Nazario Pardini
Natale 2024
E ti rivissi, vita,con un sentire lieve e tanto amato che in ogni fatto lieto o meno lieto,ma scampato, vidi un superbo dono
Nazario Pardini
Natale 2024
"...L'occhio tuo fondo gli hai posto nel cuore
Cinzia Baldazzi e Omar
NATALE
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare
Giuseppe Ungaretti
Natale, che
bello! Lasciarsi immergere tra la folla nel «gomitolo / di strade» romane,
illuminate a giorno tra piazza Esedra e l’Esquilino, fino a viale Manzoni dove
siamo stati accolti con stelle raggianti e festoni nel locale dell’amico
egiziano Omar Ibrahim, con insegne natalizie esibite a lato dello schermo sintonizzato
su un’emittente de Il Cairo.
Tra le luci chiare
del passato, prevalgono i guizzi del camino incorniciato di marmo rosato nella
casa paterna: a mezzanotte, aspettando Babbo Natale, lo abbiamo acceso, così le
«capriole di fumo» hanno discretamente occupato il salone con un «caldo buono» adeguato
a evocare il tepore suggerito da Giuseppe Ungaretti (nato nonché cresciuto ad
Alessandria d’Egitto) quando, ospite a Napoli nel vasto appartamento dell’amico
avvocato, critico e ispanista Gherardo Marone, scrisse la poesia. Era la sera
di Santo Stefano del 1916, a circa un anno dall’inizio della sua esperienza bellica:
«Il primo giorno della mia vita in trincea: e quel giorno era l’alba di Natale
del 1915, e io ero nel Carso, sul Monte San Michele».
La festa dedicata
al Bambinello, preferita in assoluto da molti di noi cristiani, nulla sottrae
alla felicità attinente la Pasqua (in ebraico pesah, in aramaico-giudaico
pisḥā) di Resurrezione: ciò nonostante, il 25 dicembre del 1965, da fanciulla
di dieci anni, lo ricordo meglio degli altri poiché, per cattiva sorte, lo
festeggiavo senza la mamma, scomparsa da alcuni mesi. Del resto, il secondo Natale
di Gesù (Hamolad, מולד, in ebraico) attuale nella memoria l’ho vissuto ormai
da adulta, insieme alla famiglia, nell’occasione in cui abbiamo addobbato con il
tradizionale impegno l’albero scintillante. Ma mio padre era mancato da appena
una settimana.
Mentre nel
microcosmo infantile elaboravo un grave lutto personale, magari penserete, intorno
regnava un contesto pacifico, di condivisione del dolore privato e, sebbene
colpita duramente in quanto divenuta orfana di madre, non conoscevo la guerra a
causa della quale, lo afferma il re Creso nelle Storie di Erodoto, sono
i genitori a seppellire i figlioli, non il contrario: come toccherà, benché in un
periodo di pace, al nostro poeta nel 1939 con il piccolo Antonietto annientato,
nella sofferenza, da un’appendicite mal curata. Dunque, ancora oggi, alla Nativitas
Domini, per chi soffre è opportuno celebrare la nascita di un figlio che
non morirà, anzi, sussisterà in eterno essendo «della stessa sostanza del Padre»
creatore del tutto, pertanto anche della fatidica vita-morte.
Ungaretti, in
ogni caso, sarà sempre espressione suprema dell’amore, e lo scatto dei sensi, forse
in virtù dell’adolescenza trascorsa nella mediterranea Alessandria, persisterà nel
ruolo di traccia costante nella sua potente partecipazione spirituale all’hic
et nunc immanente, come pietas religiosa, trasporto sentimentale, eventuale
rinuncia a un ambito dal quale non vorremmo allontanarci: un’autentica pax,
ovvero tranquillità totale, ai limiti dell’inamovibile, analoga a quella tipica
di «una / cosa /posata / in un / angolo / e
dimenticata», priva di affanno, accanto a lui, con «tanta / stanchezza/ sulle
spalle».
