martedì 25 febbraio 2014

INTERVISTA A GIORGIO LINGUAGLOSSA

Silvana Palazzo e Gioia Battaglia
nell'evento multimediale:
La pittura come la poesia




Pienone delle grandi occasioni alla Galleria Artemare di Roma per l'evento multimediale La pittura come la poesia, vernissage e presentazione di una raccolta poetica con due relatori d'eccezione, Giorgio Linguaglossa e Maurizio Soldini e la lettura recitante di Carmen Onorati. Tra i versi de "Le stagioni della mente" (Cjc) di Silvana Palazzo e l'espressione figurativa delle tele di Gioia Battaglia esiste un'unità d'intenti, come affermato dalla poetessa, "uno sguardo che si posa e riposa su nature morte che morte non sono e poesie su languidi paesaggi quotidiani che danno un senso di familiarità ma anche di riscoperta del déjà vu e qui eternamente rappresentato". La pittura così come la poesia sono "le espressioni più congeniali all'esternazione emotiva grazie anche ai tratti caratteriali di chi li compone, innocenti trasmettitrici di emozioni solo apparentemente leggere. Ambedue, versi e acquerelli, si compensano, si somigliano. Ambedue emanano ciò' che dal profondo fanno emergere:la riflessione sull'esistenza delle cose che ci circondano, su chi siamo e dove andiamo. Senza pretese ma scivolando lentamente ed inevitabilmente nell'anima di chi vede o ascolta". Il filosofo-poeta Soldini ha definito la poesia della Palazzo un hortus conclusus, soffermandosi sulla circolarità dei «luoghi» della sua poesia, Giorgio Linguaglossa invece ha parlato delle qualità dell'ombra e della luce della poesia di Silvana Palazzo, della capacità di investigazione del quotidiano, di mettere in luce, oltre che le atmosfere, anche i dettagli significanti delle esperienze, le epifanie dei significati che si celano e si svelano, che ciascuno di noi fa nella vita di tutti i giorni.

Inviato da iPad


Intervista “neoN-avanguardista”
a
GIORGIO LINGUAGLOSSA

di Ambra Simeone


primo: a me piace pensare che la poesia debba prima di tutto dire qualcosa a chi legge, secondo lei esiste ancora in Italia un certo tipo di poesia che serva a questo scopo?

Rispondo dicendo che la vera poesia è quella scritta da un uomo libero per cittadini liberi. Ma, le chiedo: siamo oggi liberi? È possibile scrivere per uomini che si credono liberi ma che nella realtà non lo sono? È possibile scrivere sapendo di già che c'è una menzogna sotto stante che ciascuno fa finta di non vedere? È possibile scrivere una poesia o un romanzo senza prendere atto di questa ipocrisia macroscopica?. Ma non mi voglio sottrarre alla responsabilità di abbozzare comunque una risposta, e  rispondo citando per esteso la poesia di Czesław Miłosz con un commento di Alfonso Berardinelli, uno di Giovanna Tomassucci e uno mio:

Ars Poetica  - Czesław Miłosz, 1957

Ho sempre aspirato a una forma più capace, 
che non fosse né troppo poesia né troppo prosa 
e permettesse di comprendersi senza esporre nessuno, 
né l'autore né il lettore, a sofferenze insigni. 

Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente: 

sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse, 
sbattiamo quindi gli occhi come se fosse sbalzata fuori una tigre, 
ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi.

Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata da un daimon, 

benché sia esagerato sostenere che debba trattarsi di un angelo. 
È difficile comprendere da dove venga quest’orgoglio dei poeti, 
se sovente si vergognano che appaia la loro debolezza. 

Quale uomo ragionevole vuole essere dominio dei demoni 

che si comportano in lui come in casa propria, parlano molte lingue, 
e quasi non contenti di rubargli le labbra e la mano 
cercano per proprio comodo di cambiarne il destino? 

Perché ciò che è morboso è oggi apprezzato, 

qualcuno può pensare che io stia solo scherzando 
o abbia trovato un altro modo ancora 
per lodare l'Arte servendomi dell'ironia. 

C'è stato un tempo in cui si leggevano solo libri saggi 

che ci aiutavano a sopportare il dolore e l'infelicità. 
Ciò tuttavia non è lo stesso che sfogliare mille 
opere provenienti direttamente da una clinica psichiatrica. 

Eppure il mondo è diverso da come ci sembra 

e noi siamo diversi dal nostro farneticare.
La gente conserva quindi una silenziosa onestà, 
conquistando così la stima di parenti e vicini. 

L’utilità della poesia sta nel ricordarci 

quanto sia difficile rimanere la stessa persona, 
perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave 
e ospiti invisibili entrano ed escono. 

Ciò di cui parlo non è, d’accordo, poesia, 

perché è lecito scrivere versi di rado e controvoglia, 
spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza 
che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento. 

