Questo volume è stato pubblicato nelle edizioni Gallimard – nrf – il 24 settembre 1969.
“Il programma della Nouvelle Revue Francaise affermava attraverso una critica intelligente – l'indispensabilità dell'arte; si ispira quindi a una creazione totalmente svincolata dalle fluttuazioni sociali e politiche. Difende con notevole violenza l'indipendenza dello spirito. Il lavoro collettivo è la somma dei valori individuali. L'intelligenza appartiene all'individuo che la possiede che può usarne oppure no? Dibattito aperto tra letteratura e politica. Il merito della NRF è stato quello di aver cercato di affermare la specificità della letteratura e il suo ruolo nella vita umana”1.
In questa ottica possiamo avvicinarci a Georges Schehadé (Alessandria D'Egitto 1907 – morto a Parigi – 18 gennaio 1989).
Ogni stagione mi porterà
Una nuova malinconia
E vi amo come le parole che vi dico
Per un cavallo bianco come l'inverno
Le brezze si spogliano di rugiada
E gli uccelli muoiono delle ferite del mare
Coronate l'amore che tende un arco
Una rondine ha seguito la sera
Non ha colore né forza
Questa stagione non passerà
Senza un nuovo astro
Il suo azzurro ha il tepore di tutte le notti
Trad. Anna Vincitorio
Ho letto il testo più volte per cercare di penetrare il mondo di Schehadé. È un mondo cosparso di immagini spesso surreali che affascinano, disperdendoti. Si avvertono solitudine, amore, tristezza. Ricorrente l'infanzia, formativa per un essere dalla sensibilità accentuata. Noi stessi diveniamo ora “uccelli in volo che si frangono in una solitudine collinare”. Siamo alberi, meduse. Si avverte la necessità di aspirare a un infinito. Il poeta e altri come lui, seguiranno il cammino del cielo. Il poeta ama la natura e vede spirare nella campagna
1
Storia della Letteratura Francese – Garzanti ed. Vol. III.
“un'aria di prodigio perduto”. Le stelle a cui aspira, sono sfiorate dalla morte. In lui una ricerca di eventi, parole che affiorano dai ricordi di una lontana infanzia che ha il colore delle origini. Lui cerca un cammino “in una via di rosai”, ma nel cuore permane il dolore. Non può, un poeta essere felice. Gli è compagna la luna “in una solitudine di giunchi”. Le stelle sono lontane. Vicino a noi corsi d'acqua. Acqua in cui immergersi Per purificarsi o dimenticare? Le tempeste della vita spingono i fiori verso la morte. Il poeta è solo come “giardini che non hanno paesi/ in una solitudine d'acqua attraversata da colombi azzurri”. La realtà è il fanciullo che ricorda.
Poesia quella di Shehadé su cui soffermarsi ma che sfugge. Rimane in noi il sapore di immagini surreali e il rimpianto costante dei lenti anni in cui “Tu indossavi il grembiule di scolaro/… e dormivi ogni notte sulla tua infanzia”.