Nel 1925,
distante dal conflitto mondiale, nella raccolta Sentimento del tempo
l’attaccamento di Giuseppe Ungaretti a una simile cosalità instancabile,
separata dal male, persino dall’odio fraterno, si ripropone nella
manifestazione della fatica, dello sfinimento, nella terzina conclusiva di Ogni
grigio: «Come una fronte stanca / è riapparsa la notte / nel cavo di una
mano».
In breve, è di
nuovo “notte”, con le sue tenebre buie e ghiacciate, destinate ad assistere all’esordio
terreno di un pargoletto temuto nella misura che, allo scopo di eliminarlo, vengono
uccisi centinaia di neonati compianti da madri disperate, e non collocati in un
«angolo», dimenticati, al pari di giovanissimi commilitoni
del poeta, gettati al freddo nel fango della trincea, lasciati a morire in un
penoso anonimato.
Ha ragione
Ungaretti: il «caldo» all’humanitas sembra ovunque «buono», poiché, al
di fuori del chiasso e dei bagliori sgargianti, proviamo il bisogno di
protezione, di tiepidezza, in grado di favorire la coscienza di vivere, con il cuore
mentre batte, le mani strette ad altre. Purtroppo, l’epilogo del brano offre
solo un tepore di fiamma, in un interno domestico, capace di confortare il
soldato in licenza, condotto comunque a riflettere sul gelo sopportato sulle cime
del Carso e su quanto ancora ne patirà nell’inverno da poco iniziato.
Una tale consapevolezza
permette di proseguire il leitmotiv autobiografico passando alla seconda
ricorrenza del Χριστούγεννα (Cristughènna) impressa nell’anima. Era il
dicembre del 1995, quando papà morì: allora sapevo in cosa consistesse la
guerra, oltre al terrorismo, e la pace legata alla Natività ispirava una cognizione
specifica. Benché fosse lontano il dramma degli attentati su scala globale dell’estremismo
islamico e medio-orientale, ero immersa, ripetutamente turbata dagli eccidi compiuti
nel paese natìo di Ἰησοῦς-Iēsoûs (in greco biblico; in aramaico: יֵשׁוּעַ-Yeshu’a),
nella Palestina di Betlemme dove Maria e Giuseppe erano in viaggio per
adempiere al censimento indetto dal governatore romano.
Nel Vangelo di
Luca compare l’inospitale “mangiatoia” ma, dal IV secolo in poi, negli
affreschi medievali o nelle vetrate delle chiese, ecco scaturire il «caldo
buono», intento a mantenere in vita il Messia, proveniente dal respiro di un bue,
di un asino. Per alcuni studiosi, il simbolismo degli animali nella capanna trasmette
un segnale dell’incarnazione di Dio, anteriore all’arrivo dei sovrani
Melchiorre, Gaspare, Baldassarre e ai pastori: costoro, impegnati nel pascolo
di pecore e capre, di rado mucche, rappresentano la gente comune. Ai ποιμένες-poimènes,
in Luca, l’angelo aveva annunciato in tono solenne: «Oggi,
nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore»
(2,11). Ai pastori sono offerte notizie che conosciamo: il che cosa (è nato),
il quando (oggi), il chi (Salvatore, Cristo, Signore), il dove (nella città di
Davide). Senz’altro avrebbero potuto trascurare il messaggio, invece l’hanno
ascoltato e divulgato, e chissà, anche da lì discende l’associazione a considerare
i “pastori evangelici” incaricati, oltre ad altre funzioni, di predicare.
Da parte mia (all’epoca
quarantenne) ricordo quanto, insieme a tanti, nelle luci-ombre delle luminarie,
le statuette dei mitici re Magi consentissero la speranza in una tregua
duratura del conflitto medio-orientale: infatti, nel Vangelo di Matteo, in
seguito nella tradizione cristiana, tre sovrani giunti dall’Asia, Europa e
Africa resero omaggio al neonato ciascuno recando in dono gli emblemi di potere
del popolo di appartenenza.
