venerdì 8 luglio 2022

ANNA VINCITORIO: "GERARD DE NERVAL" VIAGGIO ATTRAVERSO LA FOLLIA

 

GERARD DE NERVAL

Viaggio attraverso la follia

 

 

Dafne conosci questa romanza antica

ai piedi del sicomoro…e sotto i gelsi bianchi

sotto il lamentoso olivo o il salice piangente

la canzone d’amore che sempre ricomincia?

                                     

A J y Colonna – trad. di Walter Nesti

In un articolo di Nicola Petruzzellis da “L’Osservatore Romano” del 12 maggio 1984, facendo riferimento all’Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam, si opera una distinzione; vi sono due specie di follia: una viene dal fondo dell’averno ed è portata sulla terra dalle furie. Ad essa appartengono la guerra, la cupidigia, la turpe passionalità erotica, il sacrilegio, l’incesto, lo strazio della coscienza; l’altra, invece, libera l’anima da ogni molestia e v’infonde i più soavi diletti e potrebbe, ma non può dirsi con certezza, fare riferimento al vagabondaggio intellettuale dell’uomo di molte letture che si estrania dalle molestie quotidiane, oppure ad una sapienza riposta che ha parvenze di follia agli occhi degli stolti; ma è la sapientia Dei – di cui parlava San Paolo – un riferimento quindi allo spegnimento delle passioni del copro e risorgere a una nuova vita. “L’eterna felicità” riservata da Dio a coloro che la amano. Fede e cultura integrate in una reciproca armonia…

Questa premessa può servire per introdurci in parte alla complessa personalità di Gerard De Nerval.

         Nacque a Parigi il 22 maggio 1808. Il padre Étienne Labrumie, medico, dovette, nello stesso anno, lasciare la Francia per raggiungere l’Armata del Reno in Slesia, nel servizio di Sanità. La madre, Marie-Marguerite-Antoinette Laurent segue il marito nella campagna d’Austria.

         Il 7 aprile 1810 i coniugi raggiunsero la grande armata; il dott. Labrumie è destinato all’ospedale di Hannover. Poco dopo dirigerà il nosocomio di Glogau. Qui, la moglie appena venticinquenne contrae una febbre delirante mentre attraversava un ponte disseminato di cadaveri, e muore il 29 di novembre. Gerard fu trasferito nella casa di un prozio materno (il padre era prigioniero a Smolensk), nella zona del Valois fino ai sette anni. Una vita condizionata da isolate campagne al limitare dei boschi. La sua condizione di bambino in un ambiente intriso di leggende, dove si levavano antichi canti, circolavano credenze inquietanti. Una vita campestre tra pioppi folti e bui, specchi di acque avvolti dalle nebbie al sorgere di pallide albe. Dopo sette anni andò a vivere col padre a Parigi dove studiò, ma, nelle vacanze, tornava nel Valois. Lì, i suoi più lontani ricordi di bambino dalle gourmes tendres (le tenere gengive dei dentini di latte) e intorno a lui paesaggi infiniti intrisi di magia. Nella soffitta della casa dello zio, polverosa e abbandonata, trovò libri di scienze occulte, cabale, mitologia orientale. Un mondo, ai suoi occhi, irreale ma avvincente che in parte lo compensava della mancanza della madre della quale non conosceva il volto. Le foto, andate sperse o forse rubate. La fascinazione dell’ignoto era sempre presente nei suoi sogni. Molte immagini femminili prima vicine e presenti, poi, dissolte. Molte letture illuminate e iniziatiche: L’Asino d’oro, i pitagorici, le Diable Amoureux. Libri in cui si ritrovavano riti mistici. Il tutto accresceva le conoscenze e le fantasie di Gerard.

         L’ambiente con i suoi immobili spazi e i suoi silenzi, lo esaltava; in lui il bisogno di esplorare le anime.

         Prima dei viaggi reali lui viaggiava nei sogni e, nei sogni, immagini femminili idealizzate, sicuramente collegate alla figura materna precocemente scomparsa. Il suo volto ignoto. Gli fu detto che assomigliava a una incisione tratta da Proud’hon o Fragomard chiamata modestia, sua “fixation maternelle”. Donna amante, donna madre, donna che a lui si nega. La sua instabilità emotiva, unita a una certa curiosità, lo hanno portato a lunghi viaggi. Europa, Egitto, Oriente; poi i ritorni e mai completamente appagato. Sempre presente in lui, la fascinazione dell’ignoto che mal si rassegnava alle realtà quotidiane, sinonimo di morte. Il suo avventuroso itinerario verso l’Assoluto alla fine di tutti i sogni e dopo la discesa agli Inferi, è luce.