Czesław Miłosz, Poesie Adelphi, Milano, 1983, traduzione di Pietro Marchesani


Scrive Alfonso Berardinelli: «È certo (e non sono io a decretarlo) che il Trattato poetico di Miłosz è uno dei poemi più potenti e labirintici del Novecento, un’opera audace e insolita che non sa ancora dire se ha segnato un’epoca della poesia europea o ne ha aperta una nuova. Probabilmente tutte e due le cose: il bilancio del Novecento che viene compiuto nelle sue pagine, una tappa dopo l’altra, una dimensione contro un’altra, ha spinto l’autore alla costruzione di un modello formale che poteva avere, e forse non ha ancora avuto, un’influenza sulla poesia successiva, non solo polacca. Per fare un solo esempio, citerei, restando nel cuore dell’Europa, almeno i due ‘poemi saggistici’ di Hans Magnus Enzensberger, più giovane di Miłosz di quasi vent’anni e che esordì esattamente nel 1957, l’anno di pubblicazione del Trattato poetico. Sia con Mausoleum che con La fine del Titanic, entrambi degli anni Settanta, Enzensberger uscì dai limiti della composizione breve e sperimentò il poema storico, fra narrazione e interpretazione. Contro una poetica che era sembrata dominante, ma che non esauriva certo le potenzialità dello stile moderno, Miłosz abolisce i confini tematici e linguistici della poesia; (...)».
Commenta Giovanna Tomassucci: «Czesław Miłosz ha scritto il suo Trattato poetico dall’esilio, tra il dicembre ’55 e la primavera ’56. Nella difficile condizione di poeta senza pubblico, transfuga in una Francia ostile, negli anni precedenti si era soprattutto dedicato alla prosa con il saggio La mente prigioniera (1953), ritratto di vecchi amici convertiti allo Stalinismo, e il romanzo autobiografico La valle dell’Issa (1955). In quello stesso periodo si accingeva a scrivere uno dei suoi più bei libri, Europa familiare (1959, tradotto in italiano da Adelphi con il titolo La mia Europa), atto di amore verso la sua terra natale, la Lituania, crogiuolo di lingue e culture, che per l’Occidente continuava (ma oggi è forse diverso?) a essere una ‘regione nebulosa’ su cui si ‘danno poche notizie e se mai errate’».
Il punto centrale della riflessione  della poesia viene introdotto subito nei primi versi: «una forma più capace», che non sia « né troppo poesia né troppo prosa». Una forma ampia dunque che consenta l'ingresso nella forma-poesia della forza rigenerante della «prosa». Miłosz caldeggia una nuova poesia che sia al contempo riflessione sulla storia e una selezione di immagini povere, prosaiche; di qui la scoperta che «nella poesia c'è qualcosa di indecente», la presa di distanze dalla poesia dell'ego, tutta incentrata su «ciò che è morboso» in quanto oggi «molto apprezzato dai poeti», una poesia che tratti dell'«uomo ragionevole», poiché « il mondo è diverso da come ci sembra / e noi siamo diversi dal nostro farneticare». Di fatto è questo il primo altissimo documento poetico di un poeta europeo  in favore di una poesia di ampio respiro, che contemperi l'ampio sguardo sulla storia degli uomini e i piccoli fatti del quotidiano.

secondo: se la poesia contemporanea è spesso eclettica ed eccentrica, secondo lei qual è e dovrebbe essere, invece, il ruolo della narrativa?

La narrativa viene scritta avendo presente il mercato. La poesia la si scrive avendo presente un Interlocutore posto al di fuori del mercato (questo è il senso inteso da Osip Mandel'stam espresso nel suo saggio Sull'interlocutore scritto negli anni Venti). La differenza è tutta qui. Ma le differenze in questi ultimi decenni si sono allentate perché oggi se si vuole scrivere un romanzo di intensità lo si deve pensare a prescindere dal mercato editoriale, altrimenti si scrivono anche dei buoni romanzi ma di intrattenimento. Con il che non voglio disistimare l'intrattenimento piacevole di un pubblico di acquirenti, che ha ragione di esistere, ma certamente così scrivendo e facendo il pubblico dei lettori rimarrà confinato nella zona grigia dell'intrattenimento e dell'imbonimento culturale.

terzo: ultimamente alcuni autori hanno riadattato al contemporaneo la forma ibrida di prosa poetica, lei cosa ne pensa di questa commistione?

Ritengo che il futuro della poesia sia la «forma ibrida». Oggi non è più possibile né ragionevolmente concepibile scrivere in endecasillabi tonici come faceva il Pascoli o nelle forme chiuse artatamente chiuse in base ad un programma elitario ed olistico della poesia. La forma-poesia, come ci ha insegnato Miłosz, deve essere «una forma più spaziosa» che consenta la ricezione della «prosa». Il futuro della forma-poesia è in questa direzione.

quarto: la sua opera di critica e la sua ricerca poetica, si pongono lo stesso obbiettivo? se sì quale?

Anche la mia critica e la mia poesia si muovono in questa direzione. Devo dire con scarsi risultati a giudicare dalla ostilità con cui i miei interventi critici e poetici sono stati recepiti dal ceto letterario. Ma questo l'avevo già messo in conto dall'inizio. Inoltre, io non ho alle mie spalle alcuna cattedra universitaria né occupo un posto di rilievo presso gli uffici dei grandi editori, perché mai si dovrebbe prestare attenzione al mio discorso critico e a quello poetico?, anzi, proprio la libertà e indipendenza dei miei interenti critici è una ragione in più per circondarmi con un muro di silenzio, non crede? - Il fatto che io sia un isolato è sia il mio punto di forza che il mio punto di maggior debolezza.

quinto: da poeta cosa consiglierebbe a un altro poeta?

