sabato 16 marzo 2013

N. PARDINI SU: "IL POESIARIO VIII" DI S. SINISCALCO


Nazario Pardini



Serena Siniscalco: IL POESIARIO VIII. Genesi Editrice. Torino 2013. Pp. 146. € 20

La fugacità del vivere nell’armonia del verso

 


… Monili iridati in fulgore modesto,

in tinta di latte, di giglio, di neve;

ne sgranan le mani l’eterno lucore

con alito d’ali o fiottar di ruscello.

 

A quelle io tutto perdono, persino

se sono fasulle, legate in collane,

a giro di collo o in bracciali raccolte,

avvolte più volte, a piacere… (Perle, pp. 15)

 

Mi è giunto oggi 14 marzo Il Poesiario VIII di Serena Siniscalco. Un dono da conservare religiosamente in biblioteca con tutta la considerazione che merita un grande libro; un libro di prestigio, curato da una casa editrice di tutto rispetto: Genesi Editrice, Torino. La copertina, con le sue preziose perle, la dice lunga, a proposito, sia sull’indole della Siniscalco che sulla sua poetica:

… E nitore di perle al collo indosso

ed agli orecchi cascatelle di neve,

a dar risalto agli occhi. Vere astuzie.

(…)

Bianco come vorrei il futuro breve,

bianca l’anima mia linda, pulita,

bianca come quella signora bella

che sta dietro la porta ad aspettarmi. (Pp. 64).

 

Ma è soprattutto questo candore che mi ha colpito. Questa purezza. Persino Thanatos si vestirà di bianco per ricevere un’anima che ha amato, ama, e amerà, con tutta se stessa, la vita; che l’ha amata pur nelle sue contrarietà e sottrazioni. E il vivere è umano, anche troppo umano: il suo caduco esistere ci guarda in faccia, predisponendoci alla tristezza, alla solitudine, ma anche all’abbandono onirico, e alla gioia di starci in questo mondo, pur coscienti della precarietà e dell’inconsistenza di questa grande avventura. Avventura di cui la Nostra conosce bene l’inaffidabilità e la fugacità, ma di cui sa apprezzare, anche, l’incommensurabile dono. Poesia/vita. Vita come atto supremo, come categoria dello spirito da incidere su steli resistenti all’erosione del tempo. Da tramandare ai posteri con tutta la sua sacralità. Perché di una vita si tratta, di quella di un essere umano che dà tutto se stesso per questa antica arte, e le affida le ansie, i tormenti, le inquietudini, le attese e i rimandi, le fughe e i ritorni. Insomma tutto quel patrimonio, insostituibile, unico patrimonio, che, pur sollevando questioni, è nostro in tutta la sua urgenza; in quella dell’anima, ad esempio, della sua portata, del suo svolazzare sui fiori per portare all’essenza della poesia il nettare del  gioco esistenziale, della sua permanenza vitale; del suo nascondersi in misteriosi anfratti, per lasciarci soli o perché “il cuore/ gioisca di te divina la presenza”.

E mi domando: “Dove stai celata,

anima mia, afflato della vita?

Stai forse in grembo al cuore come dentro

a un cespuglio fronzuto, ombroso,

che attorno effonde refoli di pietà,

di tenerezza e amore?... (Pp. 91).

 

         Una poesia tutta volta a dipingere Serena Siniscalco, la sua storia, una realtà interiore, disposta a coinvolgere ogni particolare in tale funzione. Ogni pur minimo tratto della quotidianità. Ed è poetando con simboli, con figure stilistiche che il linguaggio sa farsi allegorico, allusivo. E che le serpi, la chiave segreta, il bosso, la vela bianca, la clessidra assumono connotazioni ben precise nel rivestire impulsi emotivo-intellettivi. Tanto che, dicendo allegoricamente, la Nostra dà l’idea di collocarsi, con una serenità disarmante, oltre le cose; su una torre ariostesca, dalla quale il mondo si fa più piccolo, le vicende meno drammatiche, e lo spleen storia normale, fatale allo sguardo disincantato della poetessa; al suo sentire; dove ogni elemento cospira a che la di lei dimensione spirituale ne esca pulita, aperta, gioviale, pensosa; umana, insomma, e se triste, pur  sempre volta  a rapire la luce al buio della notte.     

 

(…) E il groppo sta là, nella dipartita,

nel dove, quando, come. Sta là, dove

non è risposta.

                     Ma domani… il cielo

sopra il tetto, il raggio di novello giorno,

il fringuello querulo sul davanzale,

aire nuovo daranno a proseguire

incontro ad un occaso serenante. (Pp. 33-34).

 

Ed è proprio questo serenante che, alfine, domina sulla stesura del dettato poetico. Sì!, perché è la preziosità della vita a incidere, a fungere da leit motiv in questo lirismo coinvolgente sia per la spartitura lessico-fonica, che per la cura attenta e puntigliosa del verbo. Sempre pronto, questo, a involucrare con sonorità simbiotica i ritmi emotivi che, inevitabilmente, si fanno oggetto di meditazione e riflessione per l’autrice; per la sua anima, cosciente di vivere in uno spazio ristretto con lo sguardo rivolto all’oltre; in una diacronica dicotomia  fra il qui, l’ora e il sempre; fra l’umano e l’ultra/umano; fra  l’inconsistenza del presente e il tentativo di fare della poesia un messaggio universale, motivo che, nei suoi versi, si sa avvicinare, con naturalezza, ad ogni spirito:

 

(…) Come meteora già s’invola il tempo:

non bastano ore per narrar dei giorni

lieti od amari degli accadimenti

del mio peregrinare in questo mondo. (Pp. 43).