Certo, Giuseppe Ungaretti
immaginava che quel fulgore di gloria, di un protettivo calore mansueto,
sarebbe ben presto svanito perché, proprio a causa della visita dei Magi, Erode
venne informato sul luogo di nascita del “re dei Giudei” (βασιλεὺς τῶν Ιουδαίων,
basileus tōn ioudaiōn): avvertito in sogno da un angelo, Giuseppe, padre
putativo di Χριστός (Cristòs), riuscì però a mettere in salvo la
famiglia entrando in Egitto da Pelusio, percorrendo la costa a partire da Gaza.
Nel riprendere il
discorso su Ungaretti volontario nell’ostilità tra l’Italia e l’Austria-Ungheria,
a ventisette anni fu assegnato al 19o Reggimento di Fanteria della
Brigata “Brescia”, di stanza sul fronte del Carso, uno dei simboli della Grande
Guerra. Nel 1921, il governo italiano decise di affidare il compito di
scegliere tra undici caduti il corpo del Milite Ignoto a Maria Bergamas, madre
di un volontario irredentista di Gradisca d’Isonzo, e dal Carso la salma intraprese
il cammino verso la Capitale.
Una mamma,
dunque, come Maria di Nazareth, la mia e soprattutto quella del nostro autore, Maria
Lunardini, alla quale in Sentimento del tempo è riservata un’elegia per
celebrarne la morte risalente al 1926. Nella terza strofa, a mostrare
stanchezza questa volta sono, tremanti, le «vecchie braccia» alzate dalla donna
prima di spirare. Perfino lei gode di un’immobilità cultuale: appare «una statua
davanti all’Eterno», di conseguenza un oggetto (di matrice superiore:
artistica), una «cosa» refrattaria al deperimento umano, al punto che solo se il
Signore avrà perdonato il figlio, lei vorrà guardarlo. D’altronde, nell’iconico
abbraccio liberatorio trapela lampante la presenza di una percezione del tempo
lungo e doloroso da trascorrere, nonostante tutto “umanamente” subìto: «Ricorderai
d’avermi atteso tanto, / E avrai negli occhi un rapido sospiro».
Sarà il caso di aspettare insieme un futuro Natale di pace.
Credo,
semplicemente, come autore ma soprattutto come uomo in una parola e in un
ascolto che sia al centro delle cose e del mondo, a partire dunque dalle
dinamiche che ci determinano a noi stessi e agli altri. Soli non siamo nulla,
mi ripeto e avverto continuamente. Soli non ci salviamo. E se la verità
dell’uomo è nella condivisione, la natura e la forza di ogni vera poesia è dare
dignità e racconto a questo vincolo fatto del medesimo respiro e del medesimo
tormento. Io provo a muovermi in questa direzione, conscio della cura e
dell’amore ma soprattutto della responsabilità che abbiamo negli accenti che
andiamo a riporre nel percorso. Nessuna parola è neutra, e la parola poetica ce
lo ricorda ogni giorno traendo proprio da qui il suo germoglio principe. Lo
sguardo nuovo che andiamo ad aprire, infatti, non deve incrinare la fede del
mondo ma rinsaldarla, farla tornare alla luce proprio dove manca: nella carità
e nella prossimità, là dove davvero noi solo siamo. Fede nell'altro e nel mondo
la cui misura nell'aderenza alle sofferenze del quotidiano personalmente nasce,
va alimentandosi e si interroga all'interno di una Parola più alta. In quella
radice di sé che ha nella creaturalità il suo riconoscimento, persona e parole
allora figlie stesse di una incarnazione che non cessa di interrogarci, di
metterci in crisi nelle nostre risonanze di perdita. È proprio all'interno di questa crisi però
, resto convinto, la possibilità più forte per quanto di umano ci è dato per
una risposta senza infingimenti- senza vie di fuga- per un racconto di un tempo
che procede per cancellazioni e negazioni quando non per conflitti. Una misura
che se di qui pertiene- e avviene- non può per quanto mi riguarda non muoversi
per sottrazione nell'affondo scarno a levigare, a scrostare dal peso di tutto
ciò che della terra ne comprime il respiro, la sacralità come detto nella
direzione della vita. La mia attenzione tra l'altro a porre maggiore attenzione
ai timbri etici e civili della poesia (sempre nella sua sottolineatura-
purtroppo non ricordo di chi- di nostalgia di Dio della terra). Incisioni-
preghiere- queste che hanno dei luoghi e dei cuori specifici, naturalmente, e
che nei miei versi sono per lo più quelli di Roma, la mia città, oltre che del
mio paese certo in accostamento alle dinamiche ora incalzanti ora sfuggenti che
vanno risucchiandoci. Ed allora la mia, anche per questo richiamo a una
continua spoliazione ad essere prima che autore un uomo migliore, oltre che
innamorata (prendendo a prestito il termine dalla nota antologia di Pontiggia e
Di Mauro) posso e voglio definirla una parola grata, e viva proprio là dove è
possibile, insieme, il rinominarsi e il ricominciare sempre.
