AA. VV. DUECENTO ANNI D’INFINITO
1819-2019
Poesia e pittura nel bicentenario
dell’idillio leopardiano
a cura di Cinzia Baldazzi e Maurizio
Pochesci
Duecento anni d’infinito il
titolo del libro in oggetto: un vero
ensemble di poeti e pittori che con la loro creatività, prendendo ispirazione
dal capolavoro leopardiano, hanno dato luogo a poesie e immagini di notevole inventiva.
Un risultato veramente ragguardevole. Cinzia Baldazzi e Maurizio Pochesci si sono presi l’onore e l’ònere di organizzare
il tutto e di portare a termine un’impresa letteraria di grande rilievo; questo
ci scrive Cinzia nella mail con cui mi comunica l’evento: “Gentile professore, pochi mesi fa è stato pubblicato
il libro “Duecento anni d’Infinito”, antologia da me curata per
Intermedia Edizioni. Il volume è frutto di un “innamoramento” leopardiano
risalente alla gioventù e che adesso trova uno dei tanti possibili compimenti. Nel bicentenario della composizione de L’infinito (1819-2019)
ho chiesto a 47 poeti contemporanei di ispirarsi, con i loro versi, al testo
leopardiano. Si sono poi aggiunti 14 pittori, ognuno con la propria
interpretazione.
Ho curato il
libro insieme a Maurizio Pochesci, aggiungendo un mio saggio critico e una
cronologia essenziale. Ma il volume è soprattutto delle autrici e degli autori
che vi hanno preso parte, rielaborando, ciascuno a proprio modo, le suggestioni
del testo originario, rendendo così omaggio al canto leopardiano sulla pagina e
sulla tela. Spero innanzitutto che il libro risulti di gradevole lettura…” (Cinzia
Baldazzi). Una crestomazia di cospicua valenza artistica, che tutti
dovrebbero avere negli scaffali della propria biblioteca, innanzitutto perché aggiorna sulla vita estetico-culturale contemporanea, poi perché
fa piacere, veramente piacere, venire a contatto con tanti approfondimenti su
un autore di cui, forse, non riusciremo mai a sapere tutto; infine perché leggere
tanti stili assieme convogliati verso la potenza emotivo-esistenziale dell’eterno recanatese significa respirare il
bello, cosa magistrale in un mondo dove domina un materialismo invadente e
oppressivo. Un bel volume, ben fatto e editato con gusto e professionalità da Intermedia Edizioni. Esteticamente
valido per copertina (Maurizio Pochesci,
Il tempo infinito, litografia, 2018), impaginazione, caratteri, quarta con notizie
biografiche di Cinzia Baldazzi e
Maurizio Pochesci. Il volume inizia con una nota introduttiva dei due curatori,
a seguire l’elenco dei poeti, dei pittori o fotografi, e quindi la poesia L’Infinito. Indicativa la Prefazione di
Cinzia Baldazzi, dal titolo L’Infinito,
scrittura del vento e della vita, che, profonda ed esegeticamente
stimolante, ci fa da prodromica apertura ad un argomento che rafforza le nostre conoscenze e stimola al piacere dell’arte;
ne riportiamo un lacerto: “… Ma in Leopardi sono concrete folate ventose, fonte
dunque di un indizio – di un sèma, suggerirebbe piuttosto il semiologo Luis
Prieto – del rapporto tra esperienza e riflessione in progress: l’una indicata dal “colle”, della vista della “siepe”, lo
“stormir” del “vento” tra le “piante” (vicende comuni o quotidiane); l’altra
aperta in un dialogo tra i dati oggettivi e la
reattività personale, in un sentiero di stampo empirico, immersi in una
ricerca priva di barriere non identificabili… Dinanzi agli ostacoli riscontrati,
allora sarebbe bene rammentare l’invito della poetessa Margherita Guidacci,
quando consigliava:
Lascia sia il vento a completar le parole
che la tua voce non sa articolare.
Non ci occorrono più le parole.
