodariano: innocenza e sapienza di contro ad arida razionalità e convenienze esistenziali, poesia di contro a buon senso positivistico. Tutti siamo stati bambini- innocenti- (che ricca e bella parola!) ma non tutti ci ricordiamo che l'innocenza è innanzitutto una sottile situazione interiore, psicologica.
    L’innocenza sia della lingua, dell’arte o della poesia – è infatti in stretta relazione con le origini,
    con il momento iniziale della civiltà umana e le parole innocenti della poesia sono dunque «semplici e favolose» come già ipotizzava Leopardi e tendere all’innocenza significa tentare di riconquistare la «gioventù», fatta di slancio, di spontaneità e di libertà, quella che animava i primi uomini e che è andata perduta in un processo evolutivo che va da un punto di positività, ad un punto di massima negatività, che coincide con i nostri utilitaristici tempi coevi.

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