Anna Vincitorio
Georges Shehadé
Les Poésies
prefazione di Gaetan Picon
Poesie nº 1 – 1938
N.2
I capelli che sono l'età dell'amore
Come il vino che scorre tra le dita
Ricordati, ricordati dei fiori della terra
La vergogna portava la tua testa in un sacco
Mille frane segnavano i tuoi passi
Tu sei là in alto sulla collina
dove la luna posa le sue grandi braccia
Gli alberi fremono come fredde meduse
Ma tu non credi a queste grida della natura
Se le montagne potevano sfiorare l'aria
e così congiungersi alle stagioni
I tuoi passi seguiranno il cammino del cielo
A vent'anni c'è un tremore
di vedere i suoi occhi nell'acqua delle donne
La camera ha la parure del mare
Come due uccelli che volano si frangono insieme
Del silenzio infausto dei nidi
La notte ha congiunto le nostre età
O melodia della pietra delle isole
Il mio amore meraviglioso come la pietra che non avverte
Questo pallore che voi giudicate lieve
Ugualmente voi vi allontanate da me
Nell'ora in cui il sole e noi creiamo una rosa
Nessuno ha dovuto ritrovarla
Né il bracconiere né la veloce amazzone che abita le nuvole
Né il canto che dà vita alle abitazioni perdute
E siete voi donna e i vostri occhi irroravano
D’aurora la pianura della quale io ero la luna
Ogni stagione mi porterà
Una nuova malinconia
E vi amo come le parole che vi dico
Per un cavallo bianco come l'inverno
Le brezze si spogliano della rugiada
E gli uccelli muoiono delle ferite del mare
Coronate l'amore che tende un arco
Una rondine ha seguito la sera
Non ha né colore né forza
Questa stagione non passerà senza un nuovo astro
Il suo azzurro ha il tepore di tutte le notti
Io sogno gridando
nella casa delle foglie
Sono io sono io diceva la canzone priva della sua libertà
E che io mi allontani portando con me
Il manichino di perle
I boschi sono morti
E le foglie lese volano via
Soffia in campagna un'aria di prodigio perduto
Non si cercano gli occhi nelle musiche arcane
Un cuore grande le ha visitate
Vi saluto stelle che la morte non sfiora
Sulle vostre ginocchia fiori di spiaggia
La costanza conduce alla felicità
La mano nella mano come il cielo e il giorno
Questa melodia che ha il colore delle origini
Allora io percorro una via di rosai
E sento sorgere in me un grande dolore
Simile al sale del mare
IX
È l'ora del riposo
Le allodole sono sagome bianche
Appoggia la tua testa nel fieno dove il cavallo
s'impiglia
Lo zoccolo il più arrendevole
Ecco la luna
Lei non è rotonda perché tu sei triste
Solitudine dei giunchi
E l'Albero che addormenta le stelle
È scosso da un nido
Perché noi siamo senza notizie delle stelle
Gli angeli ci battono con grandi ferri
Fate luce voi che vivete sui corsi d'acqua
Quando il lampo spinge fuori verso la morte
Lasciate a me la vostra rugiada e la vostra cenere
– Oh benedette come le fiamme
Quando l'autunno tremava sulla montagna
Adorna il tuo cavallo con l'occhio dei cigni
Nel vento la bellezza e l'ora è scura
Io ti amo me l'hanno detto
Poésies II
1948
Su una montagna
dove le mandrie parlano col freddo
come le fece Dio
Dove il sole è nato
Ci sono granai colmi di dolcezza
Per l'uomo che cammina nella sua pace
Nel mio sogno questo paese dove l'angoscia
è un soffio d'aria
Dove i sonni cadono nel pozzo
Io sogno e sono qui
contro un muro di violette e questa donna
Il cui ginocchio lontano è una pena infinita
III
Ci sono giardini che non hanno paesi
E sono soli come l'acqua
Dei colombi azzurri li attraversano e non hanno un nido
Ma la luna è un cristallo di felicità
E il fanciullo si ricorda
Di un grande sereno scompiglio
XIII
Come questi laghi che portano tristezza
Quando l'autunno li copre e illividisce
Come l'acqua col suo gorgogliare
che mille volte si ripete
Non c'è riposo per te alla mia vita
Gli uccelli volano in stormo
Ogni sonno è diverso
E tu nelle foglie di questa pianura
Davanti al volto soltanto un addio
VI
Al fanciullo che corre in una foresta
piena di soffi di vita
Dico che prediligo
Colui che dorme in un giardino di giugno
Con un leggero cruccio
Per la solitudine delle immagini
E l'alba e i ladri d'acqua
XII
Un violino cieco piangeva per noi
una fontana di pietra
L'inverno stagione senza volto
Quando i grappoli d'uva sono neri
XIII
Mi schernirò in un giardino di pomi
In quest'acqua della campagna
a passi immacolati
E per te amica dei salici della morte
Le colombe che volano senza aura
L'assenza più lunga che gli anni