         Vastissima la sua opera letteraria oggetto di studio e traduzione da parte di eminenti critici[1].

         Nel tentativo di delineare la figura di Gerard De Nerval, conviene soffermarci su le figlie del fuoco. Vi troviamo varie figure femminili e le canzoni e leggende del Valois. Dai ricordi del Valois è scaturita la sua poetica che si è poi evoluta e persa negli incubi allucinanti del progressivo aggravarsi della sua follia.

         Riporto qualche frammento delle leggende e canti da lui citati.

 

Se fossi una piccola rondine!

se io potessi volare

sul vostro seno, mia bella

andrei a riposare.

Il fiore dell’olivo

da voi amato

bellezza che incanta

e i vostri begli occhi leggiadri

che tanto ama il mio cuore

bisognerà lasciarli?

 

Eccomi, alfine,

mia bella sposa

eccovi alfine legata al vostro sposo,

con un lungo filo d’oro.

Solo la morte potrà romperlo.

 

 

         Sono ingenui matrigali di cui si è smarrita la melodia ma che ben si inseriscono nella sognante terra del Valois, tra gente semplice che, al fuoco, la sera si racconta. Le arie perdute erano particolarmente belle. Spesso canti di chiesa inframezzati da canti di guerra. Si potrebbero evocare con la fantasia. Altre canzoni sono crudeli e ricordano le leggende nordiche: Odino, i Druidi, La regina dei pesci… Possiamo solo immaginare le feste paesane: compagni che passano con lunghe mazze ornate di nastri, marinai in cammino verso il fiume, bevitori dei tempi andati, lavandaie, contadine che gettano al vento frammenti di canti delle loro nonne.

         Il racconto dei suoi coinvolgimenti emotivi, è un crescendo temporale che poi sconfina nella follia più completa e dolorosa.

         Partendo dai ricordi del Valois, lui parla di un’attrice a Parigi che gli infondeva con la sua voce una beatitudine sconfinata. Un anno di muta adorazione, senza conoscerne il nome. Ebbro di un amore vissuto soltanto nel suo intimo. Inseguire un’immagine. Sul giornale, la notizia di una “festa dei fiori in provincia”. Da questo, i ricordi della terra del Valois. Una fanciullina, Silvia, portata a danzare. Lì un’altra donna, Adriana, e, nella danza, un bacio. Lui le cinge la testa con dei rami d’alloro. Ma niente succede.

         Adriana sarà consacrata alla vita monastica e in lui la visione del dolore di Silvia. L’amore per Adriana lontano nel tempo, si era acceso per la donna sconosciuta del teatro. Vaghezze d’amore che s’impadronivano di lui ogni sera allo spettacolo per poi svanire col sonno. Ancora lo scorrere del tempo; lui nuovamente a Loisy nel Valois. La festa, col cesto dei fiori e il barcone che lo trasportava. L’incontro con Silvia adulta. In lei il ricordo del passato dolore e il diniego a un bacio di Nerval. Un amore che non era mai stato vissuto. Sogni inseguiti senza realizzarsi. I due volti, di Adriana e Silvia, ideale e realtà ma niente di concretizzato.

         Poi il viaggio in Italia e in battello verso Napoli; incontro con una donna un po’ fattucchiera, un po’ indovina. Su un tavolo un Trattato della divinazione dei Sogni. La donna inizia a parlare con sillabe sonore, gutturali gorgheggi che infondono incanto… Poi sembra tutto svanire. Sogno o realtà? Si delinea un’altra figura: Ottavia, lontana nel tempo e nello spazio. Poi, le descrizioni di Nerval di feste allestite all’interno di Pompei. La casa delle vestali con le sue danzatrici. L’incenso odoroso che fumava sugli altari…

         Ancora viaggi. Vienna e lì la bella Pandora: “Né uomo, né donna, né androgino, né fanciulla, né giovane, né vecchia, né casta, né folle, né pudica ma tutto questo insieme”[2].

