giovedì 1 agosto 2019

FRANCO CAMPEGIANI LEGGE: "I DINTORNI DELLA SOLITUDINE" DI N. PARDINI



"I dintorni della solitudine", di Nazario Pardini

Franco Campegiani,
collaboratore di Lèucade

Che cos'è la "solitudine"? può avere dintorni la solitudine? Non nel senso in cui viene di norma intesa. Quando un uomo è solo, o tale si sente, non ha nessuno intorno, tantomeno se stesso, e niente, ma proprio niente, lo può confortare. Ebbene, la poetica pardiniana ha e promuove un'idea diametralmente opposta di solitudine: una solitudine non intimistica o crepuscolare, ma una solitudine che è afflato cosmico e intensa compagnia. In primis, compagnia dell'uomo con se stesso, con il proprio mistero, ma poi con tutto un mondo (visibile ed invisibile) che con lui è in empatica relazione. Un dialogo incessante con la terra, con il cielo, con il mare, nonché con altri uomini, viventi o scomparsi, con cui lui ha stabilito legami. Un panismo struggente, un sentimento di fusione con tutto il vivente: "Mi sposto, e vado a miscelarmi / alla furia spaventosa della foce" (La piena del Serchio).
Un vero e proprio animismo, una polifonica armonia in grado di accogliere ogni voce del creato. Si legga Piccioni, un inno alla natura libera e selvaggia, alle sue creature umilissime "che hanno solo l'istinto", una sapienza infallibile che le rende padrone di se stesse e del loro destino. Tutto è vivo ed armonico in natura, dove perfino gli oggetti hanno un'anima. Il falcione, ad esempio, che se ne sta lì, "fra le miste ferraglie di cantina", ed è "senza voce: una bestia ferita", finché il poeta lo trasporta in cortile, "all'aperto, fra i richiami / di paperi e galline", e gli sembra che torni ad essere felice. E quanta tenerezza nell'aratro che, triste per esser finito "fra aggeggi logorati", rimpiange i tempi della sua giovinezza e "vorrebbe tanto il ventre di sua madre". Un vitalismo travolgente e festoso, ma al tempo stesso dolente per il mistero di morte intrecciato all'urlo di vita dell'intero creato.
E quando giunge l'autunno, e la melanconia si estende per la morente stagione, il poeta osserva con tristezza il "sudario di languore e di morte" che avvolge ogni cosa, ed è colto da un interrogativo lancinante: ci sarà la rinascita, oppure tutto finirà irrevocabilmente in un Nulla nefasto e mortale? "... Questo autunno / ha un cielo nuvoloso e non promette / sereni panorami. Spunteranno / i nuovi bocci chiusi dentro l'anima / dei rami sonnolenti? / Niente dicono. / Protetti dalle scorze delle rame, / sanno solamente della morte / di quelli spersi dentro la foresta". Può sembrare perplessità, esitazione, incertezza, ed invece è certezza della natura duale ed armonica di tutte le cose. Amore e Morte, Eros e Thanatos, si rincorrono e si resta in apnea di fronte al mistero dell'equilibrio universale, che dà e toglie a suo piacimento ogni dono.
Pandoro, il cane fedele che continua ad attendere il padrone scomparso, dopo anni, alla fermata della corriera, mostra di avere una fede incrollabile in questo mistero: "Per lui ad ogni arrivo era una festa, / ed è convinto che lo rivedrà. / Non molla. / Ogni giorno, alla stessa ora, / Pandoro te lo vedi lì davanti / con lo sguardo fisso alla corriera". Negazioni e affermazioni fanno parte allo stesso titolo di quel mistero di armonia, dove limitato e illimitato occorrono l'un l'altro ed il senso della precarietà si sposa con quello della pienezza e dell'assoluto. Una poetica fondata sull'armonia dei contrari, che è poi la filosofia dell'assoluto, la filosofia del tutto che necessariamente accoglie tutto nel suo abbraccio, finanche il suo contrario. Ed è la filosofia della natura, pronta ad abbracciare i più dissonanti contrasti in un progetto unitario di armonia.
