venerdì 27 luglio 2012

Intervista a Rina Gambini, di N. Pardini



A
RINA GAMBINI
A CURA DI
 NAZARIO PARDINI

                                                        
N. P.: Quali sono le occasioni della vita che più hanno inciso sulla sua produzione letteraria? quanto di autobiografico c’è nelle sue opere? lei pensa che ci sia differenza fra poesia lirica e poesia di impegno; o pensa che la poesia, essendo un’espressione diretta dell’anima, sia sempre lirica qualsiasi argomento tratti?

R. G.: Il mio impegno letterario, come scrittore, si limita a una produzione saggistica e di critica letteraria, che si interessa principalmente di letteratura, di storia e filosofia. La mia preparazione, infatti, è puramente filosofica, ma con grande interesse per tutte le manifestazioni umane, in cui quelle artistiche (letteratura, arti figurative, cinema e teatro, ecc.) rientrano a pieno titolo. Per quanto riguarda la poesia, che non scrivo da molti anni, per una sorta di timoroso pudore, mi sono dedicata all’approfondimento della tecnica poetica da molto tempo, continuando a studiare autori e critici autorevoli.
La mia idea, in fatto di poesia, è che sia naturalmente una espressione diretta dell’anima, ma che necessiti degli strumenti idonei ad esprimerla. Mi spiego meglio: partendo dall’assunto che un poeta abbia molto da dire (cosa che non sempre accade), se non conosce il modo migliore per esprimere ciò che gli sta a cuore (linguaggio, ricchezza lessicale, misura del verso, indispensabile anche nella poesia moderna, e soprattutto ritmo e liricità) finisce per vanificare la sua scrittura. Come spesso ho avuto modo di dire, in poesia è assolutamente necessaria una equilibrata corrispondenza tra significante e significato.
Fermo restando che apprezzo gli sforzi di chi scrive poesie senza possedere la tecnica, perché dimostra almeno una sensibilità artistica e spirituale oggi rara, non mi sento di affermare che la poesia sia sempre “lirica” soltanto per essere stata tentata.


N. P.: Essendo uno degli interpreti più conosciuti della saggistica e della cultura contemporanea, le sue idee  critiche sono in gran parte note attraverso le recensioni, le prefazioni, e gli interventi che la riguardano. Ce le vuole illustrare lei direttamente? quale deve essere  la funzione di un prefatore o di un recensore nella letteratura odierna, secondo lei? c’è un personaggio nella storiografia-critica a cui si rifà e che ritiene attuale per il suo metodo? perché?

R. G.: Anche nella precedente risposta mi sono fatta trascinare dalla passione critica, ma con il preciso intento, che porto avanti da sempre, di far comprendere che la scrittura non deve essere confusa con lo sfogo personale, se mai deve essere la voglia di scrivere a indirizzare verso un processo di perfezionamento e di conoscenza della tecnica artistica. È come se qualcuno si proponesse di dipingere senza conoscere come si miscelano i colori, come si combinano sulla tela e senza aver mai visitato un museo. L’importante è che ogni cosa sia affrontata con la dovuta umiltà.
Detto questo, non sono mai un critico troppo severo, anzi, mi propongo di cercare nelle opere che devo analizzare il “buono” che contengono, facendo presente, per onestà intellettuale, ciò che dovrebbe essere migliorato. Questa, credo, sia la funzione del critico e prefatore in un momento di grande confusione in ogni campo, compreso quello artistico, qual è quello odierno. L’incoraggiamento è sempre necessario, mai stroncare le buone intenzioni, così rare ormai, ma indirizzarle è assolutamente il nostro compito.
Dato che provo un vivo interesse per i moti interiori che inducono lo scrittore a cimentarsi con l’opera letteraria, il critico che mi ha insegnato molto è Franco Contini, che con la sua “Critica delle varianti” andava a scandagliare non solo le edizioni precedenti di ogni singolo autore per individuare la sua evoluzione, ma anche le correzioni che aveva apportato ai testi, quelle che il suo “avversario” Benedetto Croce chiamava “gli scartafacci”. Conoscere un autore nel suo intimo processo di maturazione credo sia lo strumento più idoneo per elaborare una critica costruttiva.


N. P.: Quali sono le letture a cui di solito si dedica e quale il libro che più le ha suscitato interesse? e quindi predilige? perché?

