venerdì 27 luglio 2012

Commenti a poesie di N. Pardini dal blog di G. Vetromile


Cantavamo

 

Cantavamo, paese, se affogavi nel giallo dei granturchi.                           

Cantavamo sui pavimenti

dove si stagliava la luce del camino.

Cantavamo sopra gli alari

arroventati dalle pire delle potature

(la loro colpa era quella di avere chiuso la stagione).

Cantavamo romanze,

i cui eroi vincevano battaglie

che noi perdevamo ogni giorno, ogni ora

(cavalli bianchi, cavalieri e palafrenieri incorruttibili dal tempo).

Anche le madri cantavano già vecchie trentenni

e muovevano le mani gesticolando sui ritmi.

Mani tumide per le umide terre delle prode.

Eppure ogni anno la natura si sacrificava paganamente

sui roghi, nei forni e sulle corti,

per consegnarci i suoi profumi

(profumi che io conobbi sempre eguali

e che sembravano non soggetti a mutamenti).

Cantavamo romanze e stornelli

coi vinelli freschi del novembre.

Quando le botti ci accompagnavano

coi loro vocalizzi profumati,

rossi e iterati come gli strappi delle roncole.

I padri coi riti tramandati dagli aruspici etruschi

roteavano il primo liquido nel vetro predicente                           

per misurarne il corpo. Era la festa delle cantine,

la stessa festa che più volte presso gli antichi

avrà veduto Bacco e Cupido aggirarsi divertiti

al suono di zufoli e litofoni.

Cantavamo preghiere che Pan ci ispirava di ringraziamento

pei fulvi grani, pei pampini rossicci o pei vermigli frutti;

preghiere che i pagani

consegnarono pietosi nelle mani

dei cristiani facendosi santi.

Cantavamo senza perché la madre eterna

potesse anche essere ingiusta.

La pregavamo sulle strisce d’oro dei tramonti;

se esplodeva nei protervi affollamenti estivi;

se cadeva stanca meritandosi la morte;

o se riposava sotto i diluvi e le gelate.

E sembrava persino ringraziarci

o chiederci perdono

per le siccità, per le carestie o le morti precoci;

lo faceva turgida coi crisantemi e gli asfodeli

sui  suoi cimiteri

aperti al cielo colle loro croci.



(Da Radici. Edizioni Giuseppe Laterza. Bari. 2000)







Giù per i sassi 



Giù per i sassi

e in mezzo alle rovine

zoppica il piede incerto e vacillante;

la mente torna

su templi e mura ardite,

su donne della Caria

di forme trasparenti,

prospicienti i fianchi.

                                       

Bianchi uccelli

stendono le ali

sopra i viali di una tarda sera

e passeri su lastre di millenni

beccano insetti su scavati solchi

da carri tusci di antenati antichi.



Vacilla il piede sopra sassi austeri

e l’animo si turba

se la vista si rivolge al cielo,

al giorno che termina la sera.



Sassi di marmo

crepuscoli di fuoco

vita leggera satura di morte:

corte le strade della nostra gente

drizzano templi

sopra verdi mari

immensi altari per i loro dèi.



(Da Le voci della sera. L’Autore Libri Firenze. 1995)







La fuga



Il rumore del popolo vaniva

allo strèpere del treno. Le madri,                                     

i padri con i figli si accalcavano

alle barche. Non c’era più timore

tra di loro; bramavano soltanto

penetrare sulle luride zattere            

adatte per i porci. Si pestavano.

L’umanità spariva. I genitori

premevano le braccia sopra i corpi

indifesi dei figli. Dalle bocche

usciva un po' grigiastro ( come quando

si agita il vento nelle forre e porta

in alto il turbinio) un fumo denso.

E si era aperto il mare. Là accalcati

gemiti umani defilati ai venti

zuppati di salmastri e di miraggi.

Era il fiottìo dell’onde ormai affidato

alle mani grecali. La speranza

era la fuga. Si pensava di certo

ad un paese nuovo

che offrisse quel motivo sacrosanto

di vivere di pace e di lavoro.