Leggere molto, di tutto, di filosofia, di scienza, di poesia, i grandi romanzi. Pensare a vivere. E, soprattutto, non accettare nessuna idea in modo acritico, sottoporre ogni ideologema ad attento controllo critico. E poi, in fin dei conti, un grande poeta sorge soltanto quando ci si è impregnati della cultura di un'epoca e si riesce a rappresentarla in una «forma», quando accade un «evento» che mette in moto una «forma».

sesto: un suo motto letterario per salutarci

Non accettare mai di fare un passo indietro.


17 commenti:

  1. Avere la possibilità di leggere e conoscere il pensiero di uomini come Giorgio Linguaglossa, che, utilizzando la parola come strumento plastico e multifunzionale, rappresentano l’esistere di un epoca, arricchiscono il bagaglio culturale ed emotivo individuale.
    Il confronto, l’aprire la mente ad idee ed opinioni diverse, condivise o meno e l’andare oltre le proprie convinzioni, implicano una crescita umana ed artistica per chi possiede la sensibilità di parlare, tramite tutte le forme in cui si esprime il linguaggio universale della poesia, al cuore di chi vuole ascoltare. Fulvia Marconi

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  2. Esiste realmente un filo che tiene collegate le varie arti, quasi fossero, in principio, un'unica materia. Esse non sono altro - e questo è magia- che rivelazioni in forme diverse dell'anima e delle capacità dell'uomo. Ognuna è completa in sé stessa eppure manchevole di qualcosa: quel qualcosa che manca alla pittura è presente in poesia, a sua volta la poesia è manchevole di qualcosa che appartiene però alla scultura e via dicendo. L'autore percepisce questa mancanza, questa forma perfetta e imperfetta contemporaneamente; l'insoddisfazione si tramuta così in continua ricerca non della perfezione, ma della bellezza.
    Questa continua ricerca, ad opera dell'autore stesso, nel tempo, comporta il cambiamento, il movimento, all'interno di quelle che sono le "linee guida" o i canoni delle varie arti. Questo è naturale, è nell'uomo.
    Mi è cara la poesia in quanto poesia, la prosa in quanto prosa, ognuna ha la sua capacità, ognuna il suo modo di arrivare dove deve, lo stesso per l'arte e via dicendo..queste diversità sono la bellezza.
    Fonderle, miscelarle, è farle evolvere, e contemporaneamente prendere in considerazione il fatto -ben noto- di perdere qualcosa, qualcosa che si tramuta in altro, magari in altra bellezza. La prosa-poetica ne è un esempio, ma se ne potrebbero citare moltissimi altri circa le varie arti.
    Personalmente mi trovo a metà strada, tra l'auspicio al movimento e la necessità di mantenimento.
    L'arte, a mio modesto parere, in qualsiasi sua forma, è una tensione alla bellezza, intesa come equilibrio dei contrari; in che modo essa ci arrivi è nelle mani della vita.
    Mi complimento per la bella intervista, che mantiene vivo il senso auto-critico e che come monito ha, seconda mia interpretazione, questo concetto: ciò che si fa lo si deve fare profondamente.

    Aurora De Luca



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  3. Ho letto con attenzione l’intervista, e concordo in gran parte con quanto scritto da Linguaglossa. Tuttavia, credo che l’arricchimento venga anche dal dibattito, e su alcuni punti vorrei dire la mia.
    Mi collego quindi ai vari, stimolanti, punti di questa intervista, per dire che un poeta non deve necessariamente voler dire qualcosa, ancor meno deve indottrinare, o raccontare i fatti suoi. Il poeta sperimenta nuove vie comunicative, e il lettore deve trovare qualcosa di intimamente proprio, qualcosa di profondamente intimo, eventualmente qualcosa di comune, avvicinandosi all’archetipo, che ci permette di com-unicare … Per questo la poesia, spesso, è un pugno nello stomaco, e raramente un racconto di questioni personali. Per quanto riguarda la questione degli uomini liberi, questo non è certo un problema dell’oggi, forse è del sempre… e credo che il poeta debba trovare la propria liberà attraverso l’espressione poetica fregandosene di chi leggerà. Il lettore troverà il proprio cammino senza che il poeta lo guidi. La poesia è una chiave che apre le porte di una libertà nuova. Se si spiega non è libera, perché la poesia contiene l’inspiegabile. E ricordiamo sempre che il poeta ha come primo interlocutore l’anima!
    Infine, vorrei arricchire il consiglio. Vero, leggere molto è importante… ma non dimentichiamo: selezionare, lavorare, rilavorare, scartare… si pubblicano troppe poesie, troppe sillogi… e c’è, ahimé, troppa ripetizione… se non siamo selettivi, in primis, noi scrittori… la poesia diventerà solo dispersione. Non è certo questo ciò che vogliamo, vero?