Un realismo vivacissimo, una coralità che sconfessa quanti tendono a definire intimistica una poetica così lontana dai clangori delle sferraglianti metropoli, produttrici - quelle si - di isolamento psichico, di solitudine estrema, di chiusura dell'uomo in se stesso e di intimismo radicale. Ma non si pensi di trovare, nella poetica di Pardini, il benché minimo accenno polemico nei riguardi del mondo tecnologico. Nessun astio, nessun rancore ideologico nei confronti dei cosiddetti paradisi artificiali, la cui negatività, semmai, è risolta in positivo, come contraltare necessario per dare risalto all'esuberante umanità della terra in cui l'autore vive, come di tutte le terre non ancora pesantemente contaminate dai miasmi della globalizzazione: "Vieni a trovarmi, caro forestiero, / vive da me ogni palpito di storia, / ... / Vieni a trovarmi nella mia Toscana" (Vieni al mio paese).
Non tutto il mondo è megalopolitano e la sola cosa che conta per un poeta - come per chiunque - è di credere in se stesso e nel mondo in cui vive. Sprofondato in quelle radici, che ama e canta da sempre con passione  sconfinata, Pardini non mostra risentimenti nei riguardi di un mondo appeso ad opposti valori, dai quali non avverte minacce e i cui risvolti poetici, qualora non effimeri, egli non ha mai mancato di incoraggiare nella sua lunga e feconda attività di critico letterario. Sa benissimo, Nazario, che tutto concorre a formare il mosaico universale, in quella complementarità degli opposti che è la filosofia stessa del creato, filosofia di cui il suo animo è profondamente permeato. Semmai l'intolleranza è perseguita da un certo modernismo ideologico che tende a costruire steccati, forzando oltre misura la giusta istanza di ricerca di nuove formule espressive.
Chiunque conosca Pardini, sa che egli difende strenuamente la soggettività del fare artistico contro chi pretende di insegnare una volta per tutte i veri ed esclusivi canoni dell'arte e della poesia. Se si crede nella singolarità dell'esperienza creativa, non si può credere nella dogmatica oggettività di regole già date. Non sto difendendo, sia chiaro, l'assenza di regole in poesia. Le regole devono esserci, ma sono squisitamente personali. Ogni poeta ha le proprie e le scopre solo lavorando. Non sono un vestito preconfezionato, le regole, perché l'unico vestito della poesia è la nudità con cui essa viene alla luce. Sembrerebbe anarchia e pressapochismo a buon mercato, ma non è così, giacché il soggettivo di cui qui si parla non è altro che lo spirito profondo, individuale e universale a un tempo, e non certo il capriccio o lo psicologismo sfrenato.
Ogni poeta ha la propria maniera. Il brutto è codificare, trasformare in manierismo qualsiasi maniera. La maniera di Pardini ha un nome specifico: tradizione, ma occorre chiarire che non c'è nulla di meno codificabile, di meno sclerotico e di meno antiquato della tradizione. Tradizione non è conservazione. Fra i due termini corre una distanza incolmabile, la stessa che corre fra mitopoiesi e mitologia. La tradizione è viva e molteplice, la conservazione è monocorde, cristallizzata. La tradizione è creativa, la conservazione è reazionaria. Non a caso il ribelle Pasolini poteva scrivere: "Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. /  Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d'altare, dai borghi / abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, / dove sono vissuti i fratelli" (da Poesia in forma di rosa, Garzanti 1964). 
Non la mummificazione, ma il rinnovamento è la peculiarità delle radici. Non ciò che si tramanda passivamente nei secoli è tradizione, ma ciò che rinasce nei secoli da ogni annullamento, da ogni arresto, da ogni distruzione. Un mistero insondabile. Tradizione è ciò che muore e si rinnova ad ogni generazione, come il fogliame dai rami stecchiti, come i frutti dai disfatti semi. Tradizione è l'immutabile che rivive in ogni mutazione: l'humanitas di sempre, l'essenza stessa dell'animo umano. E' l'eterno presente, l'illo tempore del mito, l'attimo sacro delle origini, perennemente attuale. E' questo il Memoriale di cui parla Pardini: non un arido esercizio mnemonico, un insignificante mandare a memoria. Piuttosto un filtro coscienziale, un ricordo di esperienze vissute e dimenticate che affiorano decantate dalle acque dell'oblio per illuminare di nuovo e sempre il cammino. Una purificazione.