Lasciavano alle spalle quei natali

d’odio e d’eccidio di anni in cui il regime

aveva reso vano ogni pur minimo

valore di esistenza. Più la patria,

più la terra degli avi o un solo lembo

di cielo, d’orto, o di giardino che

ricordasse qualcosa della verde

giovinezza o della veneranda

vecchiaia, permaneva. Solo brama

di fuga. Solamente antiche voglie

di rinverdire libertà sognate

anche a rischio di morte o peggio ancora

di morte della prole, li spingevano

su quel mare turbato dalle grida

di speranza, di dolore e di sgomento

su fuscelli di legno. E venne terra.

Terra amara di scogli dove le onde

divelsero le mani abbarbicate

alle livide sponde. Dove i flutti,                                       

con irruenza, spesso si prendevano                                                                

solo i corpi di carne. Ormai gli spiriti

avevano di già varcato i limiti

tra sogno e realtà, tra turbamento

e pace. Dai relitti                                                                

si vide uscire un volo di falcate.      

Saranno stati angeli.                                                                         

Ma forse solamente dei gabbiani

nelle sembianze uguali a stormi d’anime.



(Da Si aggirava nei boschi una fanciulla. Casa Editrice ETS. Pisa. 2000)







Carso



Sopra i suoli innevati dei declivi                                                    

del Carso, ci apparve poi una donna                                             

novantenne, coi fiori nelle mani

tremolanti e insicure. Tra la neve                    

(rossa neve di morte fu il suo dire

del quale noi restammo assai perplessi

e certamente avvinti) rovistava                       

per dissodare un varco. Poi si aprì

ai nostri occhi una voragine di un

cunicolo di monte. Sono tipiche,

in quei pianori carsici, le foibe.

Pochi i raggi di sole incastonati

in quei tepali brevi di stagione

tra la neve macchiata  dal livore

delle rocce supreme. Con la voce

rotta dall’emozione volse l’occhio                   

al nascosto strapiombo: “Inverne fosse

che contenete i resti di mio figlio

in fondo al ventre buio, ricevete

questi colori memori di luce.

Fate che questi sprazzi di giardino

che vide i nudi piedi barcollanti

di lui che fu bambino, gli ricoprano

i resti mescolati assieme a tanti

di cui conosco i nomi. Il solo cippo

al quale posso dire una preghiera

è questa nuda pietra, silenziosa

compagna di due legni messi in croce

che solo io conobbi e solo io

ne eressi l’esistenza. Troppe voci

non si udirono più, troppo potere

si scordò di quel sangue”. La mia anima

si rivolse alla donna che in silenzio                                

chiedeva solamente                                                                                                                         

rispetto del dolore. Ripeteva

le solite parole un po' sconnesse

tra di sé. “Coi camion, mi dicevano,                                

li portano al lavoro.

Camion zeppi di giovani e di vecchi.

Ma tornavano vuoti.

E vuoti ritornavano dai lividi

sentieri. Mi dicevano che i camion

li avrebbero portati sul lavoro

in cima al monte. E muti ritornavano,

ritornarono vuoti verso il piano”.



(Da Si aggirava nei boschi una fanciulla. Casa Editrice ETS. Pisa. 2000)







DA “Il canto di Saffo”



* * *

[…] Vorrei vedere di Elena il barbaglio

sopra il suo viso chiaro, vorrei scorgere

di Elena il portamento, il femminile

incedere. Di ciò sono bramosa,

di questa libertà che provo anch’io

nel fondo del mio seno. E questo è umano,

è divino ed eccelso. Quest’amore

che strugge il mio sentire, la mia carne.

Cola sudore, un tremito mi preda,

mi faccio verde, più verde dell’erba

mi vedo, che la morte così tanto

lontana poi non pare. Ed il tuo trono

è vario e le tue trame sono subdole

Afrodite. Raggiungimi, raggiungimi.

Già un’altra volta ti giunse la mia

voce distante. Tu l’esaudisti.