XV
Se tu sei bella come i Magi del mio paese
O amore mio tu non piangerai
I soldati uccisi e la loro ombra che fugge la morte
Per noi la morte è un fiore dell'anima
Bisogna sognare gli uccelli che viaggiano
Tra giorno e notte come una scia
Quando il sole si allontana negli alberi
E rende il loro fogliame simile a un prato
O amore mio
Abbiamo gli occhi blu dei prigionieri
Ma il nostro corpo è adorato per i sogni
Allungati come due cieli nell'acqua
E la parola è la nostra unica essenza
VII
Quando la notte si dilata con la sua luce
In quel momento il pensiero è inviolabile
Io dico fiore di montagna
per dire solitudine
Dico Libertà per dire disperazione
Io vado boscaiolo dei miei passi
a smarrire le menzogne
In una foresta di boschi
Ricolma di giustizia e di canti
VIII
O amore mio non vale che noi amiamo
chi ne fugge come l'ombra
Come queste terre lontane dove il proprio nome si perde
Nulla ci trattiene
come questo pendio di cipressi che dormono
Dei fanciulli di ferro bluastro e morti
I corsi d'acqua e le rose delle battaglie
Bandiera dolce cullata dal ferro
Pianure senza paesi che brillavano
Per la neve malvagia e bianca
Le formiche mangiavano la veste delle meraviglie
Quanto lenti erano gli anni
Quando tu indossavi il grembiule di scolaro
Quando tu dormivi ogni notte sulla tua infanzia
Poésies III
1949
La stella ritornerà sul giardino distrutto
Simile alla goccia d'acqua delle origini
Si apriranno gli uccelli dalla pazienza perduta
E sarà il sogno della prima notte
O amore mio sono in una prateria
Con gli alberi della mia età
Ma le gazzelle passano tra le mie ciglia
Socchiuse di sonno
Questa sera la morte è figlia del Tempo ben-amato
IV A Pierre Robin
Quando l'uccello si tormenta col suo canto
Le foglie nella loro malinconica incertezza
Talvolta pongono fine al loro lamento
L'aria a lungo si consuma e non vuole più ascoltare
Noi passiamo allora coi nostri cani di domenica
Sul cielo e nel frutteto
E per l'esilio delle nostre immagini
Doniamo un’ombra a ogni fanciullo della sera
V
Dell'autunno ingiallito che trema nel bosco immoto
Permane una strana malinconia
Come queste catene che non sono né per il corpo
Né per l'anima
O stagione i pozzi non hanno ancora disertato la vostra grazia
Questa sera noi avanziamo nelle vostre foglie che passano
Nei pressi di una cascata di triste follia
Ed ecco in una nuvola di grande trasparenza
La stella simile a una scintilla di fame
IX
Io vi chiamo Maria
Un casto corpo a corpo con le vostre ali
Siete bella come le cose che ho visto
Dapprima non c'era il vostro Figlio nei paesaggi
Né il vostro piede d'argento nei letti
Io vi invidio Maria
Il cielo ti copre di dolore
Dei corvi hanno toccato i tuoi occhi blu
Tu mi inquieti fanciulla
Il fogliame è folle di te
X
Quando noi avremo
Delle dolci spiagge da sfiorare con lo sguardo
E questa vita dove l'ombra si apre al giorno
Il riposo giungerà con i suoi tesori
Voi ed io sulla Terra delle spiagge
O amore mio che chiedete al sonno i viaggi
Se tu incontri un colombaccio
1951
Se tu incontri un colombaccio
In un bosco cosi giovane per la vita della sua neve
Quando gli occhi hanno il sembiante dei nodi della sera
Distaccati da tutto ciò che la riguarda
L'età della foresta amore mio è un sogno
III
Per ritrovare il corpo e l'anima dell'infanzia
In una stanza dolce alla quale i ladri danno luce
Le mie mani sono leggere quando penso
Un asino giungeva dalla patria dei dipinti
I rumori allora erano privi di memoria
Sono così gli oggetti della grazia
L'uccello di zucchero con la sua storia e il cielo blu di niente
XII
…Figura di sogno sul selciato
Stella che brilla e ferisce
Piccola cosa come il fiore di Dio
Dopo viene il clangore nell'immobilità degli angeli
Il sole che crea la luce e non ritorna
Mentre tu passi col tuo bianco vestito
O tristezza prima delle tue ombre
O chimera dei tuoi abiti
XIV
In questa campagna dove il sole muore
come un cavallo beve
L'erba e il tempo soffrono la stessa pena
Un violino allontana le ombre dalla sua mano
Ricorda gli stagni del lontano mare
Quando dormirai nella terra dei fanciulli
Le formiche mangiavano la veste delle meraviglie
Quanto lenti erano gli anni
Quando tu indossavi il grembiule di scolaro
Quando tu dormivi ogni notte sulla tua infanzia
Ho pensato di riportare in questo ambito la prefazione di Gaëtan Picon a Les poésies2. Si oppone al lanzonismo3.