    Buona giornata

    Claudio Fiorentini

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  4. Sono anch'io convinto, come mi sembra lo sia Linguaglossa, che il poeta non possa illudersi di essere libero, e quindi di poter cantare spontaneamente, ingenuamente come un animale. Magari fosse possibile! Nell'animale non c'è la menzogna dell'ego, non c'è l'inquinamento razionale-emotivo, non c'è il pregiudizio che nell'uomo la fa da padrone, rendendolo succube degli schemi e degli indottrinamenti storico-culturali. La domanda è: potrà mai l'uomo superare tali menzogne? potrà mai schivare le trappole da lui stesso create, che ostacolano il libero esporsi dell'animale che è in lui? Ognuno risponda secondo il proprio sentire, ma un fatto è certo: solo cosìl'uomo può sperare di diventare creativo.
    Franco Campegiani

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  5. Penso che i contenuti dell’intervista si possano complessivamente condividere. Con qualche riserva, però. Intanto Czesław Miłosz ha esposto la sua rispettabilissima idea della poesia che fa capo alla sua esperienza della vita. E dunque è qualcosa di soggettivo, che può trovare consonanze più o meno vaste, parziali o totali. Linguaglossa condivide quell’idea, l’accetta in pieno e se ne fa paladino. Io ho qualche dubbio.
    Vediamo. La prima affermazione di Linguaglossa -la vera poesia è quella scritta da un uomo libero per cittadini liberi-, che avevo in un primo momento immediatamente condivisa, mi ha richiamato subito alla mente i casi illustri del “cortigiano”Ariosto, dello sfortunato (e conformista) Tasso e del semiprigioniero Leopardi che sembrano confliggere con l’assunto di Linguaglossa. A meno che questi non alluda a una libertà interiore, che però già sarebbe una mezza libertà. Perché, quanto a poesia, quei tre Signori, con vistose menomazioni della libertà, ne hanno fatta di vera e grande. Anche se non so quanto fossero liberi il pubblico e i lettori dell’epoca. Ma forse Linguaglossa vuole semplicemente riferirsi con la sua affermazione ad una poesia di forte impegno civile. Che però è solo un aspetto della poesia.
    Non mi convince neanche l’idea contenuta nell’incipit dell’Ars poetica di Miłosz: “Ho sempre aspirato a una forma più capace, /che non fosse né troppo poesia né troppo prosa” . La teorizzazione della prosa poetica (o “forma ibrida” ch’è lo stesso) come superamento e come futuro della poesia, solo perché la forma di quest’ultima è poco “capace”, mi pare un’autentica assurdità. Soprattutto perché, oltre la già grande varietà di versi e metri, la poesia italiana possiede i versi lunghi ( di dodici, tredici, quattordici, di sedici, di diciannove sillabe!) buoni per tutti gli usi (poetici).
    Poi bisogna capirsi. Se vogliamo scrollarci di dosso ogni regola perché ci appare come un dogma, un’inutile costrizione, beh, allora uno può prendere qualsiasi strada. Può anche capitare che l’accapo lo detti la pagina, se non lo sceglie il poeta. E poi l’ampio respiro alla poesia non lo dà “una forma più spaziosa” ma la forza e la qualità del creatore (o, più modestamente, del “faber”).
    Certo la prosa poetica non è invenzione recente. E può avere una sua vita. Non però come futuro della poesia: che è ritmo, armonia, musicalità, emozione intensa e profonda, grazia, bellezza, forza e tante altre cose; che reclama il suo linguaggio e la sua misura. Perché la poesia, al di là di tutte le teorizzazioni, le interpretazioni, le etichette e le mode del momento, continuerà ad avere vita SUA. Ha solo bisogno di buoni interpreti.
    In ultimo, è mia convinzione che chi scrive, in versi o in prosa, non debba farsi influenzare dal mercato o dal pubblico. Se lo fa, è solo un mentecatto che va in giro con il cappello in mano, in cerca di un obolo pietoso.
    D’accordo su tutto il resto.
    Pasquale Balestriere