Nella mitologia greca Lete e Mnemosyne sono strettamente abbracciate tra di loro. Esiodo, nella Teogonia, presenta le due divinità come gemelle inseparabili, antitetiche e complementari. Per lo stesso Platone, nel mito di Er, la dimenticanza è considerata premessa indispensabile per ogni rinascita. E sempre nella mitologia, Lete, è anche il nome di un fiume degli Inferi, la cui acqua, bevuta, concede ai defunti il dono di dimenticare la vita precedente per disporsi a rinascere in un corpo nuovo. Questo, a mio parere, è il vero significato del Memoriale in Pardini. E' il vissuto che attira a sé e ingoia nelle sue spire, ma che sempre restituisce vita e prepotentemente spinge a vivere e a vivere ancora. Vissuto sempre inconcluso, attraverso cui torna e ritorna la potenza imperitura dell'amore e del principio vitale.
"L'ultimo autunno che vivremo assieme / sarà per impolparci dei colori / della nostra stagione. Verrà il mare / con le sue inquiete onde a raccontarci / storie di antichi approdi; a suonarci / ottobrine romanze. Stai con me. / Sarà bello abbracciarsi; sarà di nuovo bello / confondersi coi lampi di una fine, / come lo era, / coi fremiti nascenti delle fronde" (L'ultimo autunno). Memorie non chiuse in soffitta, ma da vivere e rivivere ancora. Se così non fosse, sarebbero nient'altro che gabbie mentali, i ricordi, un limbo dove andarsi bolsamente a rifugiare. Tutto ciò è detto magistralmente nella poesia Il fiore: anziché coglierlo, il fiore, e in tal modo farlo morire, lasciamolo in vita ed accettiamone la morte naturale, foriera di altre primavere: "Mischiamoci, non temiamo la morte! / Bagniamoci del pianto, / intingiamoci nel sangue".
Soltanto così potrà rinascere, quel fiore: "... Arriverà / profumo d'erba nuova / a riportarci al fiore, / a respirarne l'odore selvaggio, / il capriccio d'amore. / E sia motivo / per scoprirci di nuovo e non ricordo, / solo ricordo di una primavera". Questo è il Memoriale per Nazario Pardini. Non un limbo di ricordi dove cercare sollievo, ma un angolo dove scoprirci di nuovo e così tornare a vivere e a soffrire, a lottare e ad amare. Non fuga dal mondo, bensì radicamento nel mondo, uno stare hic et nunc, a combattere realmente, lontani dalle ribalte, senza retorica e senza ruota di pavone. I timidi "sono quelli laggiù, in fondo al gruppo: / ascoltano, / e lasciano parlare gli oratori. / ... / Sono quelli che amano di più, / magari di nascosto, / e se lo tengono dentro / per paura di essere scoperti". Questa folla anonima non firma la storia con atti memorabili, ma è l'unica a vivere degnamente la vita.
Il tema è ripreso e sviluppato in Dialogo, un confronto fra la Storia e Leonida, fra celebrità e anonimato, fra l'agrodolce autenticità e la megalomania violenta e sfrenata. La poesia di Pardini ha matrici fantastico sentimentali, ha radici in un cuore che, se spesso propina illusioni, sa comunque restare profondamente legato al reale. C'è su questo punto un'interessante e amabile ambiguità. Il Nostro, infatti, rispetto a Leopardi che non ha dubbi sul carattere illusorio (sia pure indispensabile) della fantasia, conserva quell'interrogativo fecondo che gli fa dire: "Ma ero vivo? / o dentro me costruivo una coscienza / che non aveva a che fare col reale?" (Verso la luce). Sta qui la natura "binaria", genuinamente interrogativa di questa poesia, consapevole che nel sogno c'è tutto: l'illusione senz'altro, ma anche la verità.
Verso la luce è il titolo del poemetto finale: una sorta di viaggio astrale, al di fuori del corpo, dove l'autore aggancia persone scomparse (il babbo, il fratello, un amico) che si soffermano a dialogare amabilmente con lui. Finché una ninfa, Silva, lo avverte: "Tu non puoi, / umano fra gli umani, stare qui / a gioire delle bellezze eterne / ... / Quello che vedi è fumo". Silva svanisce e una voce invita il poeta a tornare al reale, alla vita concreta, unico luogo dove è possibile coltivare la luce dell'innocenza. La verità sta dentro di noi, non possiamo fuggire da noi stessi nell'illusione di poterla trovare altrove. Vivere da umani, con fedeltà piena all'umano, è l'unica via percorribile che abbiamo: "forse non era luce, / forse non era / quella che io bramavo, / ma pur sempre la luce, quella chiara, / quella di casa mia. / Chi dice che non fosse / quella che io cercavo". Un programma decisamente antiorfico, direi.

