venerdì 11 gennaio 2013

N. Pardini: Lettura di "Casa di riposo" di G. Ceccarossi










Giannicola Ceccarossi: CASA DI RIPOSO. (diario). Ibiskos Ulkivieri. Empoli. 2013. Pp. 50. € 12,00

 

Esseri soli come gocce che si inseguono sui vetri

 

Leggere questa silloge di Giannicola Ceccarossi significa farsi poeti. Pórci tanti perché. Significa introdurci a passi cheti e silenziosi, con il massimo raccoglimento, e con animo predisposto, in versi che si reggono su una struttura libera ed aggrappata a nutriti significanti metrici. Sì!, predisposto a riceverne impulsi emotivi di grande effetto trascinante, coinvolgente. Significa farla nostra questa poesia, metabolizzarla, e essere tutt’uno con il poeta. E la comunicazione è immediata, istantanea, perché il Nostro ha una grande virtù, quella della spontaneità. É un suo valore aggiunto. Ceccarossi stende sul foglio la vita, l’amore, i giochi rocamboleschi dell’esistere. E anche se a volte cerca di svilirne la portata, tutto ciò è dovuto soltanto al suo attaccamento a questa miracolosa avventura. E così si tormenta, s’inquieta, si addolcisce in una elaborazione etico-mentale che lo fa vivo, e umanamente presente. Rende tutto intriso di quelle questioni che fanno dell’esistere una continua ricerca, un continuo azzardo verso mète che ci stacchino da quei piccoli o grandi intrichi quotidiani. Interrogativi possibili, forse troppo possibili, ma per questo vicini ad ognuno di noi, che siamo relegati in questo spazio senza poter sapere per quale durata, per quale scopo, per quale obiettivo: “Ma quando mi soffermo a pensare/ agli anni oltre/…/ quale futuro mi attende?/ I mei figli saranno sempre qui?/ Non voglio morire sola” (Pp. 17).  Che cosa di più umano, di più sintonizzato alle corde dei nostri sentimenti che una persona cara, con tutto il suo bagaglio di solitudini e di rimpianti, in una casa di riposo. Ceccarossi ne sa fare un poema con un dire che mai scade in una lamentatio. Tutto si fa lirico e struggente. Sono le piccole cose, i piccoli movimenti a innervarci tristezze, i recuperi memoriali, gli stati d’animo: lavarsi, vestirsi, inginocchiarsi in preghiera, le lenzuola, la solitudine, la solitudine, la solitudine, la fatica a ricordare, il desiderio dei figli. E tutto si dilata alla sfera dell’essere, del vivere, e del concludersi. Sì!, gli affetti, le vicinanze, le sofferte occasioni, le conquistate speranze: tutto avrà fine, improrogabilmente:

 

Quanto tempo mi rimarrà?

Ancora qualche anno

Tra gente estranea

Fantasma tra fantasmi… (Pp. 23)

(É una madre che parla in questa casa di riposo, ma con i versi liricamente turbanti del poeta).

Come se il nostro passaggio non contasse nulla, come se lasciare ai quattro venti tutto il nostro vissuto fosse un gioco da ragazzi. Una storia irripetibile, soggettiva, unica che rischia di inabissarsi in un mare enormemente anonimo. Fughe e ritorni. Un poema-diario dedicato ad una madre che vive in quella casa e che ha tutto il tempo di pensare e di soffrire, di sentire e meditare. Ma, forse, metaforicamente parlando, questo perfido gioco riguarda pure tutti noi che siamo destinati a consumare i nostri giorni qui e ora, con la sola possibilità di guardarlo dal basso l’azzurro o di immaginarlo. C’è una analogia e una traslazione così vera da irrompere nel nostro vissuto con una semplicità sconcertante. E proprio questo il poeta riesce a comunicare. Il senso di una vita fra quattro mura imbevute di solitudini, di stanchezze, e di aspirazioni a sottrarci a questa morsa e ad azzardare slanci verso orizzonti  oltre i quali non riusciamo a vedere, ma che sappiamo impreziositi di volti e figure che bramiamo incontrare, nella nostra più segreta coscienza. In fin dei conti tutti siamo accorati per delle sottrazioni, per delle privazioni che in qualche misura desideriamo compensare, ricomporre. Fin dalla prima poesia è immediato l’impatto con la questione prima dell’essere e del vivere:

 

… Ora mi aspetta il viaggio

Breve doloroso che impaurisce

E mi chiedo dove andrò o cosa sarò

Forse un fantasma

che non ha nome (Pp. 15).

 

Il viaggio è verso quelle mura indifferenti, va bene, ma è un viaggio che esprime tanto di più: ci dice di ultimazione, di redde rationem e ci affianca col dilemma del patrimonio delle nostre memorie. Ci parla di primavere vergini, di anni trascorsi, di autunni impellenti. A chi tutto questo? A quale luogo? A quale nulla? É possibile staccarci dalla nostre quattro  mura con tutti i loro affetti, anche se monotoni e ripetitivi, con  tutti i loro oggetti zeppi di volti che ci hanno contornato per un’intera vita:

 

Ma so che poi tornerò

a sognare lampadari

i muri i balconi con le piante

e i vicini

Non mi muoverò!

Mi rimane nel cuore

la memoria di tanti anni

che accarezzo lievemente

e che mi accompagnano sempre

nei miei sonni (Pp. 18).

 

E il sogno è ricorrente. Il sogno fa parte di quella vita. Forse è l’unico dei pochi mezzi che ci aiuta in questo azzardo oltre gli orizzonti. E qui tutto è scorrevole e piano, tutto si confessa con delicatezza e senza abbondanze di strategie tecniche e figurative. Il verso non ha bisogno della ragione, ma va libero dietro l’effusione emotiva. Si fa ora breve, brevissimo, ora più ampio per sottostare alle raccomandazioni impellenti dei sentimenti. E il discorso si fa generale; gli affetti di una persona incommensurabilmente grande come una madre divengono proprietà di tutti. In quella casa di riposo, dove lei aspetta una fine senza grandi speranze, o forse, una liberazione, ci siamo tutti a vivere nell’attesa di una libertà che tarda a venire e che attendiamo per un’intera vita senza il tempo di possederla. Struggenti, semplici, e toccanti particolari:

 

Domani mi faranno il bagno

Mi vergogno

Forse non lo farò

e aspetterò mia figlia

Devo tagliarmi i capelli (Pp. 25).

 

sono lontana

e non tornerò

Ora è qui la mia vita

Quale? (Pp. 28).

 

Mi affaccio alla finestra

e piove

Sono sola

Sola come le gocce che si inseguono sui vetri (Pp. 29).

 

Ma per questa madre esiste la speranza di tramandare oltre il tempo la propria esistenza; ed è un grande sollievo, un grande dono; una grande forza emozionale e vitale che apre la luce oltre quell’orizzonte e permette di vedere distintamente lontano:

 

Credo in Dio

Lui salverà la mia anima

e sarò finalmente in cielo

Nell’azzurro (Pp. 39).

 

Non è detto che anche per noi non si tinga di azzurro una stanza che non riconosciamo.

           E di Ceccarossi, alfine, resta una poesia che sa affratellare un po’ tutti in un angolo di fede e di memorie per non farci sentire troppo soli. Dacché è proprio la forza del ricordo a generare un ampio rinnovamento della vita:

 

Aspetterò che il Signore

mi dia la forza

di rivivere i miei giorni         

 

Nazario Pardini                                                               07/01/2013

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