Avevi messo al giogo del tuo carro

passeri lievi. Ed eri trascinata

sopra la terra bruna dal frullio

folto dell’ali. È questo il carro d’oro

che strugge la mia anima e dattorno

alita canti, suoni e incantamenti;

non di certo lo fanno i carri lidi,

o il greve stridere bronzeo dei fanti,

od il nitrire tetro delle guerre. -



(Da Il Canto di Saffo in Alla volta di Leucade. Baroni Editore. Viareggio. 1997)







Ignoto verso il mare



Il cielo è terso e il bianco della luna

quasi inneva i miei campi. I passerotti

rapinano il tepore delle piume

sui rami che sperano dal cielo

nuove buttate da donare ai nidi.

È febbraio. Non vedi per i campi

traccia di paesani; tutto è fermo.

Persino lo svolare

attende l’ora calda. Mi soffermo

sul prato più vicino a casa mia,

calpesto il suolo,

e il piede batte fesso sul tostato.

Ma è il mese che si avvia

a prometterci speranze; la mimosa

staglia il suo giallo sopra la campagna

e ricorda il colore di ginestra

che gonfierà l’estate. A te mi dono

mese di nostalgie! Di quando a sera

ci si accostava al fuoco con un animo

già pronto ad incontrare primavera:

il piede scalzo, le corse fra le vigne,

la sorpresa di un nido tra i filari.

E ti rivivo,

seppur la mia speranza

non cova rami in fiore;

e anche se negli spasimi

di due colombi sopra la grondaia

me la ricordo lesta,

ora è la voglia d’altro

che mi riporta a un fiume

e mi trascina ignoto verso il mare.



(Da L’azzardo dei confini. BookSprint Edizioni. Salerno. 2011







 COMMENTI

Non il rimpianto di una umanità più buona e autentica, quando la "natura si sacrificava paganamente sui roghi, nei forni e sulle corti, per consegnarci i suoi profumi", non la denuncia più o meno velata di ingiustizie, delle eterne ingiustizie che sconquassano il tessuto sacro della pace e della collaborazione: ma un più veemente e vibrante canto, sebbene controllato con poetica maestria, che possa costituire memoria fondamentale e patrimonio culturale per proseguire consapevoli e giusti sulla strada evolutiva della storia. Questo, in sintesi, è quello che si può trarre dai testi di Nazario Pardini, che qui di seguito offriamo alla lettura attenta degli amici che ci seguono. Si tratta di una poesia matura, forte, icastica, che si snoda con tonalità altamente musicali, e che riverberano nell'animo del lettore affezioni e sensazioni veramente intense. La poesia di Nazario Pardini, con la sua musicalità e i suoi richiami, è senz'altro punto di partenza per ulteriori scandagli nei nostri cuori e nelle vicende del nostro mondo attuale. (G. Vetromile)


Stupende poesie, di solida costruzione artigianale, come ogni vero poetare, capaci di spunti e aperture notevoli. Come sempre, grazie all'autore e a Pino Vetromile. Stelvio Di Spigno.


Leggendo queste poesie di Nazario Pardini in certi istanti il tempo si elveva a destino per l'umanità ".... Cantavamo senza perché la madre eterna potesse anche essere ingiusta. La pregavamo sulle strisce d’oro dei tramonti... E sembrava persino ringraziarci o chiederci perdono; (dalla poesia - Cantavamo - N. Pardini) qui, tutte le forze soccorritrici oserei dire - materne - si liberano dal passato e fanno corpo con il nostro presente Grazie anche a Giuseppe Vetromile favorevolmente seguirò questo passaggio sul blog "TRANSITI POETICI" . Miriam Binda


Anche le madri cantavano già vecchie trentenni...eppure ogni anno la natura si sacrificava paganamente sui roghi, nei forni e sulle corti,per consegnarci i suoi profumi"
Nostalgia, tempi che 'forse' non torneranno più.
Il cuore di -Cantavamo- mi ha trasmesso tanta dolcezza. GRAZIE! (Rina Accardo)


Tutte le poesie che ho letto sono dotate di una potenza descrittiva di cose e sentimenti che ricordano da vicino alcuni grandi del passato (tanto per fare un solo esempio Carducci) senza peraltro perdere la originalità che ne costituisce il fascino principale. Come canti omerici, o virgiliani descrivono, abbracciano, investono di situazioni affascinanti in cui si colgono non marginalmente i sentimenti dei protagonisti altrettanto bene di quelli dell'autore. Il sentimento del poeta emerge continuamente e fa di lui un autore per il quale situazioni più o meno antiche acquistano un valore attuale e completamente moderno. Nevio Nigro