Figura di alto spessore: L'imaginaire di Gaëtan Picon fondation d'une bibliothèque intellectuelle. Gli anni 1944 – 1950 e 1951 – 59 sono particolarmente importanti. Ricordiamo il periodo di Beyrouth alla Scuola Superiore delle Lettere con Schehadé e L' Institut Francais de Florence con Giuseppe Ungaretti e Piero Bigongiari e l'École des hautes études de Gand che inseriscono Julien Gracq e Yves Bonnéfois.
“Io apro questa raccolta Les Poésies dall'articolo insolitamente chiuso come un cofanetto che si può trasportare dappertutto con sé, estrapolandolo dai due anni laterali delle prime poesie e di Se tu incontrerai un colombaccio (1938 – 51); il tempo che lui ha perso per dar vita al lapidario (stile), all'erbario (collezione di piante); si io l'apro come un cofanetto incrostato di madreperla dalle pareti di cedro e di sandalo e c'è un profumo che esala che io soprattutto riconosco fra tutti gli altri, bene perché appartiene a una essenziale e intemporale poesia come, camminando, occhi chiusi in questa foresta, io so che ha un sentore così complesso e sottilmente equilibrato che non lo ritroverai in nessuna parte e a me mancano le parole per darle un nome, e che io sono giunto all'altezza di una siepe familiare.
Sensazione unica, incomparabile. Senza dubbio appartiene a una terra più lontana di quello da cui io vengo per parlarne e dove io calco le innumerevoli foglie dell'autunno. Terra dove il sole muore come un cavallo beve, dove scorrono le pagine della grande Bibbia di pietra dove resistono, loro soltanto, alla grande sete del sole, delle essenze rare e violente. E pertanto, non è la violenza di Mezzogiorno. È piuttosto la notte come nell'autunno di ogni giorno, il rifugio delle fontane “senza l'acqua della luna” l'ora mentale immaginaria dove le cose sono filtrate, setacciate, per la loro attesa e le loro memorie; e lontano e lungi da affermarsi in una evidenza troppo forte per essere sensibile, loro colano delicatamente come il succo dei frutti che noi spremiamo dalle nostre mani, loro creano nell'aria i colori cangianti delle rose, del gelsomino, della violetta. Notte sovente più luminosa del giorno, primavere, autunni, più ricchi dell'inverno e dell'estate, penombra rassicurante dove le immagini rispondono al nostro appello. Ma questa flora d'una più lontana terra è soprattutto quella “d'una lontana interiorità"; l'Oriente è quello del cuore e dell'immaginario; il giardino è più antico conservato meglio degli altri e tale da
2
G. Picon, critico e saggista francese – Bordeaux 18 sett. 1915 – Parigi 15 agosto 1976 – Viene considerato uno dei precursori e dei maggiori esponenti della Nouvelle critique francese.
3
Parola derivante da Gustave Lanzon – critico letterario e filologo francese – Orleans 1857 – Parigi 1934 – che esercita un'influenza profonda su diverse generazioni di studiosi. Per lui la visione critica deve essere rigorosamente scientifica e storica senza però negare il carattere estetico della letteratura. Da L'Enciclopedia di Repubblica vol. XII pag. 67.
essere sfuggito agli impiegati del catasto, ai guardiani e ai controllori del tempo; l'erba non è stata calpestata.