Gian Piero Stefanoni
La costanza del cielo di
Gian Piero Stefanoni, Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2024
I
versi di Gian Piero Stefanoni si susseguono tenui in filigrana alla trama
segreta dei silenzi, sottratti alla frenetica giostra dei giorni, sussurrati
come sospiri che affiorano sull’orlo degli abissi: “Sacro perché ti guarda, /
perché è guardato il silenzio / che è in te dalle cose.” (Sabato); “Nella
costanza dei morti, / nel loto tornare e aggiungerti al numero, / giunge poi al
tempo del sogno degli altri, / della spinta che il mondo ti chiede, / dell’alba
dispersa nei mondi ormai muti. / Giunge poi il tempo infestato dalle scimmie, /
della casa bendata, delle mura bagnate. / Giunge poi il tempo in cui finalmente
ti trovi.” (Il sogno degli altri). Ora sono lutti non mai sopiti che galleggiano in
superficie: “La rosa dello spoglio dolore / non s’incurva, non recita / nel
buio la propria iconoclastasi. / Ma crede – come io credo - / nel ferito
splendore che dà luogo / alla forma, al ritorno d’impasto / che s’infibra nello
stelo. / Abbiamo braccia, abbiamo mani / nel patire e morire insieme del padre.”
(Non s’incurva); “La povertà della luce senza immagine, / la madre sola
a dare figura. / Ma i portatori di fiori / nella superficie dell’assenza /
restituiscono ciò che il sole nasconde / e resta nel conversare del buio. / Lo
devi sentire, lo devi pensare / l’arrivo, il suo ritorno / nello scioglimento del
ghiaccio. / Noi non vediamo tutto.” (La povertà della luce).
Sono
rêveries amorose appese agli sguardi fugaci, intercettate da divini
misteri: “Ma arrotonda il frammento / al compimento, sfugge alla morte, / all’idea
che ha di sé: sempre / del presente l’amore.” (Campanule); “Comporta un
peso quest’ombra leggera / che si distende nel mare. / La terra, come gli
amanti, non è sola / nella finitudine della forma. / Esclama e riapprende da
una parola non sua. / L’amore il perché dell’amore. / L’amore il mattino dei
corpi.” (Lessico madre).
I
paesaggi sono i naturali sfondi degli stati d’animo, messaggi cifrati che
alludono ad un altrove:
“-
e il mare / non ha confini non accettando più di bussare. / Così, nel sonno,
sei ancora tu l’intruso, / l’occhio lungo la spina di pesce, la notte / senza
riflessi nel giorno che cede alla sete.” (Tutti gli addomesticabili mondi);
“Perché per questa partecipata terra / quest’alito breve, questo profumo / al
termine della salita che apre all’azzurro / nell’immagine scoperta dell’uomo. /
Perché ancora chiede e dà vita / nell’idea dell’acqua la viola del giorno, /
nello stelo la mano rupestre, lo sguardo eretto / che chiama ogni ora nel volto
/ alla ragione dell’altro.” (Salite).