Una poetica di vero spessore quella di Nazario Pardini, mi sono lasciata incantare dalla bellezza delle immagini e dalle atmosfere particolari che il poeta ha saputo magistralmente proporre. La natura è presenza costante, domina il verso, nel rispetto di antiche sonorità metriche. (Michela Zanarella)


Il "canto" riecheggia nel "tempo" . Tempo di memorie e di riflessioni, tempo ormai trascorso e per il quale vorremmo che si rinnovasse l'illusione. Difficile tratteggiare la poesia, perché essa ci sostiene nel pensiero e corrode le nostre circonvoluzioni cerebrali per fulminare idee e pensieri. Nazario Pardini riesce a incidere versi nel ritmo colorato della musica. La sua "speranza" riesce a raggiungere le bianche colombe per librarsi nel volo indefinibile e indefinito... (Antonio Spagnuolo)
La scelta dei testi operata, per "Transiti poetici", dall'amico Nazario è molto oculata. Lo affermo perché ho avuto il piacere e la fortuna di leggere tutti i libri da cui sono tratte le liriche, e credo di poter dire - con una certa sicurezza - che le poesie selezionate offrono uno spaccato significativo e non parziale della sua poetica. La musa è e resterà sempre, per lui, la Natura - è manifesto anche attraverso questa lettura - ma, qui, egli ha voluto umanizzarla in modo davvero "vibrante" (come Giuseppe, che saluto, ha sottolineato). E penso, in particolare, alla chiusa de "La fuga", che tanto mi ha fatto ricordare uno dei miei poeti preferiti: il Rilke delle "Elegie duinesi"; alle foibe del Carso ed alla richiesta di "rispetto del dolore" di una madre; a quella stessa "voglia d'altro" che "ignoto", ma mai privo di speranze, lo trascina al mare.
Naturalmente sono solo riflessioni ma in queste sei poesie ho visto molto, proprio molto di quell'animo puro che conosco.
Un caro saluto a lui e a Giuseppe, che ricorderà qualche nostro lontano incontro.

Sandro Angelucci

"L’azzardo dei confini” o “la voglia d’altro” che trascina verso un mare ignoto, “l’amore che strugge la carne” e alita “suoni e incantamenti” oltre il grido “tetro delle guerre”. Suoli assolati o innevati declivi evocano nuove mani tremolanti e insicure di fanciulle che si aggirano in insidiosi boschi metropolitani, altre voragini di padri e madri con i figli accalcati ai barconi, umanità disperata che fugge con croci da sradicare in miraggi di cieli aperti.
Poesia fortemente lirica e partecipe, questa di Nazario Pardini, che da storie e sentimenti di un tempo della memoria rimanda echi di attuali disastri, immagini quotidiane dei telegiornali di esodi in cerca di approdi e speranze per riaffermare la vita oltre la tragedia di conflitti iniqui e carestie. Un canto appassionato, dunque, che non dimentica, e che si fa consapevole condivisione a immagine e somiglianza con le diversità del nostro millennio.
Complimenti vivissimi
Daniela Quieti




Poesie di ottima costruzione, cariche di immagini forti, ricche di spunti di riflessione e pathos. Poesie capaci di evocare in modo sapiente e suggestivo stati d'animo, paesaggi e momenti di vita personale, insieme a temi epici e tragedie sociali qui trattati con grande sensibilità e forza evocatica. Un saluto anche a Pino Ventromile e un grazie per averci presentato questa interessante vetrina.
Daniela Raimondi