R. G.: Le letture a cui dedico il mio tempo sono estremamente varie: a parte le opere che pervengono per i concorsi indetti dalla mia associazione, che mi assorbono quasi completamente, scelgo di volta in volta letture di saggistica, anche in conformità a temi che devo trattare durante convegni o incontri culturali, oppure per puro interesse personale. Mi piacciono particolarmente le trattazioni su letterati, magari con un taglio meno tradizionale (non tutti i personaggi sono perfetti!) o indagini filosofiche moderne, come per esempio un recente lavoro del mio grande amico, prof. Giuseppe Benelli, “Il linguaggio del teatro italiano contemporaneo – Esegesi ermeneutica”, che attualizza il linguaggio della comunicazione.
Ho una passione particolare per la narrativa, ma ormai la trovo per lo più scaduta a livello consumistico. Mi intrigano i romanzi storici di Valerio Massimo Manfredi, ben documentati, ma la Bibbia del XX secolo resta, a mio avviso, quel capolavoro di Marguerite Yourcenar “Memorie di Adriano”. Una lettura impedibile, da leggere e rileggere, perché ogni volta si comprendono nuove sfumature.


N. P.: Fino a che punto le letture di altri autori possono contaminare uno stile di uno scrittore? e se sì, in che modo?

R. G.: Ritengo che leggere altri autori sia un insegnamento necessario per acquisire uno stile proprio. Serve per arricchire il lessico, per universalizzare il pensiero, per approfondire le conoscenze. Nessuno può pensare di scrivere senza aver letto tanto, e continuare a leggere costantemente. Soltanto così chi scrive potrà migliorarsi e acquisire uno stile personale.
Lo scrittore che si lascia contaminare dalle letture, non ha, purtroppo, talento letterario, non ha idee proprie, perciò, se ciò è accettabile agli esordi, non lo è più col passare del tempo. È meglio lasci perdere!
Colgo l’occasione per rinnovare un invito ai poeti e ai narratori, che sono portati a non considerare le opere altrui: non si creda di poter fare a meno della lettura, perché ci si chiude in un mondo sterile e inutile, incapace di produrre comunicazione!


N. P.: Che cosa pensa della poesia innovatrice, quella che tenta sperimentalismi linguistici? quella che si contrappone e rifiuta ogni ritorno al passato? o, per meglio intenderci, quella che si contrappone ad un uso costante dell’endecasillabo, o a misure dettate da una rigida metrica?

R. G.: Premetto che ritengo che senza sperimentazione saremmo ancora fossilizzati su schemi classicistici, che non sono più consoni alla sensibilità moderna. Detto questo, però, sono contraria alle innovazioni fine a se stesse, cioè a quegli esperimenti poetici che non sono fondati su approfondite conoscenze della poesia e non hanno una direzione precisa. Si leggono spesso liriche che fanno soltanto sorridere: oltre a non comunicare alcun messaggio, sono espresse con parole astruse e senza senso. Ben venga, quindi la sperimentazione ponderata, meglio se supportata da un gruppo che condivide intenti e scopi, ma cerchiamo di non banalizzare la poesia!
A chi mi fa questa domanda, in genere rispondo con l’invito ad andare a Barcellona a visitare il Museo Picasso, dove sono raccolte le opere giovanili del grande artista innovatore. Vedranno tele di un classico accademismo, ma ricche di una capacità comunicativa e di una padronanza tecnica che fanno comprendere il suo successivo cammino artistico.


N. P.: Cosa pensa dell’editoria italiana? di questa tendenza a partorire antologie frutto di selezioni di Case Editrici? di questi innumerevoli Premi Letterari disseminati per tutto il territorio nazionale?