Sono
flebili singulti di dolore che scavano voragini sulla faccia della terra,
rintocchi sommessi dalla notte alle porte dell’aurora: “Ha una doglia lo
sguardo / della luce sulla terra / non rincorre albe / nel volo di notte dell’uccello.”
(Doglie).
Un
furtivo straniamento sradica dalle rassicuranti certezze, mentre si è sospesi
sul confine tra la vita e la morte: “Non è di nessuno questa terra, / questo
battesimo / ma il colpo batte il confine, / il lago sembrando fango / nella
nostra interpretazione del sangue. / All’occhio insiste ancora, / bussa alla
porta / la frattura dell’ombra, / la mai sopita negazione / in nome del padre.”
(La fodera, per Czeslav Misloz).
“Il
cacciator di fede” fruga tra “le ombre del giorno” per scovare “la cellula
versata”, la perla rara deposta dal mare della vita sulla sponda dell’Eternità.
Tuttavia, non riesce a passare il guado, a spiccare il balzo verso l’altra
riva dove arride il sole: “Tu credi ma il vento / in te non può riposare / né
adagiarsi la nuvola / o l’albero finalmente / alla sua maturata infanzia / dare
respiro nel piccolo nido. / Tu credi ma non riesce / a passare / basso allo
sguardo / il sole, l’oriente.” (Tu credi). L’anelito religioso insorge
dal sepolcro del passato: “Perché un inizio questo Dio di pietra, / un inizio
questa visione del tutto / che lentamente nella separazione ci consuma.” (Del
cuore). Il divino tesse l’armonia tra cielo e terra nel canto unanime della
creazione: “Quale parola dice la paura, / quale la nasconde? / Non è umano
questo premere / senza toccare e che chiede l’assenso / nella conta dormiente
degli angeli. / Non è da Dio il tormento, / la divisione della luce, l’impaziente
/ sottrazione delle orme. / È scritto infatti – l’uomo alla fine del cielo, /
il salto alla fine dell’acque.” (Quale parola). Gli oppressi sono gli
interlocutori più vicini a Dio, capaci di schiudersi all’annunzio angelico del Kerigma:
“E li vedi ogni anno / sempre più piegati fino a toccare la terra, / gli occhi fissi,
la bocca aperta al ruminare del cielo. / Ma poi passi / e dimentichi il velo,
dimentichi la veste, / l’odore dell’agnello nella tosatura delle mani.” (Kerigma).
L’anima è lago di luce che affluisce dalla sorgente perenne dell’amore: “Siamo
quasi arrivati / ma abbiamo smesso di andare / mentre scendeva la luce sulla
terra. / Così se non trovi l’infezione / cura lo stesso, bel limite dell’amore,
/ nel tema degli occhi. / Quest’anima sei tu, l’elemento / tagliato, la variante
che nessuno / considera nel compagno lasciato / solo – noi di qua lui di là - /
nel tuo povero tempio.” (Siamo quasi arrivati).
Eppure
sottentra anche una vocazione all’abisso, ai fondali sommersi dell’essere: “Su
questa terra dove è stato posto il pozzo / nel punto esatto dove il padre non
ha potuto frenare / come stelle perturbate all’approdo / ruotiamo attorno nell’ignoto
della riserva / dentro a quel grido che a quell’abisso ci chiama. / Danza
finché cade nel sabato, nella rimessa / ogni sette giorni del fango, l’oscurità
rivelata dal volto, / il silenzio delle statue nella bocca dei piccoli.” (Danza
finché cadi).
La
poesia è un respiro che avvolge tutte le cose: “È la politica del gesto / che
fa il frammento, il mondo / che si percepisce al suo passo, / l’ordine della
poesia nella preghiera” (La politica del gesto).
L’autore
rivolge lo sguardo anche alla realtà più cruda, come in Non resti insepolto
Caino, ove forse solo il cuore di un poeta sa indulgere ad uno sguardo di
compassione e intonare un requiem a chi muore sotto il segno dell’estrema
solitudine e maledizione, come Cristo sulla croce: “Chi piangerà adesso questo
ragazzo? / Quale latte di padre o di madre / lo nutrirà, la gola stretta, il
nodo teso? / Quale terra, quale mano lo accompagnerà / finalmente a una pace di
acque e di parola? / Quale luce? / Avvolgetelo, lavatelo, sia per lui carezza.