Franco Campegiani














8 commenti:

  1. Ampia ed esaustiva la recensione di Franco Campegiani, nella quale è sottolineato come Nazario Pardini sappia bene «che tutto concorre a formare il mosaico universale, in quella complementarità degli opposti che è la filosofia stessa del creato, filosofia di cui il suo animo è profondamente permeato». Inoltre, tra i tanti punti di riflessione suscitati, in particolare valuto stimolante il “distinguo” proposto fra “tradizione” e “conservazione”, dove la tradizione – sviluppata da Pardini – «è viva e molteplice, la conservazione è monocorde, cristallizzata. La tradizione è creativa, la conservazione è reazionaria».
    A riguardo, Walter Benjamin, in un articolo del 1936, ha scritto quanto sia problematica l’esistenza di una struttura poetica e artistica in grado di presentarsi al destinatario sempre sotto il medesimo aspetto: «in verità il suo aspetto potrebbe cambiare con le diverse epoche che volgono il loro sguardo sull’opera», confermando, però, in una simile evenienza, «la sua capacità di aprire un accesso alle epoche che le sono più lontane ed estranee». Sono quindi suggeriti gli esempi di come «la poesia di Dante abbia messo in luce tale capacità per il secolo XVIII, mentre l’opera di Shakespeare per il periodo elisabettiano».
    Speriamo e confidiamo, insieme a Campegiani, che la poetica pardiniana possa intraprendere un sentiero attuale, analogo.

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  2. Ti ringrazio, Cinzia, per questa attentissima disamina del mio scritto sulla poetica di Nazario Pardini. Soprattutto ti sono grato per le puntualizzazioni e le considerazioni ulteriori che aggiungi, con la tua collaudata e sorprendente sapienza umanistica, alle mie idee... rivoluzionarie (sic) sulla tradizione e sul suo insostituibile valore.
    Franco Campegiani

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  3. "Che cos'è la "solitudine"? può avere dintorni la solitudine? Non nel senso in cui viene di norma intesa. Quando un uomo è solo, o tale si sente, non ha nessuno intorno, tantomeno se stesso, e niente, ma proprio niente, lo può confortare. Ebbene, la poetica pardiniana ha e promuove un'idea diametralmente opposta di solitudine: una solitudine non intimistica o crepuscolare, ma una solitudine che è afflato cosmico e intensa compagnia.".
    Partire dall'incipit di questa profondissima ed accurata lettura di Franco Campegiani ai "Dintorni della solitudine" è - coerentemente con il pensiero dell'amico - come iniziare dalla fine. Mi spiego: parlare di solitudine senza prendere in considerazione la compagnia equivale a discettare del nulla, di aria fritta; così come parlare di luce senza ombre non avrebbe alcun senso, di più: non ci farebbe comprendere né l'una né le altre.
    E, tuttavia, non sarebbe ancora sufficiente se non si facesse un passo successivo, che è poi quello che Franco fa subito dopo scrivendo: "In primis, compagnia dell'uomo con se stesso, con il proprio mistero...". Certo, perché non può esserci vera relazione con il mondo e gli altri esseri viventi se - prima - non si sta volentieri con se stessi.
    Da qui, prende piede tutta la disamina, e da qui bisogna sempre ricominciare. Così, quando Campegiani parla di difesa della soggettività del fare artistico a proposito della poiesi pardiniana, tiene a sottolineare che non si tratta di insegnare niente a nessuno ma di mettere "a disposizione" degli altri il proprio sentire; quando parla di maniera, mette in guardia circa la confusione che si potrebbe generare tra questa ed il manierismo, che tutto è fuorché libera creazione, libera espressività (di qualunque genere esso sia). "La maniera" di Pardini si chiama Tradizione - dice - ma non ciò che passivamente si tramanda nei secoli bensì "ciò che muore e si rinnova ad ogni generazione, come il fogliame dai rami stecchiti, come i frutti dai disfatti semi.".
    "Quello che vedi è fumo". Silva svanisce e una voce invita il poeta a tornare al reale, alla vita concreta, unico luogo dove è possibile coltivare la luce dell'innocenza. La verità sta dentro di noi, non possiamo fuggire da noi stessi nell'illusione di poterla trovare altrove.".
    Il poemetto che chiude la raccolta è quanto di più esplicativo al riguardo, e non è un caso che sia Nazario che Franco abbiano voluto concludere in questo modo: è da lì che Ulisse riprende a navigare.