R. G.: Domanda imbarazzante, a cui risponderò con la consueta sincerità che mi contraddistingue.
L’editoria italiana versa in una crisi, non solo economica, per intenderci, che è lo specchio di quella generale. Crisi di valori, soprattutto, che impedisce di incentivare i meritevoli a vantaggio di opere che hanno il solo pregio di portare in copertina nomi noti, ma non nel mondo letterario. Ormai scrivono tutti: attori, registi, calciatori, politici, perfino imprenditori, ma sono soltanto testimonianze insignificanti, nel migliore dei casi solo polemiche.
Altra cosa sono le antologie delle Case Editrici, che corrispondono per lo più a necessità economiche. Il loro valore ai fini critici non è fondamentale, ma ritengo che siano comunque valide come testimonianza della produzione letteraria del momento, e poiché, come diceva Quasimodo, il poeta è un uomo del suo tempo, e quindi porta nelle sue opere la sensibilità di esso, ben vengano. L’importante è che gli autori non pensino di aver raggiunto la fama per esservi inseriti.
Per i premi letterari, non vorrei sembrare partigiana, ma mi pare che si stia esagerando. Ormai siamo arrivati al punto che quasi tutti i Comuni hanno il loro Premio, perfino le Parrocchie ne indicono, e quando si arriverà al condominio… sarà la fine! In questo marasma, bisognerà che gli autori imparino a distinguere premio da premio. Come? In base alla giuria (consultare internet!), in base all’impostazione, in base alla conoscenza degli organizzatori. Non bisogna farsi incantare da novità assurde, ma perseguire un riconoscimento che sia fondato sulla serietà e sull’equità.


N. P.: Certamente sarà legata ad una sua opera in particolare, a un suo saggio, o all’analisi di uno scrittore. Ne parli, riferendosi al metodo, ai tempi di scrittura, alla scelta lessicale, alla revisione, più che ai contenuti. Che pensa della funzione del memoriale in un’opera di un poeta? e della funzione della realtà nei confronti di un’analisi interiore?

R. G.: Ho notevole difficoltà a parlare di me, o di ciò che faccio, mentre, come è evidente da questa intervista, ho facilità a colloquiare, anche in via indiretta.
Nel corso della mia lunga carriera di insegnante prima, di critico e saggista poi, ho scritto tanto, ma si è sempre trattato per me di fissare sulla carta approfondimenti di cose che mi interessavano. Poi scoprivo che interessavano anche ad altri, e ne nascevano convegni culturali che hanno avuto grande successo in molte parti d’Italia, e anche all’estero. In seguito è nata la rivista Il Porticciolo, e alcuni saggi sono apparsi in quelle pagine. In genere interessano e divertono, perché la mia scelta letteraria, e credo anche di vita, è quella di informare senza annoiare, di donare agli altri un motivo di interesse, magari anche attraverso qualche curiosità. Se posso, parlo soprattutto dell’aspetto umano di ciò che tratto, per cui i lettori si sentono facilmente coinvolti. Il mio discorso è sempre conciso, lineare e comprensibile, anche quando si tratta di argomenti difficili, perciò vi si possono avvicinare in molti.
Per quanto attiene alla funzione memoriale della poesia, è convinzione indubbia e ampiamente acquisita. Senza la poesia non c’è passato, ma neppure futuro.


N. P.: Cosa pensa della nostra Letteratura Contemporanea? raffrontata magari con quelle straniere? e dei grandi Premi Letterari tipo il Campiello, il Rèpaci…?
e del rapporto fra poesia e società? fino a che punto l’interesse per la poesia può incidere su questo disorientamento morale (ammesso che lei veda questo disorientamento)? o pensa che ci voglia ben altro di fronte ad una carente cultura politica per questi problemi?

R. G.: Letteratura mercificata, quella contemporanea, e, ciò che ritengo più grave, è che lo scrittore diventi tale col preciso scopo di “vendere”. Non sarà sempre così, ma i fatti dimostrano che lo è nella maggior parte dei casi. Ciò si ripercuote sui maggiori premi letterari, che, coinvolgendo grossi interessi economici (contributi statali, regionali, provinciali, sponsor e case editrici) non possono essere testimonianza di autentici valori letterari, ma solo di mercato.
Non vorrei sembrare una romantica, o forse la sono davvero, ma per me scrivere deve essere un bisogno intellettuale, non per forza spirituale, e deve essere estraneo a qualsiasi interesse materiale. Se il successo viene, bene, ma se non viene, resta importante avere qualche lettore che sappia comprendere la portata di ciò che gli è proposto. Ed ancor più, resta importante che il pensiero non vada disperso, perché, se della nostra società resterà ben poco, come dicono i pessimisti, resterà di certo la poesia e la scrittura in genere. Come è avvenuto per l’antichità.
Il contributo che la poesia può dare alla società è notevole: sono solita dire che non salverà il mondo, ma un piccolo contributo lo potrà dare. L’importante è riproporre quei valori di umanità, solidarietà, tolleranza reciproca, e amore, che sono il patrimonio inalienabile della nostra vecchia educazione, che, andata svanendo per l’intrusione di altre società materialistiche, deve essere tenacemente preservata e riproposta per poterci salvare.


