venerdì 14 ottobre 2022

GIAN PIERO STEFANONI: "EUGENIO CIRESE"

 

EUGENIO CIRESE, IL MOLISE E IL SUO CANTORE

 

Di Eugenio Cirese (Fossalto, Campobasso, 1884-Rieti, 1953), figura di intellettuale finissimo ed appassionato dovremmo ricordare inizialmente la sua attività di educatore e di studioso delle tradizioni e del folklore della sua regione, servita a tutto tondo all'insegna dell'interesse per la sua lingua, soprattutto, al cui patrimonio seppe attingere e restituire in una pienezza di racconto, di storia e di indirizzo nel dialogo con un tempo nuovo sempre interrogato nel rapporto fondante col suo passato. Per questo, a partire dalla sua attività di insegnante, dapprima in sedi diverse del Molise poi in quella definitiva di Rieti, la sua attenzione anche didattica ai motivi del dialetto oltre ad ben aderire alle finalità educative nella scuola assegnatele allora da Giolitti va inquadrata anche in quelle istanze di fine ottocento "in cui l'originaria predilezione per il canto popolare si coniugava con la ricerca erudita delle tradizioni popolari" (Luigi Biscardi), nel dialetto fissandosi allora d'ogni terra lo spirito e l'anima più vera. A spiegarlo, con forza, sono queste sue stesse parole: "L'origine vera e profonda dello spirito e del carattere d'una regione è il dialetto, come l'origine dell'unità di coscienza d'una nazione è la lingua. Negare l'unità della lingua significa negare la Nazione, negare l'unità del dialetto significa negare la Regione, svuotare l'arte dialettale del suo contenuto e della sua funzione essenziale, che è quella di celebrare la regione col cuore e col linguaggio di tutti, di avanzare, con tutti, al possesso di nuovi valori". Se allora l'impegno dello studioso al servizio dell'identità storica, sociale, antropologica ebbe il merito di gettare luce su una area geograficamente ai margini pure quello dell'autore, del poeta finì con l'unire, ora nella ricerca attorno alla melica popolare ora proprio impronta stessa del verso, tutto l'impianto realistico e favolistico insieme di una terra mai doma nelle sue fatiche e nella sue aspirazioni antiche.

Bisognerebbe citare nell'esempio almeno due titoli tra gli altri, il primo Canti popolari e sonetti in dialetto molisano (1910), nella piena sostanza di una lingua successivamente intrisa oltre che di melica popolare e d'amore insieme anche di riferimenti ad una storia contemporanea (vedi la guerra di Libia) di prova oltre che  "da componimenti didascalici, favolistici e gnomici, nel complesso ideologici" (ancora Biscardi); e poi Gente buona, sussidiario per il Molise in aderenza al tempo della scuola e all'alternanza delle stagioni, in cui la varietà di brani geografici, storici, socioculturali accompagnati da notizie e nozioni nei più diversi riferimenti a realtà regionali, agricole soprattutto, ci restituiscono ancora adesso un quadro esatto del Molise dell' epoca (esattamente gli anni venti del secolo scorso). Eppure se, come chiaro, la sostanza dello studioso non può essere espunta da quella dell'autore ci interessa in queste pagine soffermarci sul valore di una lirica che ancora in queste terre non ha eguali. Più volte, doverosamente e naturalmente dell'attività poetica del Cirese sono stati sottolineati due diversi tempi, il primo di impianto melico, realistico (fino a Rugiade, 1938), il secondo, piuttosto, all'interno di mutate dinamiche storiche e personali  improntato a una pensosa e insaziata riflessività, più vicina anche pur nell'originalità del canto a contemporanee, moderne esperienze. Eppure mai una cesura netta è andata a segnare una distanza di istanze e riferimenti, la parte finale della sua scrittura libera di espandere i suoi motivi, e le sue modalità antiche nel riassorbimento maturo di una coscienza che a quei richiami sa dare funzione nel dialogo col nuovo. Soprattutto nella tensione della produzione finale caratterizzata da certa disillusa malinconia del tempo, la maestria poetica (che in questo lo avvicina forse ai grandi autori della poesia abruzzese) nelle crepe di un mondo che vede perdersi sa riaffermarne la presenza riaffermando se stesso all'interno di quello spazio di cantabilità, di figure, di evocazione, di melica liricità appunto che vive ma ripensate alla verifica della soglia sempre sanno riapparire e ridirci, presenti, in quello spazio tra il sogno e la dilatata concreta incarnazione che fa della poesia il luogo privilegiato dell'umano nello spazio delle sue aperte e sospese possibilità.