  

Ed è nella poesia che la poetessa scopre un’ancora di salvataggio. E’ ad essa che affida il sacrosanto compito di risolvere o sminuire questi dilemmi di sottrazione. “(…) E il groppo sta là, nella dipartita,/ nel dove, quando, come. Sta là, dove/non è risposta…” (Pp. 33-34). E si affida alla Musa perché non l’abbandoni e la rigeneri in continuazione, perpetuamente, nel suo stretto abbraccio col poiein; l’unico strumento in cui vede la possibilità di perpetrarsi, di azzardare oltre la siepe il suo sentire, e spalancare la finestra al nuovo aprile::

 

(…) Alla tastiera passo alfin le dita

leggere e con le note sboccia il canto

che goccia dolce al cuore e che mi dice

della mia “vie en rose” del tempo andato.

E in pillole d’amore la poesia

spalanca la finestra al nuovo aprile. (Pp. 42).

 

E la natura, toccata con delicatezza, con voce educata dal silenzio, e con idillico umanesimo, interviene ad aiutare l’anima del canto. Un umanesimo di colori, di luci, di sfumature, di ombre e penombre, anche, in cui la Nostra trova la sua identità. E il mattino, il giorno, il vento di levante, la vela, il tronco sradicato, la radice, un nido di primavera, i bocci, i fiori sfiniti sono le tante configurazioni naturali in cui concretizza il suo pathos esistenziale. Un pathos alimentato da meditazioni, melanconie, illusioni, delusioni, ma, alfine, da una visione estremamente positiva della vita. Mai, qui, le inquietudini o i ripensamenti sfociano in sentimentalismi decadenti o pessimisti. Quando il sentimento volge alla malinconia, c’è sempre una virata a riportare il tono su un binario di disincanto, anche d’ironia.
La poetica della Siniscalco è attenta ad osservare il tutto e a farne tesoro. Ad osservare ogni pur minimo particolare della realtà per costruire, con un’analisi psicologica puntuale, il suo percorso interiore. Quel percorso vissuto con grande intensità emotiva, e che lei riabbraccia, rievocandone le tappe essenziali, come un amore sempre nuovo per effetti rigenerativi. Perché il memoriale ha un grande potere; può avere funzione di alcova, dove rifugiare le nostre solitudini, dove ritrovare volti cari e immagini di vita rasserenanti. E anche se soffre la Nostra, e pacatamente soffre per il commiato (tormento della nostra finitezza di essere umani),  tuttavia vorrebbe poter  godere di un approdo sopra un prato di nuvole lucenti:

 

Ho trattenuto il tempo con le mani,

ma or lo sento sfuggire dalle dita

e s’avvicina l’ora del commiato.

 

Vorrei partire viva, occhi vivaci,

lucida mente per goder l’approdo

sopra un prato di nuvole lucenti. (Pp. 23).   

 

Una riflessione tanto spontanea quanto umana: a chi le nostre memorie? a chi il nostro patrimonio? sarà la mente sana per gioire di quell’approdo? Quale male più grande che perdere l’identità, la memoria della nostra unicità. Da qui solitudini e meditazioni. Ma, forse, affidandoci all’atto onirico, si può ingannare quel senso di solitudine che attanaglia l’anima:

 

(…) E parlo ad alta voce con me stessa

“Rimuovi presto l’ansie, gli sgomenti,

ad esibir la tigre

che in grembo a te dimora.

 

E poi che a chiave hai ben chiuso la porta,

le luci spente, affidati ad un sogno:

il tuo ritorno a casa, i cari visi.

E ti sia lieto il sonno e serenante!” (Pp. 82).

 

Mai tragico, comunque, il futuro. Mai eccessivamente travagliato. Semmai si veste di bianco, di rosa, di candido manto, come candido l’animo della Nostra. Sincero, schietto, aperto come il suo canto. Un canto armonioso, che fa, dell’endecasillabo, lo strumento principale del suo orchestrare. Una melodia che avvince e convince. Una melodia che funge da contraltare al significato/significante de Il Poesiario, intento a tradurre, con naturalezza, la sua forza emozionale in un lirismo suasivo. In un brivido che offre la possibilità di sognare e di lasciarsi andare a eterei incantamenti. Sembra dire: “Questa è la vita; può essere cruda, triste, ma è vita. Quel dono irripetibile che a te è toccato. Amala per quello che ti ha dato! E ripagala con il  canto che è pur sempre un atto d’amore ed un inno al suo altare”. E Serena Siniscalco affida, proprio, alla poesia il suo senso d’eterno, perché la ama, perché sente che è l’unica parte di sé a non tradirla. E sente, sente profondamente, che ogni lembo, ogni tappa di questa avventura, col tempo, si sono fatti terriccio fertile per nutrire la sua anima. Anima degna di essere consacrata alla luminosità di Calliope:

 

Fa che non tremi la mia mano, lascia       

che il mio sentire qualche gemma serbi

sotto lo scalpo bianco del mio inverno,

estremo bucaneve nel mio orto

che tutti i giorni un poco si conchiude. (A Calliope, pp. 43).

 

Nazario Pardini                              15/03/2013

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