N. P.: Se potesse cambiare qualcosa nel mondo della poesia, dell’arte o della cultura in generale, che cosa farebbe? se avesse questi poteri che cosa lascerebbe invariato e che, invece, muterebbe sostanzialmente?

R. G.: Sconfiniamo nel campo dell’illusione, ma è bello a volte sognare! Mi piacerebbe che la gente leggesse di più invece di passare le serate a farsi condizionare dalla TV o a incrociare gli occhi sul PC. Mi piacerebbe che i media si occupassero di recitazione di poesie, anche di quelle classiche (che bello quando le imparavamo a memoria!), che facessero conoscere le nuove voci della lirica, che i teatri proponessero serate culturali, possibilmente a prezzi economici per far affluire pubblico, insomma, che la poesia divenisse un’abitudine quotidiana, non un fenomeno elitario. Ma soprattutto vorrei che i bambini, fin dalle scuole primarie, avvicinassero la poesia e la lettura e, crescendo, avessero la consapevolezza che quella non è perdita di tempo.
Dato che ho perduto molta della iniziale fiducia nell’interesse delle istituzioni per la cultura, penso che solo l’impegno dei singoli possa portare verso questa strada. La cosa più importante è crederci e perseguire tenacemente lo scopo.


Lei è conosciuta anche come organizzatrice di Premi Letterari. E ne è un’abile conduttrice. Ci vuole parlare delle difficoltà che si incontrano nell’organizzarli. Delle abilità che necessitano. Dei criteri di scelta di una giuria. E di un Premio Letterario che più le sta a cuore.

R.G.: Ringrazio per la stima che mi dimostra, e per il complimento, che accolgo con piacere, proprio perché so che lei stesso conosce le difficoltà di questo ambiente. Organizzare un premio letterario richiede esperienza e dedizione. Per molti anni ho collaborato con altri organizzatori, imparando ciò che essi stessi sapevano fare bene, valutando quello che secondo me poteva essere migliorato. Quando ho affrontato da sola, con mille timori, il mio primo premio personale, il Concorso Internazionale Città di Salò, avevo ben chiaro ciò che volevo da esso: assoluta equità, nessuna intromissione nelle valutazioni da parte di estranei alla giuria, l’entusiasmo da parte di tutti per ciò che stavamo facendo, entusiasmo che si comunica a tutti coloro che partecipano. Credo di essere riuscita nell’intento, perché anche i concorrenti riconoscono questi aspetti del mio operato.
Ci si scontra con molte “zeppe”, ma tutto è superabile col buon senso e con la capacità di conciliare le posizioni diverse dalle nostre. Poi c’è la gioia della cerimonia finale, alla quale partecipo sempre finendo col commuovermi, perché lo stare insieme a tante persone che hanno avuto fiducia in me è gioia e arricchimento.
Alle mie giurie chiedo soltanto di votare secondo coscienza, ognuno col suo metro, perché ritengo non si debba imporre nulla, tanto meno quando si tratta di gusti artistici. Trattandosi di personaggi di alto rilievo culturale, e preparatissimi, per la parte tecnica non ci sono mai problemi. Se qualcosa si deve discutere, ed è raro, viene fatto con la massima amicizia e tolleranza delle idee altrui, e la soluzione è sempre facilmente raggiunta. Nei miei premi c’è un clima di simpatia, tranquillità e responsabilità che rende a noi piacevole la fatica della lettura e del giudizio.
Tra i miei numerosi premi letterari, non saprei quale scegliere, perché tutti hanno avuto una storia importante, ma privilegio attualmente il Via Francigena, anche per la portata culturale e spirituale che riveste e il messaggio che lancia, che idealmente riassume ciò che ho detto in tutta questa intervista: le fatiche di un faticoso, lungo cammino sono premiate dal raggiungimento dello scopo, e più difficile è il cammino, più pura è l’anima nel raggiungere la meta.
Spero di non aver annoiato nessuno. Un saluto affettuoso a tutti coloro che leggeranno.




La sua intervista verrà pubblicata sul mio blog Alla volta di Leucade blog.

La ringrazio per la sua disponibilità.


Nazario Pardini                                                         

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