domenica 1 settembre 2019

NAZARIO P., PREFAZIONE A: "OROGRAFIE DEL SENTIRE" DI LAURA BARONE

Laura Barone,
collaboratrice di Lèucade


Realtà e simbologia, parola giusta nel verso giusto, viaggio ontologico alla ricerca dell’essere, in Laura Barone
(Prefazione)




Ha preso forma di rilievo/ un verso intrappolato nella penna./ Prima viveva in pianure coltivate/con lettere e fonemi inabissati./ Ora risale in un sentire nascosto,/ visualizzando nuove sensazioni,/ sul quadro misterioso del sentire./ Si rivela e inarca la sua schiena,/ sostenendo muri e indifferenze,/ e trattenendo fermo un incauto grido./…/E il mio respiro sarà un altro alito invisibile/lasciato sopra il vetro di un inverno” (Orografie del sentire). Sin dalla poesia eponima risulta chiaro l’intento epistemologico e poematico: forma, intrappolato, pianure coltivate, lettere e fonemi inabissati, quadro misterioso, alito invisibile, il vetro di un inverno. Viaggio verso una destinazione misteriosa fatto di dolore e di trabucchi, da pianure coltivate attraverso lettere e fonemi inabissati che intendono sortire allo scoperto per dare energia e concretezza al sentire. Un   nostos di grande rilevanza umana sostanziato da accorgimenti sinestetico-allusivi e lessemi metaforici che volgono il significato oltre il senso. La trama versificatoria basata su accessori di effetto contrattivo ed estensivo si apre all’esplosione di endecasillabi di maestosa musicalità. Bene chiarisce questa intelaiatura la posizione scritturale della Nostra, lontana da ogni riforma  prosastica del verso, ma vicina alla tradizione nostrana pur con tutte le motivazioni attuative e gli input innovativi. Si fa moderno  il discorso su un’architettura verbale che richiama stilemi di una letteratura novecentesca. Moderno, sì, soprattutto nell’inquietudine che fa dell’uomo un peregrino in cerca di edenici riposi:

(…)
tu sai che della parola
ho preso grafemi e fonie,
e li ho nascosti sotto le lenzuola
d'un sogno mai svelato
e con passi verdi e incerti ho iniziato
a camminare sul selciato d'un endecasillabo
ed a spiare un Io in equilibrio
tra sonetti e madrigali
cercando appigli d'armonia e di vero
(Preghiera del poeta).

 Questo è il verso della Baroni, il suo affondo connotativo, la sua indomabile ricerca verbale che determina la positura emotiva, personale, riflessiva, vicina alla sua epigrammatica vicenda fatta di fughe e ritorni, che denota la versatilità espressiva e la capacità di imprimere colore e visività ai sentimenti più nascosti. D’altronde la poesia è nel canto, nell’armonia delle combinazioni etimo-significanti, e lo dimostra, la Nostra, col prosieguo del racconto che varia nella sua continuità propositiva. Orografie del sentire, il titolo. Un titolo indicativo, proteiforme che tanto inquadra il corso della fatica letteraria della Barone. In esergo, appunto, si riporta una citazione di Rainer Maria Rilke: “Ai veri poeti il primo verso viene regalato da Dio, mentre tutto il resto è dura fatica dell’uomo”, che fa da prodromico avvio alla complicanza che un autore incontra nell’analizzare a fondo i suoi scarti emotivi e nel trasferirli in un linguaggio artistico. Con questa citazione l’Autrice ci introduce in quello che è l’intendimento che ha dell’opera d’arte; nel travaglio di ricerca e di studio a livello psicologico, psicanalitico,  naturistico, e verbale. Quindi poesia come momento eccelso, di memoria odisseica, omerica, agli inizi, poi lavoro, lavoro, lavoro da impiegare sulla lingua e sulla reificazione dei subbugli interiori. Ed è quello che la scrittrice fa nel tradurre i suoi plurali stati emotivi in una poesia chiara, morbida, linda, serenamente inquieta che con i ritmi di varia estensione concretizza stati d’animo intenti a ritrovarsi in una realtà multipla e polivalente. <"Orografie del sentire" è la mia quinta silloge. In essa sono contenute circa 55 poesie inedite scritte tra il 2018 e il 2019 selezionate sulla tematica della ricerca che il poeta fa su se stesso attraverso  il confronto con il mondo  e sulle riflessioni e i cambiamenti interiori che questo sentire produce, portando allo scoperto i rilievi di un'essenza alla ricerca di un  nuovo linguaggio e di una nuova realtà.>. Questo scrive la Barone nella sua introduzione. La Poetessa effettua una ricerca di ontica e ontologica sostanza: il rapporto tra il suo mondo e la realtà che la circonda. Ed è da questo confronto che nasce e si sviluppa il senso della creatività estetica fin dai tempi più lontani; a partire dalla civiltà dell’antica Grecia fino ai giorni nostri. Ogni corrente letteraria si è distinta dall’altra per una diversa interpretazione del rapporto fra l’io e il mondo circostante. Fino all’originalità Baudelairiana che vede nel poeta colui che può auscultare la realtà col sesto senso. Sì, uno in più. Perché riesce a percepire quella musicalità insita fra le pieghe del reale, che l’uomo comune non riesce a udire. Ed è proprio quella “sinfonia”, secondo lui, a creare una simbiotica fusione fra le cose che all’occhio comune appaiono divise; l’arte non è ragione, né  realtà scussa, l’arte è scavo, fantasia, immaginazione, passione, sinfonia, emozione, partecipazione, esaltazione..., ha bisogno di un serbatoio a cui attingere. E quel serbatoio è alimentato dalla memoria. È essa che plasma la realtà, mutandola in immagine:

(…)
La pelle aveva il profumo
d'un bagno nel mare tranquillo
e canti lontani tagliavano
di traverso il battito dei pensieri.
Tutto il mondo era lì intorno
nel senso di pienezza
della vita in cammino
tra un cielo ed una terra
scolpiti in correlazioni di futuro.
Dov'è ora quel cielo e il suo domani? (Correlazioni di futuro).

Ogni piccolo fatto, ogni sguardo, percepiti e degni di storicizzarsi, una volta decantati nell’animo, si fanno alimenti indispensabili per la resa estetica. Si potrebbe partire addirittura dai presocratici, per non dire di Socrate, Platone, di Aristotele, per tracciare una linea sommaria che tenga di conto dell’evolversi di tale rapporto. 
       Ma mi piace aprire una parentesi su Saffo la grande. Il suo rapporto con Pan è vario, e piuttosto conflittuale. Nei suoi frammenti ci sono chiari di luna, e paesaggi serali veramente moderni. Ma la sua ricerca è sempre volta ad una Natura tormentata e violenta che faccia da specchio al suo essere abnorme, al suo involucro imperfetto, e “brutto”. Riesce a soddisfare il suo spirito solo davanti a mari che sbattono le loro onde fragorose su scogli dissestati, o in mezzo a temporali forieri di lampi paurosi. E bramerebbe che la morte la raggiungesse nel momento del maggior godimento erotico, perché tale beatitudine, tale sperdimento dell’essere non venisse profanato dalla vita: “Volevo/ che tutto il mio sentire si spegnesse/ nella notte soffusa e che l’immagine/ non guastasse la luce. Era la morte/ ch’io bramavo nell’attimo superbo/ di eternare la gioia dell’amore./ La poesia e il canto il grande dono/ furono degli dèi per il deforme/ involucro dell’anima. Nessuno/ pronuncerà di certo il verbo furono/ per i miei versi. Aleggiano con piume/ verso l’Olimpo in questo nostro incontro./ Moriranno gli eroi, le bellezze/ di cortigiane effimere e procaci,/ ma un cantico se eccelso volerà/ oltre gli spazi fragili degli umani./ E se restò il ricordo di un’achea/ bellezza o ancor di più di gesta eroiche/ di un teucro si deve al grande aedo./ Il luccichio del mare accompagnato/ dai trilli lamentosi dei colimbi,/ il frangersi dell’onda sulle rocce/ logorate dagli anni, le tempeste/ che spruzzano la bava della schiuma/ sui volti scoloriti e poi i riposi/ delle bonacce sulle vele ai porti/ saranno giuste note che stasera,/ incise in poesia, legheranno/ il convivio all’eterno”. (Da Nazario Pardini:  Alla volta di Lèucade: Agape di vino e poesia. Viareggio. 1999).
       È misurandoci con quello che abbiamo di fronte che riusciamo a realizzare il nostro pathos, anche l’idea della poesia e dell’arte, in genere. Se abbiamo intensione di rappresentarlo così come è faremo un semplice ritratto, scevro da ogni interferenza personale. Ma l’arte ha bisogno di ben altro, ha bisogno di animo, di sentimento, di passione; occorre qualcosa di più della semplice realtà per raggiungere il regno di Orfeo. Quello che ci vediamo di fronte al momento non può essere eguale a ciò che rievochiamo, contemplando il  passato: le immagini si attorniano di stati d’animo vari e articolati: gioia, rimpianto, saudade, memoriale, odio… E sono proprio queste emozioni a fare da supporto all’azione creativa. Quando le riviviamo le scene che ci videro presenti assumono tutto un altro aspetto; altro significato: ci emozionano, ci rattristano, ci inebriano, ci confondono o ci alterano i battiti cardiaci.  Direi che il tutto ha bisogno di riposare in noi per farsi materia viva; per tramutarsi in ossi di seppia, in idillio, o atomi opachi del male… Un luogo ci ha veduti abbracciati e innamorati, ci ha veduti spersi nelle nostre meditazioni, soli nelle nostre riflessioni; ritornando a quel luogo, alla sua entità simbolica, al suo apparato loquace, potremo rivivere attimi di particolare portata contagiante:

Noi scaviamo nel passato e ci cerchiamo
rovistando nei ricordi e in una foto
poi tentiamo d'afferrare l'innocenza
ripiegata in un sorriso ancora in erba.
Cosa resta d'un pensiero ancora in viaggio
solo il raggio d'uno sguardo che ravviva.
Questo inutile parlare mi conforta,
siamo slanci di una vita che è risorta
(Slanci di vita).

Questo, tutto questo nella poesia della Nostra. Un intrico di emozioni che gioca a suo favore; a favore della complessità del suo “poema”. Ella ha bisogno di storia, di storie, di ambiti vicissitudinali, di frasche o di mirti, di dune o di tamerici, di orizzonti o di tramonti, di strade di città o viuzze di campagna, che contengano i momenti importanti del suo vivere, amare, soffrire, esistere. Ciò che non può una semplice scena naturale che la colpisce magari per la sua bellezza, o per la sua unicità. Sì, può avere una particolare contaminazione, ma solo se  somiglia in qualche modo a quel luogo in cui soffrì, amò, vinse o perse. La vita è fatta di sottrazioni e di memorie negative. Ma anche di avvenimenti fulgidi, brillanti, dolci, belli da riportare a vita. Non si deve credere ad un’arte amorfa, senza viscere, senza apporto rievocativo, dacché è sperdimento, è répêchage, è meditazione nella poetica della Baroni. Ed è parola. Soprattutto parola. Quel congegno lessicale che si prende l’ònere di concretizzare le  inquietudini esistenziali, le dolci illusioni che la connotano in quanto umana, per il fatto che ambisce ad un porto di difficile ancoraggio; che si chiede il perché del luogo e del tempo; dell’hic e del nunc; del perché ci siamo e per cosa. Ciò che genera in lei quel senso di insoluzione e precarietà che alimenta l’atto creativo, dacché è della sua sostanza che si tratta, del suo modo di essere e di tutti i marchingegni che formano l’epigrammatico quadro della sua entità:

Il giorno di festa è plasmato dall' attesa
piccola e smarrita anima mia!
(…)
Qui, noi siamo piccole luci accese
endemiche d'un mare
che ha visto carne
trasformarsi in roccia.
Stacchiamoci dall'Io
che non piace a chi ha l'inutile scettro
del giudizio e vuole agnelli saporiti
da portare al tempio
lasciamoglielo in dono,
e proseguiamo oltre cortina
col lento passo di chi non sente fretta
(Animula vagula blandula).