Siamo entrambi il medesimo silenzio.
come due specchi, svuotati d’ogni
immagine,
che l’uno all’altro rendono
un semplice raggio. E ci basta…
Nell’Infinito,
il poeta allontana da sé hic et nunc
di orientamento intimo, abbandona l’approccio diaristico e la confessione
privata. “Un moto dell’anima allo stato puro”, precisa Fubini, privo di
richiami alla dolorosa esistenza, reso oggettivo e potente dalla téchne di una impegnativa prova stilistica: nelle righe scandite
dall’endecasillabo sciolto – ovvero non rimato– risaltano una varietà di figure
retoriche e un’ampia gamma sintattica, aprendo così la strada, ricorda ancora
Fubini, a un discorso significativo, a un andamento ritmico asimmetrico, specifico e alternativo,
di certo non inferiore a quello affermato nelle cosiddette “canzoni della
maturità””… e conclude: “… nell’Infinito leopardiano, superiamo la nostra solitudine, e il rumore delle fronde diffuso un po’ ovunque – suono
riconoscibile, voce umana è all’altezza di condurre tutti noi a pochi passi
dallo spazio-tempo sterminato.”. Un saggio di portata epistemologica, da consultare
per approfondimenti contenutistico-formali negli studi leopardiani; per
riferimenti retorici figurativi afferenti allo stile del recanatese. Tante
sarebbero le poesie da citare, i versi da riportare per una obiettiva
ricostruzione filologica; “C’è ovviamente – scrive ancora la Baldazzi – un
vasto assortimento: brani rimati, endecasillabi sciolti, verso libero, rinvii
alla figura del Poeta e alla sua vita, accenni ad altre poesie, a volte anche
ironia…”. Sì, tanti sarebbero i versi da citare, e non me ne vogliano coloro
che non rientrano in questa narrazione, pur abili tutti nel proporre, con affiancamento
di ispirazione emotiva, brani attinenti alla immersione esistenziale di
Leopardi, nei quali allunghi sinestetico-allusivi o scarti di personale
metaforicità potenziano il tessuto versificatorio. Mi limiterò a riportare quelli di Tabor di Antonio Damiano,
psicologicamente emblematici, rivolti a “quel placido mare,/ove un
giorno ti arrise l’eterno”, molto vicini, nello spirito, a “E il naufragar m’è
dolce in questo mare.”:
(…)
E sgorgava dall’anima il canto di chi
mesto
lasciava la riva tra inganni e lento
morire,
per svanire in quel placido mare,
ove un giorno ti arrise l’eterno.
O a quelli di Lorenzo Spurio in L’àncora dei miei pensieri
a Giacomo Leopardi:
(…)
cerco
senza tregua: è il vento
che
rincresce l’oltre che si staglia
mentre,
scorato a perlustrare,
indosso
foglie della campagna
che
stringe l’àncora dei miei pensieri.
Forse
in queste poesie, come nell’empito meditativo di Io come un naufrago di Sandro
Angelucci, più che negli altri componimenti,
risalta con nettezza lo scavo psicologico che tanto sa di travaglio eistenziale.
Angelucci, col suo stile ben identificabile per articolazione euritmica e
intensità riflessiva, riesce a trasferire il suo patema di germogli e radici in
un campo semantico-significante di stampo splenetico; in una oggettivazione di
estrema pluralivocità umana in bilico tra realtà e occhio dell’eterno:
La
vita è un’altra cosa,
mi
sono detto,
altro
il suo ritmo
altro
dell’iride il pulsare
nell’occhio
dell’eterno
(…)
Perché
c’è un’altra terra
per
le mie radici
e
un altro cielo
per
i miei germogli.
Centoquattro
le composizioni dei poeti prescelti, e quattordici le realizzazioni
pittorico-fotografiche, qui riportate. Credo sia opportuno, a questo punto, citare
queste ultime contraddistinte da: simbolismo cromatico, concretizzazione e originalità
interpretativo-rielaborativa: Tramonto
sull’ermo colle, di Mariarosaria Abbate; Il mare che avanza, di
Rossana Bartolozzi; Infinito,
di Giampaolo Berto; Interminati spazi,
di Donatella Calì; Aperti al vento…
notturno, di Mauro Camponeschi; Amore
infinito, di Alessandra De Michele; L’infinito
dell’arte, di Cesare Esposito; Itinerari
dell’animo, di Luciano Fabbrizio; Il
dentro dal di fuori, di Patrik Passini; Osservando
l’ermo colle, di Simona Picone; Riposa
sul fondo (Il naufragar m’è dolce in questo mare), di Flavia Polverini; Ninfee, di Marisa Tafi; e Arabeschi infiniti, di Luciana
Zaccarini.
Il
libro si chiude con l’ultima voce poetica, quella di Daniela Vigliano, che, con il verso conclusivo, tocca uno dei dilemmi più
vicini al vivere dell’uomo contemporaneo:
(…)
Così,
ogni giorno
c’è
chi combatte
una
battaglia già persa
e
cede il passo
alla
notte del suo domani.
A voi la lettura, dacché il compito del critico
è quello di introdurre, di avviare e non di rivelare.
Nazario
Pardini
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