lunedì 13 settembre 2021

CARMEN MOSCARIELLO: "NASCERE POETI IN TERRA IRPINA"

Poesia come incommensurabile destino.

“E’ mio il dolore del mondo”[1]

 

Nascere poeti in terra irpina!

Mettere dei paletti al sentire umano e stabilire che i poeti sono “Irpini” o poeti e basta?

Potrebbe sembrare un interrogativo di poco conto. Eppure la Poesia irpina ha delle fattezze sue che non sono  solo il  mito o la storia, né la  famiglia e basta.

Sono il ricordo della terra e dell’acqua che scorre nelle vene da stratificazioni antiche  di sorgenti levigate e rese basaltiche dalla neve e dal freddo.

Partirei col chiarire  come mai questa terra che balla, che non dona alcuna certezza, che è fatta di pietre e di odori  ha poi  impastato con i suoi castagni, con i suoi valloni, con le sue fragole menti di grande valore, uomini e donne  di incredibile coraggio e onestà, personalità creative, generose e amorevoli? [2]

Ritornando ai poeti, poiché di questi che oggi vogliamo parlare,  e raccontare  delle sorprese e dei doni che l’Irpinia  riserba ai suoi figli. Questa terra ha dato il natale, tra gli altri,  al poeta Giuseppe Iuliano, nativo di Nusco, capostipite per quei luoghi,  punto di riferimento per la generazione della nuova epoca  di poeti,  là dove al massimo ci si aspettava una mediocre levatura, un chiaroscuro di parole di fatti,  di pause in sospensione all’eco, troviamo invece la grande poesia che ci fa godere delle piccole cose “Tantilla”[3], dice il poeta, piccole cose, nascoste,  tra esse, si scorgono ”Un ramo d’ulivo palmo di foglie/frutto e vanto della terra irpina/generosa come madre di latte/stringe intesa e pegno di pace./Necessità a volte ci respinge./ E’ voce contro che restituisce/ fraternità e amore ad antica discordia./ Ha cuore che cela tenebre e rabbia/vergogna, palpiti menzogna. / E’ anima nera che migra dai monti. E disertrice di mare/invoca soccorso ed accoglienza./Ma qui s’affoca senz’acqua /altra morte del Mediterraneo/ di un Sud carovana di nomadi/ che attraversa deserti di coscienza/pozzi secchi a sorsi e brocche di sete.[4]Come quando tra le foglie secche e il fango si trovano maroni, l’oro irpino che nutre quei popoli, tra questi spazi segreti  si rinvengono le essenze delicate che rendono la vita possibile anche lì tra i lupi  e i cinghiali. Questa poesia è corpo, è costruita con elementi naturali, fusi indissolubilmente all’anima. C’è  una  volontà che non conosce piegamenti che sa cogliere le sconfitte. Voglio dire che questi versi lavati e purificati nelle antiche sorgenti del Montagnone hanno da dire al mondo molte cose. Il mondo archetipo dei  padri “saraceni![5]” è qui filato in valorosa sostanza, niente è trascorso invano. Gli stessi terremoti che sono gli incubi di molti che abitano  quella terra, i padri li  sfidano, vi  camminano sopra alle macerie del corpo e dell’anima , sapendo che ci sarà sempre un post fata resurgo : ricostruire per rinascere, per ridare fiato alla creta, alle trombe che oscillano lievi al triste vento. I suoi versi sono, a volte, ispidi,[6] come il sibilo della vipera che ha perso la pelle, non danno conforto, ma ci spalancano  gli occhi sulla vita, non sono  preghiera, ma coraggio, amore per chi resta dietro. Il mondo incrocio di storie e strade/e dei loro intrecci sicuri o allo sbando/Impegna a confuse diverse direzioni./Affanno patisce dubbie sfida superbia/Spesso l’odio/amore esagerato/ spranga l’uscio o spalanca porti di tolleranza/Sospetti e pregiudizio sono germi di rifiuto/negazione di solidarietà e morte solitaria.[7] Non vi sembra che questi versi facciano da eco alle parole di Emilio Gadda :..che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza e l’effetto di un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice , un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti….”