Un Molise così nell'immagine continua delle sue riproposte fedeltà, delle sue fatiche, delle sue aspirazioni come dei suoi inganni sovente nella sagoma di un'ombra, di un passante che cerca strada e voce alle rispondenze dei richiami, e che non è difficile identificare col Cirese stesso, e di una finestra su un mondo nel laccio di amori e di una natura al ribollire dei propri cicli, delle proprie inquiete sovrapposizioni e dei propri misteri cui, forse, solo il verso può trattenere ancora nell'incantata malia delle evocazioni e degli incontri, ridando sacralità a quello spazio che nell'esserci ci afferma (restando probabilmente Lucecabelle, del 1951, il suo capolavoro). Dignità allora che ha soprattutto nella "fatìa"("fatica")- di lavoro, di insieme, di vita stessa- che"quande chiù te pesa/ chiù te la puorte 'n cuolle" ("quanto più ti pesa/più te la porti addosso") il timbro di una terra di cui tanta passione vorrebbe esserne fino alla fine, nel suo servizio, il mietitore. Riuscendovi certamente nell'aratura di un fiorire che tutto considera e di cui tutto ha valore nell'eterno ricominciare del ricordo e del pane, nel dimenio di un'acqua nel cui domandare il cielo stesso va a riconoscersi. Perché è soprattutto nel sotteso esercizio di una rimessa liricità di elementi al dominio trasfigurante del mistero che nella compenetrazione li trasfigura, nella sua forza, tutta la confluenza e la sintesi di una poesia che dei suoi uomini e delle sue donne sa ridirne le voci nella intima concretezza delle mestizie e dei raccolti, la terra allora nel coro delle sue rotazioni. Il tutto certo nello strumento di una lingua, al servizio di una lingua di cui ancora nel Molise è ricordato come la memoria in quella consapevolezza umana e critica da Cirese stesso ricordata nel 1953 in alcune considerazioni a Pier Paolo Pasolini:"Il dialetto è una lingua. Perché possa essere mezzo di espressione poetica e trasformarsi in linguaggio e immagini è necessario possederla tutta; avere coscienza del suo contenuto di cultura e della sua umana forza espressiva. Nell'infanzia e nella prima giovinezza... ho parlato, raccolto e cantato canzoni, gioito, pianto, pensato in dialetto. Non sto qui a sostenere la maggiore efficacia espressiva del dialetto sulla lingua letteraria luogo comune non serio, perché ogni lingua ha pienezza ed efficacia di forme : dico solo che il possesso del dialetto agevola la ricerca di forme in atteggiamenti efficaci e immagini proprie: accresce insomma la possibilità di dare e questa è per me l'esigenza vitale della poesia dialettale qualche cosa di nuovo a se stessa e, perché no, alla lingua letteraria". Andando a concludere questo breve viaggio nella poesia di un autore dagli interessi vastissimi (si veda tra gli altri la fondazione de "La lapa", rivista di Argomenti di Storia e letteratura popolare, periodico mensile a cui collaborarono tra i più importanti intellettuali del suo tempo) e ricordando per una lettura completa dell'opera i due volumi di Oggi domani ieri. Tutte le poesie in molisano, le musiche e altri scritti per la cura del figlio Alberto (Isernia, Marinelli, 1997), ci piace lasciarci con un verso nella cui aderenza ai motivi veri del dire con l'uomo ci riconosciamo appieno: "Dentre a la vita méia m'arencontre/ e campe" ("Dentro la mia vita mi rincontro/e vivo").

 

 

1 commento:

  1. Gian Piero ci porti sempre sulle orme di Autori che hanno difeso le loro radici da strenuo difensore dei delle origini, del valore dei vernacoli.. L'insegnante Eugenio Cirese, di Fossalto, in provincia di Campobasso, che per marcare l'amore per il Molise scrisse varie Opere e, in particolare “Gente buona”, che si lega strettamente agli altri suoi amori profondi:: i canti del popolo, il dialetto, la poesia, la buona gente della sua terra. Cominciò tra il 1910 e il 1915, anni interamente molisani, con Canti popolari e sonetti, Discurzi di cafoni, Ru Cantone de la Fata. Tu citi il suo capolavoro, Lucecabelle, nella quale celebra la fatica, la dignità della sua gente, donando "il timbro di una terra di cui tanta passione vorrebbe esserne fino alla fine, nel suo servizio, il mietitore".. Un Autore molto apprezzato da Pier Paolo Pasolini con il quale intrattenne un carteggio proprio sull'importanza del dialetto. La tua esegesi è quanto mai affascinante ed esaustiva e tu dimostri per l'ennesimo volta il tuo valore! Ti abbraccio forte!

    RispondiElimina