L’oggetto che ci sta di fronte contribuisce in modo sostanziale a dare corpo a questi brividi empatici. Questo sì. La Baroni fa un’operazione di antropico trasferimento, consegnando il suo mondo a ciò che vede e che sente. Il suo è un linguaggio indiretto, un aveu di naturistica combinazione emotiva; parla e scrive con il linguismo della natura dando così omogeneità e compattezza all’architettura della silloge in gioco:

Travolge, la luce del mandorlo in fiore.
Come bianco velo per vite stracciate
avvolge il giardino che ha nubi di passato.

Il creato ha leggi divine
che dispensano bene e bellezza.
Essenza diviene il colore d'un petalo
biancore d'intenti e di lotta.
Il suo germinare è fecondo di vita
e ha colori di carni che hanno 
preghiere esaudite e vissuto di mare.
Amare il dolore degli altri
é compito ardito di pochi (
Il mandorlo di casa Chiaravalle).

La ricerca della Poetessa verte all’epistemologia; alla conoscenza; alla conquista di un  verbo totalizzante, plurale, polisemico che abbia il potere di farsi amico; confidente; e volga così la volumetria metrica a rappresentare un pathos che, umano nella substantia, è indeterminato e vago come lo può essere quello di un essere mortale. Siamo umani e come tali condannati a non avere risposte precise sulle questioni della vita. E di questo si tormenta la Nostra:

Vivo in un abito imperfetto.
Lo indosso di notte
quando il silenzio è vento di memoria
e dal cielo filtra la luce delle nostalgie.
Ha il colore di mille occasioni
e il peso di quelle parole mancate
che inattese s'appoggiano su labbra
che hanno l'odore di duttile carne.
È il buio che plasma le attese
e svela gli inganni di false promesse.
Io vivo in un tempo imperfetto
e vago tra lame e acquitrini
che inghiottono il vero
e fanno più nero il pensiero
(Abito imperfetto).

Anche se in certe poesie sembra che l’Autrice si abbandoni a stati d’animo di negatività, di tristezza, mai raggiunge situazioni di pessimismo montaliano, mai raggiunge confessioni di becero sentimentalismo, di sfogo mellifluo e decadente dacché il tutto è controllato e tenuto fra argini stilistici ben solidi e ben strutturati. 
Si deve anche riconoscere che tale inquietudine non fa altro che tramutarsi in qualcosa che spinge al miglioramento; alla riflessione e alla ulteriore ricerca di un porto che noi, come poeti, con l’anima imprigionata, mai potremo raggiungere:

(…)
Capirò la vita
ma aggiungerò altre domande
alla collana dei miei dubbi.
Lascerò andare
chi ha vilipeso un generoso aiuto
la sua via ha più curve e salite da percorrere.
Io non ho più pesi
se non quello d'un corpo macellato
dove l'anima è rinchiusa
(Ora).

E forse sta proprio in ciò il sorprendente cammino della poesia. E anche se si affida a strutture di diversa misura, di varia impostazione architettonica; anche se da una poesia libera e sbrigliata può passare ad una più legata a congegni metrici, o di lingua inglese (“Nella silloge sono presenti due poesie in inglese una lingua che fa parte dei miei “rilievi” più cari” dalla Prefazione.), non è di certo male; basta che le iuncturae scritturali  contengano il fil rouge del percorso ontologico del canto. Quello che fa la Nostra affidando ai suoi versi tutti gli empiti focali del vivere. E non è facile fare della vita un’opera d’arte; la Barone ci riesce; e riassumendo input di ricerca e di viaggio, completa un quadro di simbolici effetti connotativi, dove l’amore e la morte fanno parte di un gioco umano; di quel viaggio che tanto parla dell’esistere:

(…)
È lì che fiorisce in inverno il Calicantus
che nel vento sferza il tempo
e vecchie attese illudendole di nulla.
Lo senti il suo profumo?
Riporta quel sentire d'una estate
e l'avvampare di quel sole
che inceneriva puri sguardi
e foglie di tabacco appese al muro.
E Thanatos incede fatale alle tue spalle
e lo vedrai negli occhi
seccare nel silenzio un forte grido
(Eros e Thanatos).
Nazario Pardini



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