Giardino dell'infanzia? Direi piuttosto d'una vita che non ha altra età che l'infanzia. E giustamente perché non è stata avocata alla luce di un'altra età; non si parla di una infanzia ma dell'epoca ferma dove il bambino, l'uomo adulto, la donna, sono i cittadini con eguali diritti di una capitale favolosa che il drammaturgo chiamerà Paola Scala o Belvento, ma che il poeta non ha bisogno di darle un nome. L'infanzia non è l'oggetto di una nostalgia; è la voce inflessibilmente ingenua di una vita che non ha un altro suolo.
Il poeta non ha imparato niente; non ha niente da apprendere; lui incontra al termine del suo poema ciò che sapeva aprendolo e di sorgente sicura. Le parole, pertanto inventate, gli sono donate.
Non vengono le une dalle altre, ma loro stesse da questa sicura sorgente. E se possono loro stesse avere un profumo, quando non parlano di profumo, come l'acqua pura ha il suo odore, e non può essere che lui, immediatamente riconoscente e insolito della semplicità. Questa poesia non è una esperienza sul linguaggio; è una parola scaturita dall'esperienza. Non costruisce parole in parole, la passerella che gli farà lasciare la sua terra natale – la terra dove passa, sotto il cielo cosmico, il tempo senza ora né età. Fatto di parole, sicuramente, ma che non riconoscono la loro chimica, non vedono la loro formula; lei dice semplicemente, di un solo alito, ciò che lei ha sempre saputo, lei persegue il fremito della sorgente e della sua reminiscenza.
Perché è anche un rumore che sento e riconosco; non meno del suo profumo ogni volta che apro il libro; ed è in lei che si perde la mia lettura… Io sono un attore più che un lettore. Ma questa voce che io restituisco al poeta sento che è essa stessa d'una voce più antica, la cui autorità fora attraverso il fascino dell'inflessione personale, voce profetica sentenziosa dell'Antenato, quella che parla col freddo dall'alto delle montagne, come Dio l'ha creato, dove alla soglia del giardino che noi abbiamo lasciato, quando il mondo si è aperto davanti a noi e dell'esilio e del dispiacere non ci sarà fine. A questo rumore di meraviglia e tristezza, a questo profumo d'ombra e di ambra non siamo sottomessi come a un incanto – imprigionato, un po’ assopito, ingurgitato. Noi ci inseriamo nella cantilena di ogni poesia; ci perdiamo nella goccia a goccia della vasca; noi ci lasciamo questo leggero odore inebriarci. La poesia ci avvince, non ci butta fuori armata della sua forza nello spazio che il suo chiarore avrebbe aperto. Pertanto, ecco l'immagine, come la stella scintilla di fame.
Lei rompe l'incanto e noi ci scopriamo attivi e vigili. Noi la sottolineiamo nella poesia e noi riguardiamo, fuori di lei verso il mondo che trattiene la sua prova. Improvviso lucore delle immagini, colpo di gong, strappo di seta… Io non conosco nulla di più vero, essendo sufficiente vantaggio per loro stesse queste parole dove vivere indefinitamente… C’è anche la luna che sale “come
un animale di uragano, gli alberi che si muovono per il loro rumore, le stelle che viaggiano con gambe di sale, gli armadi della vecchiezza dell'uva; Ha l'occhio, questo animale, affascinante...” Ma io noto che l'immagine raramente dà fine alla poesia. Il movimento del testo non ha per scopo di condurlo, come se fosse il trofeo della sua vittoria, ciò che ci permetterebbe di staccarci dalla poesia. Guardando di lui soltanto questo lucore di lame per il nostro proprio combattimento. Se la poesia 18 di Poésies 2 ci dona il colpo di grazia sulle fontane senza acqua della luna invece di buttarsi su “Il tutto passa come se io fossi l'uccello immobile”, ci lascerebbe al bordo di una finestra aperta, esposti e vigili; ma la sentenza finale – piuttosto una verità che noi ripetiamo che questo pomo della discordia dell'immagine capace di illuminare gli altri fuochi – ci fa penetrare il canto, alla penombra materna della poesia. E io noto anche che l'immagine non è che un incipit frequente. Non ho per scopo di aprire uno spazio particolare, di provocare l'inebriante meccanico di cui la poesia moderna non si tedia. Solo un poema di giovinezza – il VI di Poésies 1, è costruita su un movimento di enumerazione che evoca molto precisamente Apollinaire. Disseminata, talvolta unica, l'immagine è al cuore della poesia come l'icona illuminata nell'angolo oscuro della camera, come la macchia di sole nel fondo del pozzo.
