venerdì 10 luglio 2015

"LEGGI UNA DONNA" DI L. TURRI AL CAMAIORE




Il libro "Leggi una donna" di Lorena Turri è risultato tra i 18 selezionati al Premio Camaiore 2015. I nostri complimenti alla Poetessa per la sua affermazione. 



Lorena Turri collaboratrice di Lèucade


Lorena Turri: Leggi una donna. Kairòs Edizioni. 
Napoli. 2015. Pg. 142 


Leggi una donna

Leggi una donna
tra le pieghe del suo vestito,
tra i sogni del suo viso,
tra i fili bianchi dei suoi capelli.
(…)
Leggila, sottovoce,
tutta di un fiato;
lentamente sfogliala
e spogliala
della sua solitudine.

Leggila fino all’ultima riga
e ti accorgerai
che la parola “fine”
ha lasciato il posto
a una piccola luce,
che è la sua grande ANIMA.

Iniziare da questa citazione testuale, che si pone come momento incipitario con valore eponimo, significa andare a fondo, fin dagli inizi, nel cuore del canto di Lorena Turri. Poesia morbida, duttile, generosa, che sgorga, con freschezza di dolce melanconia, o di accorata tristezza, da un sentire polisemico legato alle ragioni e alle figure decisive dell’esistenza; e che, affidandosi ad una mano adusa alla scrittura, fa delle ondulazioni tecnico-foniche e simbolico-allusive un quadro interiore dalle forti tinte psicologiche. Dacché tutto collabora con energia alla realizzazione di un’architettura ampia e verticale; abile a dribblare il sentimentalismo ed esperire controllatissima effusività. Qui c’è tutta la sensibilità di una scrittrice che rivela la plurivocità di un pathos arricchito dal fatto di essere donna, amante, madre, figlia: solitudine, dolore, incomprensione, sottrazioni, e slanci emotivi verso mondi che baciano l’azzurro. Sta qui la grandezza e la potenzialità di un verso che presuppone un lavoro attento e meticoloso sull’uso del verbo e dei suoi intrecci metrici; delle figurazioni e cromie che mai sono oziose ma sempre funzionali ad una trama di ontologica consistenza. Sta nella scioltezza e nella armonia; nel concretizzare gli abbrivi emotivi che hanno riposato nel corso di una storia e che ora vibrano e scalpitano per farsi vivi e consistenti; veraci e coinvolgenti, partendo da emozioni reali, da fatti concreti per dare visività a barbagli e folgorazioni, a delusioni, o sconforti che richiedono decise reazioni:

Io donna, con le mani indolenzite
dentro bucati senza  mai un rattoppo,
con mille doppie punte nei capelli,
con occhi dilaniati da zampate
di galli o di galline prepotenti
(…)
io sorrido,sebbene le mie labbra,
dalle minestre troppo riscaldate
siano ogni giorno sempre più bruciate.

Però, io donna, grido – che si sappia -:

“Da sempre con le cosce spalancate
ad un inderogabile dovere,
non so niente, più niente del piacere” (Io donna).

Una realtà cruda e crudele, triste e parènetica, che porta a riflettere, a pensare; dacché ognuno di noi si sente coinvolto, chi più chi meno, in questo paradigmatico e complesso gioco di contrapposizioni, che, lasciato alla sinfonia di un endecasillabo ben congeniato “a maiore” o “a minore”, e perfettamente inanellato da ripetuti enjambements, si  affida  al supporto di intrecci di ampia narratologia. Ed è qui, in questo metro bello e sonoro, largo e disteso,  chiaro e avvolgente che la Nostra si trova a suo agio. E’ qui che offre il meglio di sé, la complessità del suo patema esistenziale; la piena liricità del suo canto; quasi un ossimorico travaglio fra melodia versificatoria e asprezza epigrammatica. E per questo si ricorre alla natura; ad un naturismo dai colori di viole e di mimose; dai sogni che profumano di rose; ad una natura che dona tutto il suo fascino, tutto il suo  cromismo, rendendosi complice di un pittore che: “… del mio fiore/ farà un ritratto che nessun sa fare”. Grande la maestria della Turri nel destreggiarsi con diverse forme poetiche; coi diversi stili: componimenti di ampio respiro, sonetti che rispettano la tradizionale stesura metrica, poesie brevi e apodittiche come quelle dell’ultima delle sei sezioni (Brevitas), dove, con pennellate brevi e simboliche, riesce a fare un lavoro di profondo scavo analitico:

Se ne vanno le ore
e non ritornano.          
Sono ghiande che si staccano
e cadono
lasciando alla quercia
la solitudine del tempo (Le ore),
cosciente, Ella, del tempo che fugge irreparabilmente, lasciando in sospeso i tanti perché della vita; le tante inquietudini di un amore incompreso; della sua unicità di cui raramente ci si rende conto; e, soprattutto, della sua forza, di quanto sia prezioso quel sentimento che, al fin fine, comanda e gioca coll’esistere:

La tua ricchezza forse non conosci:
come l’oro non luccica e non brilla,
non è una spilla,
non si appunta sul bavero della giacca,
non è un diadema che si porta in testa.
(…)
il cuore di una donna innamorata
pietra rossa e preziosa, calda, immensa.  
    
Allora pensa!

La tua ricchezza forse non conosci (La tua ricchezza forse non conosci).

Un’aspirazione alla totalità, alla infinita dismisura di un eros che, sebbene ulivo robusto, può cedere alla solitudine e alla mancanza di affetti:

(…)
ma sempre torno sola. Sconsolata,
nella freddezza d’ogni disamore.

Forse non sai
che anche un ulivo muore (Quello che dell’ulivo non sai).

Parlare di questa silloge, dello sconvolgente stato emotivo che la percorre, del suo prezioso patrimonio umano e disumano, terreno ed ultra, significa toccare i punti cardinali dell’essere e dell’esistere. Amore, sì!, ma anche tutto ciò che coinvolge e tutto ciò che si porta dietro questo carico pesante. Questo groviglio interiore che ora ci fa volare en haut, ed ora ci fa cadere nella polvere; ora ci fa toccare il cielo, sperando, ed ora ci fa “morire”, disperando. Ogni angolo della nostra vicissitudine non ne è escluso. Dalla visione di una realtà ridotta ai minimi termini, alla rievocazione di un memoriale denso e di arcadico sapore, che spesso si fa rifugio edenico, alcova rigenerante in cui spegnere le solitudini del quotidiano:

(…)
Ed era il nostro cuore campagnolo
un panetto di burro nella madia,
una pannocchia cotta nello spiedo

e spigo profumato nel corredo.
Palpitava, crescendo in un’arcadia,
su altane di speranza e mai da solo (E intanto crescemmo).             

C’è la vita in “Leggi una donna”; tutta, con le sue vicende dolorose, con i suoi smacchi, con i suoi tradimenti, che ci portiamo dietro pesanti e inquietanti, con tutte le dicotomiche dualità che essa ci pone davanti, forse per misurarci, o forse perché ognuno di noi è soggetto a un destino magro e poco disponibile a capire le nostre storie. Il fatto sta che proprio con queste la Turri costruisce un serbatoio di grande forza evocatrice; un fardello che rumoreggia e grida dacché vuole uscire impetuoso in sprazzi di terra e di cielo; in lembi di urgente sonorità poetica, di generosa fertilità emotiva che ci dicono di quanto Ella ami il canto e di quanto brami affidargli il faticoso racconto di una vita:

Dovevo pure inventarmi qualcosa,
ché a vivere di nulla manca l’aria.

Qualcosa come un sogno
ma più reale,

come la vita
ma più immortale,

come l’amore
ma più corale (La poesia).



Nazario Pardini 

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