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  6. Si potrebbe condividere appieno (ma c’è chi potrebbe anche definirla apodittica) l’affermazione di Giorgio Linguaglossa, secondo cui oggi gli uomini, pur credendosi liberi, in realtà non lo sono affatto. Posta una tale premessa (con l’aggravante che “ciascuno fa finta di non vedere” la “menzogna” che sottostà a questa realtà), Linguaglossa si chiede: “È possibile scrivere una poesia o un romanzo senza prendere atto di questa ipocrisia macroscopica?”. Considerata la prima domanda dell’intervista (se cioè esiste oggi in Italia un certo tipo di poesia capace, in prima istanza, di dire qualcosa a chi legge), Linguaglossa confessa chiaramente, per tale riguardo, tutto il suo scetticismo: non è possibile fare poesia, o comunque letteratura, per chi non gode di uno status di uomo libero. Ma così facendo, piuttosto che rispondere al quesito, egli si è nel frattempo come defilato, spostando il problema da un piano strettamente suo proprio, quello della poesia, su di un piano decisamente speculativo e filosofico. Il dilemma, così, muta di prospettiva e di senso: se è vero che qui si parla di poesia, e contestualmente si parla di “libertà”, “ipocrisia”, “menzogna”, si registra uno scarto, un salto di qualità, ovvero il passaggio dall’estetica all’etica, dalla forma alla sostanza, dal metodo al merito. Personalmente, ritengo che poesia e filosofia siano strettissimamente apparentate da una medesima istanza, e, parafrasando von Clausewitz, si potrebbe dire che la filosofia è la prosecuzione della poesia con altri mezzi (o viceversa): entrambe, infatti, sono accomunate dal medesimo impianto teleologico, ovvero dalla ricerca di bellezza e verità.
    Ma, a questo punto, entra in ballo un’altra considerazione: se la poesia si muove in questo contesto, si deve sciogliere un ulteriore dilemma; se, cioè, la poesia debba caratterizzarsi come poesia “pura” o, invece, come poesia “impura”; se debba, di conseguenza, essere fine a se stessa (così perseguendo una purezza assolutamente formale, secondo il principio crociano dell’ “intuizione pura”), o se invece possa e debba misurarsi con gli avvenimenti e le vicende che attraversano il mondo e la vita degli uomini (da questo punto di vista appare indubitabile come la condizione dell’uomo - che secondo Linguaglossa oggi sconta una mancanza di autonomia e di libertà - debba inscriversi in un ambito del tutto etico e valoriale). A questo interrogativo di fondo risponde infine Giorgio Linguaglossa, introducendo (e facendo sue) le riflessioni di Czeslaw Milosz tratte da “Ars Poetica”. Confessa dunque Milosz di avere sempre aspirato ad una “forma più capace,… né troppo poesia né troppo prosa”, con il fine dichiarato di una maggiore comunicabilità e reciproca comprensione tra l’autore e il lettore. Ciò presuppone, secondo Linguaglossa, l’abbandono di quella “morbosa” poesia dell’ego (e, io aggiungerei, di quella sorta di narcisistica autoreferenzialità), per dare spazio e visibilità (e corrispondenze) al lettore. Una poesia, insomma, “ibrida”, che abbracci un orizzonte vasto e che getti un “ampio sguardo sulla storia degli uomini e i piccoli fatti del quotidiano”.
    Mi sembra una scelta di campo precisa, una sorta di piccolo manifesto della poesia “impura”; di quella poesia, cioè, capace di “contaminarsi” con la storia e gli accadimenti che segnano la vita, per filtrarli e “raccontarli”. Ma se a spingere la poesia in questa direzione saranno, di volta in volta, le urgenze libertarie e identitarie (e Giorgio Linguaglossa, nella circostanza, denuncia con decisione la sostanziale schiavitù intellettuale e morale dell’uomo e della società di oggi), o le innumerevoli emergenze morali e civili che caratterizzano il nostro tempo, allora potremo forse finalmente registrare la felice (e pedagogica, nel senso più alto del termine) sinergia tra poesia e filosofia.

    Umberto Vicaretti

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    1. gentile Umberto Vicaretti,

      in un certo senso (e in una certa misura) è vero: ho spostato il fuoco del discorso dal problema della «libertà», cioè degli uomini non-liberi che si rivolgono ad altri uomini non-liberi, a quello dell'etica, all «ipocrisia» e alla «menzogna» di coloro che abitano le società della civiltà occidentale. In un certo senso ho spostato il problema dall'estetica all'etica, ma si tratta solo di un mutamento di angolo visuale: il problema dell'ipocrisia e della menzogna entrano prepotentemente nella forma-poesia, sono categorie anche dell'estetica, oltreché dell'etica. Non è affatto un caso che oggi nessuno dei filosofi contemporanei scrive più di estetica, tropi sono i nodi e le trappole che li attendono. Mi chiedo: quali sarebbero le categorie dell'estetica oggi?, ecco questa sarebbe una bella domanda da porre a un filosofo.
      Quindi partire dal problema della libertà e della menzogna è un buon partire, entrambe sono categorie dell'estetica.
      Quando un poeta scrive una poesia, io ritengo che debba poetare a partire da questi concetti: che la lingua che usa è la lingua che gli uomini del suo tempo smerciano quotidianamente, che l'uso che egli ne fa è un uso macchiato dall'alienazione dall'estraneazione, che il suo impiego è sempre un impiego ideologico (anche in assenza di ideologie), che la «forma» che un poeta impiega e accetta è sempre una forma che ti consente di dire certe cose e non altre, e così la tradizione, anch'essa ci permette di dire delle cose e non altre, e quindi l'idea di Milosz di fabbricarci una «forma più capace» è una idea di estetica ma anche di politica e di etica... in una forma più capace ci puoi mettere più cose, e anche cose contraddittorie...e poi il problema della «menzogna» ritengo sia centrale per l'arte attuale, ma non nel senso che il poeta è quell'ispirato che parla in nome della verità, per carità! la parola verità lasciamola ai sacerdoti e ai teologi, non fa parte del demanio dell'estetica...
      Ricordiamoci di Pasolini il quale diceva che quando leggeva un testo di poesia subito ne avvertiva il lezzo dal quale proviene, se chi scriveva era un borghese benestante o un intellettuale pagato dalle casse dell'erario.
      Ancor prima di apparire la poesia attuale già emana un fetore canaglia. Certo c'è chi non lo avverte, buon per lui, c'è chi lo saluta come un profumo finissimo di Cristian Dior, buon per lui... io ne prendo le distanze, per me un lezzo non è un profumo, e dubito che lo diventerà mai.