    Sandro Angelucci

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  4. Carissimo Sandro, il tuo lungo e appassionato commento la dice lunga sulla matrice comune del nostro pensare e sentire. Grazie per ciò che dici a proposito della solitudine e della compagnia, con la sottolineatura formidabile che "non può esserci vera relazione con il mondo e gli altri esseri viventi se - prima - non si sta volentieri con se stessi". Ciò rende giustizia ad una poetica relazionale e combattiva (odissaica), tutt'altro che intimistica o orfica come quella pardiniana. E grazie anche per avere colto il distinguo tra "maniera" e "manierismo", che tutto è - quest'ultimo - "fuorché libera creazione, libera espressività (di qualunque genere esso sia)". Un caro saluto.
    Franco

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  5. Straordinaria l'esegesi del'amico Franco Campegiani dell'Opera di Nazario "I dintorni della solitudine". Nell'annegare nel suo dire prendevo atto di quali sono le capacità e le conoscenze che deve possedere un critico letterario. Magnifica la lettura della solitudine intesa come capacità di star bene anche con se stessi e di realizzare un afflato con l'universo. In effetti si può solo scegliere di star soli nel senso letterale del termine, ovvero avulsi dal mondo che ci circonda. La solitudine pardiniana è tensione verso la vita, è un'esperienza panica, sottolinea Franco, "una solitudine non intimistica o crepuscolare, ma una solitudine che è afflato cosmico e intensa compagnia".
    Nessun sentimento di fuga, ma volontà di legarsi ogni giorno di più alle radici. Ho trovato molto efficaci anche i commenti della signora Cinzia, che non ho l’onore di conoscere e del caro Sandro Angelucci. Anche nel caso del magnifico testo di Nazario la dualità del vivere è quanto mai attinente. E quale meraviglia l’interpretazione di Franco del termine ‘tradizione’! Il termine deriva dal latino tradizione(m), e propriamente significa ‘consegna’. Non è un rituale che si ripete. Avviene ‘la consegna’ e si costruisce altro,si cresce, si matura. Il mito nell’interpretazione di Franco e, naturalmente di Nazario, la fa da padrone, tant’è che il nostro termina il suo lavora con il riferimento a Ulisse. La ‘consegna’ mi sembra quanto mai attinente a quest’ultimo, in quanto Odisseo viaggia e non si stanca di scoprire.
    Un ‘analisi eccellente, che crea nuove suggestioni sull’Opera del Maestro e mi rende onorata allieva di tanta magistrale bravura. Un caro abbraccio a Franco, a Nazario e agli altri critici letterari….
    Maria Rizzi

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  6. Grazie Maria,
    i tuoi interventi sono tutti pieni di saggezza e di sostanza.
    Nazario

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  7. Carissima Maria, il tuo brillante commento stimola in me ulteriori considerazioni. Che cos'è che danno in "consegna" ai poteri gli avi? nient'altro che il pungolo a prendere direttamente in mano la propria esistenza, dando fondo alla propria creatività e alle proprie risorse umane. E' questo che loro han fatto ed è questo che anche noi dobbiamo imparare a fare. Non impareremo mai a farlo fin quando ci limiteremo a copiare i loro insegnamenti evitando di farli scaturire direttamente dal nostro intimo sentire. Sta qui la maieutica, l'arte del "far partorire", davvero la più alta forma pedagogica che sia stata mai elaborata dall'essere umano. Ti sono grato per questo tuo contributo.
    Franco

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  8. Errata corrige: non "ai poteri gli avi", ma "ai posteri gli avi".
    F. C.

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