Meglio: lei è alla sua cresta, la brusca lucentezza dell'onda – dolce onda mediterranea tra la montata e le cadute – al tempo stesso tesoro, estremo lembo della visione e illusione, riflesso inafferrabile, intrasportabile nell'aria libera. Perché se questo momento dell'immagine è quello dell'intensità, della presenza, non è separabile dal movimento a causa del quale noi andiamo verso di lui e che inaugura il poema; né di colui che, negli ultimi versi, ce lo sottrae. E allora,
prima di sorgere, l'immagine è già offuscata – nascosta. Il tempo dell’incipit in effetti, è tanto il passato come il futuro, dove un verbo ha valore di futuro.
Quando ogni cosa dormiva nella casa fedele…
quando noi avremo
delle pagine dolci da toccare con lo sguardo…
e ancora
Se tu incontri un colombaccio…
Ma come il progetto del desiderio non è altro che un passato
da ritrovare, il tempo in cui credere è quello di un futuro
di reminiscenza
La stella ritornerà sul giardino distrutto…
Noi ritorneremo corpo di cenere o rosaio…
Noi andremo un giorno fanciulli della terra –
Tempo ambiguo del quale non sai tanto di ciò che ci dà,
del quale non sai in ogni caso ciò che ci dà al presente,
che cancella la cesura dell'immagine
noi impedendo di rapirla nel fondo di queste acque
mescolate, alle quali si abbandonano, con diletto le nostre mani.
Qui qualcosa avviene come lo provano queste congiunzioni di tempo, di finalità, di comparazione, di supposizione che aprono così frequentemente il poema. Qualcosa è annunciata, viene, poi si cancella.
Ogni poema è dunque un dramma ma lo stesso con i suoi due movimenti, i suoi due atti che mantengono la fragile costruzione come un quadro, con a suo modo, l'immagine, talvolta la O interiettiva, immobile come l'uccello che plana. La partenza dei fanciulli termina e subito dopo sorge la stella che ha guardato il loro cammino per il loro ritorno nella terra eterna.
Esplicita o no, la clausola del poema, è sempre – Il tempo innocente delle cose – Dramma, ma di una sola azione, di un solo personaggio, di una sola verità; non conosce voci antagoniste, né collisione, né alternative. In un senso: dramma senza tensione, perché ciò che accadrà è conosciuto, ineluttabile, i passi rientrano nei passi, non si può avere che una ripetizione, una oscillazione, mai una rimonta insperata, mai più di un rifiuto disperato.
La verità che ogni volta si rivela, mai si riconosce, si sa poi sempre; parla con voce dolce, sorridente, e irraggia lo slancio così come il grido...
Quale dunque il segreto della sua seduzione dal quale vengono questa scheggia di rugiada, questo tintinnare di cristallo che ognuno riconosce, quest'aria d'una frescura così deliziosa? Da dove viene che percependo la tristezza del poema noi la perdiamo in esso? È che le parole rinascono dalle loro ceneri. O piuttosto no. Le parole non lasciano cenere. Bruciano sempre a fuoco dolce, piccolo mucchio di selce sulla linea del deserto, fedeli, dolci custodi nella notte della camera. E noi vediamo bene queste notti che ci disegnano. Ma è a loro che appartiene la vera presenza, il vero persistere – quello di ogni luce fissata”.
Gaëtan Picon
Trad. Anna Vincitorio
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