Franco Campegiani – Trovo che il tema fondamentale delle liriche di Nazario qui presentate sia la contrapposizione tra il senso di appartenenza al mistero e la sua profanazione. Che è come dire la lotta fra Mito e Realtà, polarità divergenti e convergenti della identica natura umana/disumana. Ed è in fondo una poetica del giardino primordiale, presa nell’incanto della comunione edenica e nel disincanto della cacciata e della caduta. Felicità dell’Essere e tragedia del Divenire, l’una nell’altra fuse, perché non c’è l’una senza l’altra, anche se sembrano escludersi tra di loro. Sta qui l’amore per le radici, che è anche dolore per lo sradicamento, senza il quale non nasce il mito della terra promessa in cui porre nuove radici. Una poetica della terrestrità, dunque, quella di Nazario Pardini, dove la Grande Madre è dea e maestra di vita. Non un sasso gettato nello spazio a roteare, ma una fonte di intelligenza e di forza vitale, una vera e propria sorgente spirituale. Sta qui la religione della natura di cui il poeta si fa portatore. Natura e Sovranatura splendidamente allineate tra di loro. Una religio che non è panteismo, se con il termine si vuole indicare lo schiacciamento del divino sul piano materiale. Qui non c’è nulla di monistico e ciò che domina la scena è il senso di quella dualità misteriosa, capace di trascinare altrove, e comunque in alto, le aspettative più profonde della vita. Così a febbraio, nonostante l’attesa della primavera in fiore, il poeta si sente rapito in un mistero più grande: “… la mia speranza / non cova rami in fiore”, ed “ora è la voglia d’altro / che mi riporta a un fiume / e mi trascina ignoto verso il mare”. Franco Campegiani



Da "non addetta ai lavori", come ritengo necessario precisare sempre, mi accingo a commentare queste liriche del professor Pardini. Quello che mi ha subito colpita è che il poeta affronta argomenti molto forti, difficili da affrontarsi in poesia, pur scrivendo della "vera poesia". Eppure l'autore ci riesce e magistralmente, perché è il suo animo che racconta, che canta, che piange, che celebra qualunque sia l'argomento del suo sentire. E lo fa sempre con immagini nitide, colorate, quasi fotogrammi, ai quali fa da colonna sonora il suo sentire stesso.
E il poeta canta (in "Cantavamo" e in "Ignoto verso il mare") non solo un mondo che non c'è più ma, soprattutto, un atteggiamento, una predisposizione dell'animo che noi uomini del "terzo millennio" non abbiamo più, abbiamo irrimediabilmente perso; e il poeta con rimpianto ci mostra come i nostri avi, che a noi sembrano quasi sempliciotti da compatire, riuscivano, al contrario di noi, ad apprezzare i veri valori, quelli rappresentati dalle cose semplici e quotidiane; pur tuttavia, la poesia non rimane confinata ad un mondo, del poeta e nostro, passato, ché nei bellissimi versi "preghiere che i pagani consegnarono pietosi nelle mani dei cristiani facendosi santi", con poche parole, l'autore riassume il drammatico passaggio dal paganesimo al cristianesimo. E la poesia assume, quindi, un respiro universale. Il tutto come in un canto melanconico, eppure ricco di immagini così vivide che ci sembra quasi di essere anche noi davanti al camino col vino novello nel bicchiere. E prepotente, forte, passionale, viene fuori l'amore per la natura, per la "madre terra", alla quale sempre si elevavano inni di ringraziamento anche quando essa era, o sembrava,"ingiusta", come farebbero dei bravi figli verso una madre che è sempre e comunque fonte di vita.
E in "Giù per i sassi", dolcissimo, struggente, trasuda l'amore nostalgico per le civiltà passate fino al "turbamento dell'animo quando si rivolge al cielo, al giorno che termina la sera". E cos'è questa sera per l'autore? E' quella della sua vita o, forse, quella dell'umanità tutta e dei suoi valori? O forse entrambe?
Toccante, particolare, dolcissima e amara al contempo, per l'uso di termini "duri" è "La fuga". E come non pensare ai migranti che vengono a morire sulle nostre coste per la stessa "brama di fuga" che "rinverdisca libertà sognate" degli italiani di un tempo? Ed ecco che l'autore ha universalizzato il dramma dell'emigrazione che nei secoli continua a ripetersi in luoghi diversi ma con la stessa, dolorosa, immutata e quasi immutabile, direi, drammaticità. Sento moltissimo questo tema avendo io, nel mio piccolo, scritto molto sui migranti.
E in "Carso", il poeta ci fa rivivere la tragedia delle foibe, ma che è anche la tragedia dei campi di concentramento, è il dramma delle pulizie etniche delle contemporanee vicende storiche a cui noi abbiamo assistito e assistiamo quasi quotidianamente. E lo fa con un'immagine classica, quella della madre che piange il figlio strappatole, eppure nuova, perché rivisitata, perché vista con "gli occhi della sua anima". Entrambe sono "poesie di denuncia" eppure sono liriche che fanno vibrare le corde del cuore del lettore perché è il sentire del poeta che grida la denuncia con la forza dei suoi sentimenti!
E' un poetare a 360° quello del professor Pardini, per argomenti e periodi storici cantati; è un poetare che è capace di struggersi di malinconia e di vibrare di indignazione, di esprimere profonda e sincera compassione. E' un poetare che non lascia indifferente il lettore, quindi è vera poesia.
Ester Cecere