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  7. Nota su intervista a Giorgio Linguaglossa.


    Entrando nei cruciali argomenti di quale sia il compito della poesia oggi, di chi siano e a cosa servono i poeti del terzo millennio e quale forma debbano essi dare alla loro scrittura io sostengo da tempo la necessità che la poesia moderna debba subire una sostanziale scrematura del suo contenuto meramente egocentrico, un rigetto del suo programma olistico, elitario, connotazioni che l'hanno caratterizzata per lungo tempo e che sono state causa del suo esilio in torri d'avorio o in esclusivi salotti letterari, lontano dalla gente comune e farsi più essenziale, dinamica, diretta, sociale per avvicinarsi alle istanze di una società eterogenea e multimediale, poco ricettiva alle tematiche esclusive ed intimistiche, che vive allo scoperto e reclama una vicinanza della scrittura e, delle arti in generale, alle proprie necessità esistenziali. Ben venga in questo senso una forma ibrida ( poesia -narrativa) sempre che sia possibile e, non è cosa facile sia per capacità creative che per esigenze commerciali, dare frequenze poetiche alla narrativa in modo che non si disperda il contenuto poetico essenziale. Ben vengano anche associazioni ideali tra poesia e pittura, poesia e musica o altre forme che abbiamo la capacità di scardinare l'indifferenza dei lettori In questo senso si può parlare di poesia nuova che riconosce il tempo della propria appartenenza e si fa riconoscere per quella che è la sua natura primaria: emozione e riflessione esistenziale . Una poesia che tratti “dell'uomo ragionevole”, nella sua dinamica vitale, come caldeggiato da Milosz. Per giungere a tutto questo occorre che il poeta sia espressione piena e vigorosa del proprio tempo, inserito nella vita quotidiana, amante di tutte le forme di conoscenza, aperto a tutte le tematiche e problematiche, espressione come asserisce Linguaglossa della cultura, e aggiungo io, della criticità di un'epoca.
    Carmelo Consoli

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  8. Forse sarò un po’ fuori dal coro e un po’ schematico, ma penso che non ci sia bisogno di introdurre forme di prosa nella poesia o una “contaminazione” prosaica della poesia né scrivere in endecasillabi tonici, per di più pascoliani, per realizzare nuovi registri espressivi più complessi. Lo smembramento delle forme poetiche (spesso già anche discutibile) effettuato da molta poesia moderna e contemporanea e la maggiore flessibilità espressiva della nostra arricchita lingua, ci consente modulazioni nuove, articolate ed ardite, senza più limiti significativi.
    In ogni caso è verità quella affermata da Linguaglossa che il poeta “libero” debba rivolgersi ad uomini “liberi”, anche nel dubbio che questi siano ormai cosa rara. Essi saranno anche pochi, certamente una minoranza, ma la loro esistenza è il presupposto perché si scriva poesia. Per quel che riguarda, poi, la somiglianza (in questo caso) della poesia (della Palazzo) e della pittura (della Battaglia) non è qui dato sapere se siano stati concordati reciprocamente i temi della poesia e dell’arte figurativa: cosa che potrebbe cambiare e/o precisare il senso della “mostra”multimediale svoltasi nella Galleria Artemare di Roma. Perché al di là del fatto che tutte le forme di arte possono trovare assonanza e comunanza di espressione, resta la peculiarità (anche per la ricerca e la realizzazione della bellezza) che la poesia è l’unica forma di arte che si esprime solo con la parola senza l’ausilio di nessuno strumento (pennello, colore, tela, martello, scalpello, pianoforte, violino, eccSorriso,come ha notato il critico d’arte A. Picariello). Nel caso della poesia il poeta è solo con la sacralità della sua parola e solo con essa può trasmettere e comunicare il suo pensiero e la sua anima. Affermare poi che la “forma-poesia” (come ci ha insegnato (!?) Milosz) deve essere una “forma più spaziosa”che consenta la ricezione della prosa” e che “il futuro della forma-poesia è in questa direzione” mi sembra più una debolezza, una rinuncia, una sconfitta del poeta, che una necessità per cercare nuove strade e nuove espressioni.
    Umberto Cerio

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  9. Condivido i punti di vista di Linguaglossa in questa interessante intervista di Ambra. In particolare la diversa destinazione della narrativa rispetto alla poesia, laddove la narrativa sottintende come interlocutore il mercato, mentre la poesia si rivolge ad un pubblico più attento e più ristretto.

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  10. a Pasquale Balestriere e a tutti gli intervenuti.