         Nerval accettato da lei solo con un abito nero da prete e la promessa di un giro in carrozza nel Prater…

         Nella parte finale delle Figlie del fuoco, Nerval parla del sogno, inteso come seconda vita. I primi istanti sono immagini di morte, bizzarre apparizioni. Il mondo degli spiriti si spalanca davanti ai suoi occhi. Ha inizio la descrizione della sua lunga malattia. Ancora una donna, da lui chiamata Aurelia e la descrizione del dilagare della sua follia. Vibrazioni nel petto, l’anima che pareva sdoppiarsi tra visione e realtà. Ai suoi occhi figure fantastiche o reali, prima, integre, poi frantumate in schegge di un enorme specchio. 

         Tutto intorno a lui mutava forma. Visioni: un bambino che giocava per terra con cristalli, conchiglie, pietre… Giovani sconosciuti tutti vestiti di bianco… Voci vibranti, melodiose, della lontana infanzia. Alternarsi di luci e ombre. Ancora voci che dicevano: “L’universo è nella notte”. E, a un certo punto, la certezza al risveglio dall’incubo che qualcosa di terribile era successo: Aurelia era morta[3].

         Il ricordare un anello a lei donato. Troppo grande per il suo dito. Il rumore della sega che lo tagliava, in lui generò la visione di una colata di sangue. Una serie ininterrotta di strane visioni. Lui vedeva in sé il suo spirito sdoppiarsi. Il buono e il cattivo genio. Tutti e due uniti in un medesimo corpo. Nelle sue crescenti allucinazioni: spiagge ricoperte di canne verdastre, disseccate da un sole che lui non riesce mai a vedere e poi il riaffiorare del volto di Aurelia ormai perduta e prigioniera del mondo dei morti. Tutte queste visioni che si susseguivano nel sonno lo portavano alla disperazione. Le sue parole ad un amico che gli chiedeva che avesse: “Non lo so, sono perduto”.

         Ricoverato alla Maison Dubois. Effimeri miglioramenti, poi nuovamente visioni e follia. Hospice de la Charité. Delirio, la camicia di forza. La sua vita in una stanza in fondo a un corridoio abitato da un lato dai pazzi, dall’altro dai domestici. Solamente una finestra aperta su un cortile alberato. Dimesso dall’ospedale tornò per l’ultima volta sulla tomba di sua madre e, pochi mesi dopo, il 26 gennaio 1855 fu trovato impiccato in rue de La Vieille lanterne a Parigi.

         I sonetti della raccolta Les Chimères, sono considerati i più belli della lingua francese. Il loro fascino e la loro fortuna è dovuto all’essere oscuri ed ermetici. Fascino, musicalità, mistero. I critici hanno definito la sua poesia “alchemica”. Penso di inserirne alcuni. Sono raffinate e coinvolgenti traduzioni dalle Chimere di Walter Nesti.

EL DESDICHADO

 

 

Sono il tenebroso, il vedovo, l’inconsolato,

il principe d’Aquitania dalla torre abbattuta

morta è l’unica stella mia e il mio liuto stellato

diffonde il sole nero della malinconia.

 

Tu che nella notte sepolcrale m’hai consolato

restituiscimi Posillipo e il mare dell’Italia,

il fiore preferito dal mio cuore straziato,

e la pergola che attorciglia il pampino

                                               alla rosa.

 

Sono Amore o Febo?…Lusignano o Birone?

Ancora la mia fronte scotta del bacio della

                                                        Regina;

ho sognato nella Grotta dove nuova la Sirena…

 

E per due volte vincitore l’Acheronte ho

                                                        guadato

sulla lira d’Orfeo di volta in volta modulando

i sospiri della Santa e le grida della Fata.

MIRTO

 

 

Mirto a te penso divina incantatrice,

a Posillipo altero, da mille fuochi acceso,

alla tua fronte invasa dalla luce d’Oriente,

all’uve nere avvinte all’oro delle tue trecce.

 

Nella tua coppa ancora l’ebbrezza avevo

                                               attinto,

e nel furtivo lampo dell’occhio tuo ridente,

quando ai piedi di Giacco pregare mi vedevi,

ché la Musa mi fece della Grecia suo figlio.

 

So perché laggiù il vulcano si è spalancato…

ieri tu lo sfiorasti con l’agile tuo piede,

e l’orizzonte di cenere di colpo s’è oscurato.

 

Da quando un duca normanno i tuoi dei

                                      d’argilla infranse,

sempre sotto le fronde del lauro di Virgilio,

l’esangue ortensia s’unisce al mirto verde!