Liriche molto belle e sentite. L'Autore, a mio avviso, canta la nostalgia per un Mondo forse passato se confrontato alla vita frenetica e povera di valori attuale. Questo, sempre secondo il mio modesto punto di vista, è forse il compito del -Poeta-: far rivivere il tempo andato e non solo per farlo conoscere ed apprezzare ma per soffermarsi e fare un confronto, proprio come se ammirassimo un quadro nei suoi colori e nelle sue rappresentazioni. L'Autore ci riesce perfettamente. Sandra Carresi
 
La poesia dell'amico Pardini mi ha sempre dato emozioni, il formidabile fremito che solo il canto di qualità sa dare. Rileggo versi che già conoscevo, e che per strana magia (nonostante lo scorrere del tempo) trovo straordinariamente più belli.
Luciano Nota



Le parole scorrono sotto gli occhi mentre vengo trasportata in un altro mondo... di profumi, colori, ricordi. Le immagini richiamano momenti che putroppo non torneranno, il mondo di oggi non le conoscerà mai. Sono canti, allegrie, dolori, sono i valori dell'uomo, sono il nostro passato. Un piacere leggere questi scritti,pregni di sensibiltà ed attenzione, oltre ad una ottima qualità e competenza.Grazie Nazario per questo regalo.
Antonella Ronzulli



1.        
Una poesia suggestiva, questa di Nazario Pardini, con un ritmo incalzante e particolarissimo, un’alternanza del verso lungo con quello breve. C’è una continuità precisa dello stile e dell’uso della parola e della sua potenza armonica, nel corso del tempo. Il poeta delinea ed evoca momenti salienti della nostra storia: la guerra, la lenta rinascita che segue al suo terminare. Ma lo fa dipingendo quadri di storia umana, persone, ambienti e sapori e odori della terra. Che sembra di vedere leggendo. Mi ha colpito la figura della madre nella poesia “Carso”. Questa poesia dipinge i luoghi e i sentimenti al di là del tempo e della storia, suggerisce e fa vivere valori profondi del vivere umano: “……,/ora è la voglia d’altro/ che mi riporta a un fiume/e mi trascina ignoto verso il mare//. “ Sandra Evangelisti



Caro Nazario,
ho avuto la fortuna di leggerla e il cuore ha perso colpi. Si sono spalancati universi ancestrali, edenici, lontani eppure vicinissimi. Le ho ascoltate 'le mamme che cantavano'... la forza della lotta interiore contro gli urti quotidiani, la dolcezza rabbiosa dei perdenti, che vincono ogni giorno, che non svendono mai il rispetto per se stessi, la dignità, il diritto ai sogni.
La sua mi è apparsa sì lirica della 'natura', ma anche e soprattutto affresco in note... melodiose le assonanze, i giochi di consonanti che vibrano tra i versi... del tempo che è stato e del bagaglio che ha lasciato. Lirica della valigia che è stata deposta sui binari del nostro vivere.
Lei invita a sollevarla, a trarre dal 'pozzo' del passato il
coraggio per salire sul treno e iniziare il delicato viaggio verso il domani.
Straordinaria la sua unicità. E' un Artista di Spessore altissimo!
La ringrazio per avermi concesso tanto dono. Maria Rizzi







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