    Proviamo a ragionare:
    Il momento espressivo-metaforico della forma-poesia è uno spazio espressivo integrale (che può essere colto in un sistema concettuale filosofico, che oggi non c'è). Il momento espressivo coincide con il linguaggio, e il linguaggio è condizionato dai linguaggi che l'hanno preceduto... se il momento espressivo si erige come un qualcosa di più di esso, degenera in non-forma (si badi non parlo qui di informale in pittura come in poesia!), degenera in mera visione del mondo, cioè in politica, in punto di vista condizionato dagli interessi di parte, in chiacchiera, in opinione, in varianti dell'opinione, in sfoghi personali, in personalismi etc. (cose legittime, s'intende ma che non appartengono alla poesia intesa come «forma» di un «evento»).
    Il problema di fondo (filosofico) della poesia della seconda metà del Novecento (che si prolunga per ignavia di pensiero in questo post-Novecento che è il nuovo secolo), è il non pensare che il problema di una «forma» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio» e quest'ultimo non può essere disgiunto dal problema del «tempo» (tempus regit actum, dicevano i giuristi romani). Ora, il digiuno di filosofia di cui si nutrono molti auto poeti, dico il problema di pensare questi tre concetti in correlazione reciproca, ha determinato, in Italia, una poesia scontatamente lineare, cioè che procede in una sola dimensione: quella della linea, della superficie... ne è derivata una poesia superficiaria e unidimensionale. E si badi: io dico e ripeto sempre che il maggiore responsabile di questa situazione di imballo della poesia italiana è stato il maggior poeta del Novecento: Eugenio Montale con "Satura" (1971), seguito a ruota da Pasolini con "Trasumanar e organizzar" (1968). Ma queste cose io le ho già spiegate nel mio studio "Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010" edito da EiLet di Roma.
    In questa sede posso solo tracciare il punto di arrivo di questo lungo processo: il minimalismo e il post-minimalismo.
    Con questa conclusione intendevo tracciare una linea di riflessione che attraversa la poesia del secondo Novecento, una linea di riflessione che diventa una linea di demarcazione.
    Delle due l'una:
    o si accetta la poesia unidirezionale del post-minimalismo magrelliano (legittima s'intende), che prosegue la linea di una poesia superficiaria e unidirezionale che ha antichi antenati e antichi responsabili (parlo di responsabilità estetica) precisi;
    o si tenta una linea di inversione di tendenza da una poesia superficiaria a una poesia tridimensionale che accetta di misurarsi con una «forma più spaziosa», seguendo e traendo le conseguenze dalla impostazione che ha dato Milosz alla poesia dell'avvenire.
    La poesia citata di Milosz è un vero e proprio manifesto per la poesia dell'avvenire, chi non comprende questo semplice nesso non potrà che continuare a fare poesia superficiaria (beninteso, legittimamente), ma un tipo di poesia di cui possiamo sinceramente farne a meno.

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    1. Gentile Giorgio Linguaglossa,
      essendo il primo intestatario di questa sua risposta, mi sarei aspettato di trovarci dentro qualcosa che chiarisse le mie perplessità ( che magari a lei appaiono come renitenze) o che contestasse qualche mio rilievo. Sfortunatamente, nulla di tutto questo.
      La tridimensionalità (forma-spazio-tempo) è una necessità della poesia. Premesso che non ho letto il suo testo “Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010”, mi appare però, nel corpo della sua risposta, abbastanza apodittica, vaga e discutibile nelle conclusioni l’espressione “Il problema di pensare questi tre concetti in correlazione reciproca ha determinato in Italia una poesia scontatamente lineare, cioè che procede in una sola dimensione: quella della linea, della superficie...”. Significa forse che in Italia nel secondo Novecento si è affermata una concezione (o una visione, con conseguente realizzazione) di una poesia “superficiaria e unidimensionale” per l’assenza o per una scorretta considerazione di uno o più elementi della triade forma-spazio-tempo? E, se sì, come? e in quali autori (oltre il citato Magrelli)?
      Inoltre noto che lei, qui e altrove, spesso parla di problemi filosofici della poesia, di “digiuno di filosofia di cui si nutrono molti auto poeti”. Ora, se lei usa il termine “filosofia” volendo significare una (necessaria) profondità di pensiero e di cultura del poeta, con una sua precisa Weltanschauung , va bene. Non sono assolutamente d’accordo nel caso lei voglia sostenere che una teoria filosofica ( o d’altro genere) debba calare dall’alto a guidare e normare la scrittura della poesia, che in tal caso diventerebbe quanto meno “di scuola”, se non incatenata da regole e divieti.
      Insomma penso che non debba essere la filosofia a dettare le regole della poesia.
      La poesia la fanno i poeti, non le teorie, più o meno filosofiche. Perciò, anche le “poetiche” sono un fatto successivo all’atto creativo. In altri termini, la poesia è anteriore ad ogni sua formulazione teorica.
      A mio modo di vedere, la “filosofia” del poeta è costituita dall’osservazione,dalla conoscenza e dalla consapevolezza della vita e della storia, maturate nel corso del suo perenne e complessivo percorso educativo e formativo, cioè dalla nascita in poi; è, insomma, il suo modo di leggere e di vivere la realtà, di interagire con essa. E credo fermamente che per il poeta debba esistere un solo legame forte, indissolubile: quello tra poesia e vita. In più non reputo affatto che chi scrive versi si debba porre fini o scopi puntuali, perché è l’urgenza della vita a dettare significanti e significati poetici, a determinarne accensioni e ricadute.
      Tanti anni fa, in occasione di una cerimonia di premiazione di un concorso letterario nel Casentino, Vittorio Sereni , prendendo la parola esclamò ( forse sentendosi fuori o al di sopra della mischia): “Oggi non mancano i poeti, manca la poesia”. Certo aveva ragione, perché la poesia, quella vera, ha bisogno, per erompere, non della piatta ovvietà quotidiana di questo tempo informe, ma di violente scosse o, almeno, di intense emozioni; e di buoni percettori e interpreti.
      Mi perdoni il linguaggio franco e diretto, del quale non saprei fare a meno.
      Pasquale Balestriere