HORUS

 

 

Il dio Knepp tremando scrollava l’universo:

Iside, la madre, allora dal giaciglio si erse,

allo sposo brutale inviò un gesto ostile

e l’ardore d’un tempo scintillò nei suoi

                                               occhi verdi.

 

“Guardatelo” lei disse “muore il vecchio

                                               perverso,

il ghiaccio del mondo intero passò dalla sua

                                                        bocca

incatenate il piede storto, spegnete l’occhio

                                                        losco,

è il dio dei vulcani e degli inverni il re!”

 

“L’aquila è già passata, m’invita il nuovo spirito

la veste di Cibele per lui ho indossato…

è il figlio tanto amato di Ermete e di Osiride!”

 

La dea era fuggita sulla conca dorata,

il mare rifletteva la sua immagine adorata

e scintillavano i cieli sotto la sciarpa d’Iride.

ANTEROS

 

 

Tu domandi perché ho tanta rabbia in cuore

e un’indomita testa sul collo flessuoso:

è perché discendo dalla razza d’Anteo,

che i dardi miei invio contro il dio vincitore.

 

Sì, appartengo a coloro dal Vendicatore

                                               ispirati,

la fronte m’ha marcato col suo labbro irritato,

sotto il pallore d’Abele ohimè insanguinato,

e di Caino talvolta ho il rossore implacato!

 

Geova! L’ultimo dal tuo genio domato,

che dall’inferno profondo gridava “Oh

                                               tirannia!”

era l’avo mio Belo o Dagone mio padre…

 

Tre volte mi hanno immerso nell’acque del

                                               Cocito,

e, mia madre Amalecita da solo proteggendo,

ai suoi piedi risemino i denti del drago antico.

DELFICA

Ultima Cumaei venit jam carminis aetas.

 

 

Dafne, conosci quella romanza antica

ai piedi del sicomoro… o sotto i lauri bianchi

sotto l’olivo, il mirto o il salice piangente

la canzone d’amore che sempre ricomincia?

 

Il Tempio riconosci dal peristilio immenso,

e gli acidi limoni con l’impronta dei tuoi denti

e la grotta funesta per gli ospiti imprudenti

dove del vinto drago dorme l’antica semenza?

 

Gli Dei ritorneranno, che sempre tu rimpiangi!

Il tempo riporterà l’ordine dei giorni antichi,

la terra ha trasalito al profetico vento…

 

Frattanto la sibilla dal latino sembiante

è ancora addormentata sotto l’arco di

                                               Costantino

e nulla ha disturbato il portico severo.

ARTEMIDE

 

 

La Tredicesima torna… È ancora la prima;

ed è sempre la Sola, – o è il momento solo;

poiché Regina sei tu! La prima o l’ultima?

E tu sei Re, il solo o ultimo amante?…

 

Amate chi vi amò dalla culla alla bara;

colei che sola amai teneramente ancor mi ama;

è la Morte – o la Morta… O delizia, o tormento!

La rosa che lei porta è la Malvarosa.

 

Santa napoletana dalle mani incendiate,

rosa dal cuore violetto, di Santa Gudula fiore:

la tua Croce trovasti nel deserto dei cieli?

 

Cadete rose bianche! Voi i nostri Dei

                                               insultate,

bianchi fantasmi cadete, dal vostro cielo in

                                               fiamme:

– La santa dell’abisso ai miei occhi è più santa!

TESTI CONSULTATI:

 

Le Figlie del fuoco – La Pandora – Aurelia – Introduzione di Vincenzo Cerami. Traduzione di Renata Debenedetti – Garzanti ed. 27 ottobre 1983.

 

Le Chimere e altri sonetti. Traduzione dal francese di Walter Nesti (fondatore e direttore della Rivista Pietra Serena con cui ho collaborato per diversi anni). Prefazione di Pier Luigi Ligas (docente di francese presso l’Università di Verona) – Tascabili Bonaccorso – marzo 2005.

 

Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam a cura di Nicola Petruzzellis – Mursia Editore 1966 Milano.

 

 

                                                                           Firenze, 25 aprile 2022

                                                                                     Anna Vincitorio



[1]      Delle sue traduzioni italiane, tra le molte, ricordiamo Le figlie del fuoco trad. e pref. di Oreste Macrì – Modena 1942 e 1979 – Milano – Guanda e i sonetti Le chimere

[2]      Riferimento all’enigma inciso sulla pietra di Bologna.

[3]      Si trattava di Jenny Colon, sua donna realmente amata che morì il 5 giugno 1842.

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