La sua poesia sa di riserbo, è stringata,  ripida come le “coste” del SS Salvatore. Il poeta è credente, ma il suo Dio è un maestro di silenzio e di pazienza.: Sfinito, il corpotrafitto che dissangua/asperge e concima le zolle riarse/terra di nessun raccolto/…. Spira di agonia.[8] Non c’è surrealismo nei suoi versi,  anche l’inconscio non occupa molti spazi, c’è, invece  quello che io chiamo un  “nichilismo cristiano” [9]: quel sentirsi piccoli piccoli e discutere, alla pari,  con la volontà di Dio. Egli è un seguace fedele di Cristo, di San Michele (il santo di tutti paesi di montagna, dei paesi poveri , abbarbicati che sono nati per la fatica)porta fiero la sua takuba. Sa essere leale, chiaro, onesto con i suoi amici. Ha i contatti e la stima di  molti scrittori italiani. Da Nusco fa sentire la sua voce, sa che  la poesia è il migliore dei mondi possibili. Crede fermamente nella forza di coesione e di pace che essa possiede. Di fronte a una crisi di civiltà che non ha lasciato scampo a nessuno, neanche per quei paesi scolpiti da duro lavoro, egli chiede che siano rispettati i diritti di tutti, non solo della sua Irpinia, ma di tutto il Sud, sempre più abbandonato e depredato. C ’è un filo che dà una “tramatura” singolare, forte  alla sua poesia, quasi eterna:  è lo spirito politico, del quale egli è convinto e che credo abbia segnato non poco la sua vita, fin dalla prima giovinezza. Ebbene, la poesia è civiltà e dunque perché non affidare ad essa compiti di svolta, di crescita dell’umanità,  credo che i suoi versi non siano solo amara polemica per ciò che è stato disfatto o non è stato fatto, ma tutt’altro, come i grandi padri dell’Irpinia  e i grandi poeti e scrittori della Letteratura Italiana come Verga,  Manzoni, Carducci,  Quasimodo,  si pone con occhi bene aperti di fronte alla realtà, una realtà mai mitizzata, ed elabora le sue strategie di salvezza. E questo non è poco cosa! La sua poesia dunque  è fortemente radicata nei luoghi dove  il poeta è vissuto e vive, gli stessi strumenti musicali vanno dagli animali, alla terra, agli odori, alla neve e all’acqua,  un concerto che non conosce dubbi: E’ ancora sibilo di serpente nascosto:/Urlo di terra-spasimostrazio-/ trascina nel vortice sotterranei presepi/e ferisce i Santi e le cento chiese… che striscia nelle viscere e le rivolta/[10]

Le  macerie costituiscono l’atto di dolore della poesia di Giuseppe Iuliano. Su quelle pietre hanno pianto e piangono donne e uomini in lutto Quel demonio che squarcia le viscere non muore, dà terrore[11].[12] I passi non sono facili, debellare il dolore è una lotta tenace, il poeta si attacca come sanguisuga e non molla: La morte parola sempre viva/scura nera come le vesti degli uomini/era rassegnata metafora/angoscia agonia maledizione:/ Nessun libro di scuola/era memoria di Aquilonia/conta di morte e sorte/all’affanno di terra ai suoi ansimi.[13]

 Iuliano sa descrivere e cantare tutto questo. La fitta sequenza del dolore della storia la troviamo anche nelle opere in prosa  nel tentativo di porre dei punti fermi, come a volerci ricordare ciò che è stato e che i morti non vanno dimenticati. Nelle opere in prosa si esplica più che mai un progetto per il futuro, un agognare la pace, un costruire la pace. Lo scrittore di  Bisaccia Franco Erminio, anch’egli  interessante poeta  irpino, impegnato civilmente, risponde, senza infingimenti, alla domanda che gli viene rivolta sul  come  si viva da quelle parti:Penso che si viva male e che si tenta a pensare che si viva malissimo. Penso anche che a furia di rappresentarci come vittime non riusciamo nemmeno più a cogliere la lietezza quando arriva. Penso ad esempio alla notizia recente che il governo ha escluso l’ipotesi di collocare qui ( a Bisaccia)una grande discarica. Non ci sono state particolari manifestazioni di sollievo”.

 Io concordo con queste riflessioni: come in qualsiasi altro luogo della terra l’inedia, questa malattia più terribile del covid, attacca molte comunità, compito dello studioso è scuotere gli animi, agire come un vento di terra, togliere il respiro, ma vivere alfine. La  corona di  spine non   impedisce al poeta  di amare, di soccorrere, di progettare, di protestare ad altissima voce, di curare  le crivellazioni subite.

 Certo c’è da dire fino a che punto gli altri  comprendano !

Che sia anche questa  la condanna del poeta, vivere da solo con  il suo dolore e consegnarlo alle pagine dei libri?

Chi sono oggi gli interlocutori della Poesia?

 

Carmen Moscariello

 



[1] Sciami e formiche (dal sottotitolo)

[2]Giovanni  Palatucci, riconosciuto Beato dalla chiesa e Giusto dagli ebrei. Salvò con lo zio migliaia di ebrei ed  è morto nel campo di concentramento di Dakau

[3] “Tantilla” di G. Iuliano, prefazione di Aldo Masullo

[4]Tantilla,,  La mia arca, pg 12

[5] Il riferimento è al poeta Rocco Scotellaro.

[6] Via Crucis, prefazione di Bartolomeo Sorge

[7] Pg 13, Via Crucis.

[8] Come un vecchio salmo, pg 7

[9] Consentitemi l’assurdo!

[10] “Duemilasedici, pg.12Sciami e formiche

[11] Sciami e formiche

 

[13] Sciami e formichye , Mileenovecentotrenta, pg7

1 commento:

  1. Mi complimento con Carmen Moscariello per questo suo post in cui la poesia viene a vivere di nuovo attraverso l'Irpinia, per mezzo del "ricordo della terra e dell’acqua che scorre nelle vene da stratificazioni antiche di sorgenti levigate e rese basaltiche dalla neve e dal freddo.".
    E' da lì, e non certo dai salotti e dalle 'vetrine' addobbate, che si deve ripartire se si vuole ascoltarne l'inconfondibile respiro. Grazie!

    Sandro Angelucci

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