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  11. Mi sembra molto interessante l'intervista e anche il dibattito che ne è seguito. Mi piace molto la poesia di Milosz, e credo che sì, la direzione da prendere sia quella indicata nei suoi versi. Non riesco a seguire il discorso menzogna ipocrisia libertà, tuttavia ho molto presente il concetto di linguaggio come forma di costrizione, come limite da superare, e credo che la poesia abbia questa vocazione, di liberarci dalle forme costrittive del linguaggio e inventare nuove direzioni espressive, un nuovo linguaggio capace di delineare la progettazione di nuove visioni per la società e nuovi obiettivi. Grazie per i molti spunti di riflessione offerti dall'intervista! paolo polvani

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  12. Reputo necessario fare un breve introduzione sulla delicata fase
    emotiva, che accompagna il momento creativo di ogni autore.
    E pur ammirando e condividendo alcuni argomenti esposti dal
    bravo Prof. Giorgio Linguaglossa, tento di profilare il concetto
    della la mia visione poetica, maturata in un diverso ambito
    culturale. Come l’acuto critico, vivo isolata anzi reclusa nella
    mia tana. Malgrado gli scoramenti dovuti alla mia invalidante
    paralisi, non ho mai abbandonato la serena speranza e il
    desiderio impetuoso di vivere.
    Sin dagli albori, presso tutti i popoli, l'uomo ha avvertito
    il desiderio di coltivare il senso del bello creando armoniose
    opere d'arte per i posteri.
    Nella storia culturale dell’umanità. il sentimento estetico è
    ineludibile e costituisce un bisogno psichico innato e primario.
    Mai come oggi, mi sembra é importante dar spazio alla categoria
    immateriale per riappropriarci della nostra integrità psicofisica.
    Se invece prevarrà il consumismo e si lascerà inaridire la vita
    interiore e il sentimento estetico, pure la nostra fantasia ormai
    priva di stimoli si appiattirà, l'estro creativo rimarrà cristallizzato
    e negletto.
    Sin dai remoti tempi di Virgilio, ci è stato tramandato che i più
    significativi testi poetici sono intrisi di silenzio.
    Nella sua alta concezione di elaborazione creativa, la poesia
    doveva possedere l’essenza della parola, affinché essa potesse
    contribuire ad elevare l’umano spirito e tentare di avvicinarsi al
    misterico concetto dell’assoluto.
    Anche il sommo Dante trovò giusto tale sottile impostazione
    poetica, infatti nella terza Cantica del Paradiso.
    Egli col suo linguaggio tende alla perfezione della propria anima
    e attraverso la sapienza e la scienza tenta di avvicinarsi alle sublimi
    altezze della sfera celeste.
    Dante infatti identifica l’Eterno come splendida luce e via via
    che l’essere umano si avvicina a Dio ossia, alla divina luce, i suoi
    pensieri e il suo canto diverranno gradualmente incorporei e più
    densi di alata spiritualità.
    Tale incessante desiderio di sopranaturale, pone in ogni tempo e
    ad ogni poeta, il senso del proprio limite, insito nella sua terragna
    umanità che gli impedisce di decollare negli infiniti cieli come
    avrebbe desiderato.
    Egli cerca di conciliare la propria materialità senza materialismo,
    però è consapevole che qualsiasi parola anche la più raffinata, risulta
    inefficace ad esprimere la suprema bellezza dell’inesprimibile .
    E quindi necessariamente, subentra il silenzio che ristabilisce con un
    rigoroso mutismo, la gerarchia delle emozioni e delle sensazioni.
    L ‘esigente concetto del silenzio in poesia, è sentito anche da
    Shakespeare quando dice:-“ nella triste vastità e nel mezzo della notte,
    qualcosa succede tra la” triste vastità e il mezzo”. Si crea un intiero
    spazio, una spaziosità di nera notte”. Perciò, l’inadeguato mezzo
    espressivo, per quanto sia luminoso e impalpabile , non è che un tenue
    ” barlume”capace di subire una brusca contrazione vibratile,
    paragonabile al nulla, ossia al sovrano silenzio.
    M. Teresa Santalucia Scibona

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  13. L'intervista neoN-Avanguardista di Ambra è una gran figata!
    [Comunque comunico di non essere assolutamente un robot]

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  14. Ricordo a tutti, in ogni caso, che l'intervista di Ambra Simeone è uscita, in cartaceo, sulla rivista neoN-Avanguardista Il Guastatore: I. POZZONI – A. SIMEONE (a cura di), Il Guastatore, Gaeta, deComporre Edizioni, n. II/1, 2014, ISBN: 978-8898671342.

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