/ Non ha odi il Dio senza oscurità.” (Per Jabar Al Bakr, rifugiato siriano,
morto suicida nel carcere di Lipsia il 12 ottobre 2016).
La
condizione ontologica dell’uomo è segnata da un’originaria ferita fin dallo “strappo
sanguinoso della nascita” – secondo l’icastica definizione della Morante -: “Svegliato
e bagnato dal sole / al riflesso breve del mistero, / l’Uomo strappato al suo
posto. / Appena nato al corpo denso dell’asfalto / ha il grumo lieve della
madre; / non geme, non ha richieste / nel torpore acceso della ferita.” ((Re)Incarnazioni).
La
bellezza celeste sovrasta con la sua trascendenza divina l’umanità frale: “Ma
il mondo a sé rivolto non muta, / non dà pace, tutto occultando, / tutto
spegnendo nell’ispirazione sorda, / nel desiderio scevro. / Il cielo non è uno
spazio, la rosa / una facile voce nell’ipotesi divina.” (Dorsali); “Prende
bagliore dai corpi / l’inavvertita altezza dell’arca, / il libero azzurrarsi
del tramonto / nel profilo dorato del salmo.” (Non cede bel passo, s’illumina).
Gian
Piero Stefanoni in questi testi si effonde in meditazioni profonde,
raggiungendo esiti di intenso lirismo: “Sanno prima del buio la chiamata nuda,
/ l’offerta dell’azzurro.” (Prima del buio).
La
costanza del cielo è
il permanere del bene sopra la terra, nonostante noi, un seme di luce incastonato
nell’anima che silenziosamente fiorisce “e diventa un albero, tanto che vengono
gli uccelli del cielo e si annidano tra i suoi rami” (Mt 13,32): “Prepara al
silenzio e al fiume / la parola nel greto che guarda al fiorire / Ancora si
specchia, ancora ci segue: / più forte il dolore screpolato alla terra, / sa
della luce l’esercizio, il cadere dell’ombra.”; “Sa da dove il frutto / è fatto
opera, di quale annuncio, / di quali scaglie l’ombra ora riluce / nello strappo
di vita delle forme. / Sa per femminile trasparenza / la visione dell’ultimo
nato, / sul ramo la costanza del cielo che non cede.”
Flavia
Buldrini
CAMPANULE
Il sole non riesce a vedere,
il sole non riesce a spingere.
Ho freddo dice il corpo
ad un pensiero che non si
basta-
irriflesso e solo- allo
splendore
fermo delle campanule.
Ma arrotonda il frammento
al compimento, sfugge alla
morte,
all'idea che ha di sé: sempre
del presente l'amore.
All'inizio, all'inizio di questa storia, non certo all'inizio di tutti i tempi, troviamo tre dei più conosciuti eroi della guerra di Troia beatamente rilassati e sdraiati sull'erba di un prato in prossimità di un fresco ruscello.
Intenti ad un meritato riposo, due giorni di ferie, tra una battaglia e l'altra di quella annosa guerra.
Achille, Ulisse e Patroclo. Ah, già! C'era anche un altro: Parmenide, un famoso filosofo.
I quattro (ma Parmenide non è che partecipasse molto) quel giorno erano immersi in una animata discussione sull'inizio.
Ma non sull'inizio della guerra di Ilio, sull'inizio dei tempi.
Il colto e furbo Ulisse, spiegando in che modo qualcosa fosse venuta all'esistenza, ad un certo punto disse: “Dobbiamo ad Esiodo le notizie sulle divinità primordiali. Egli ci parla infatti di come all'inizio di tutto ci fosse solo il Chaos, massa confusa e informe che non era ancora nulla se non solo un peso inerte ammasso nello stesso tempo di molteplici germi degli elementi delle cose, senza legami tra di essi. Notate bene, amici miei, che il resoconto di Esiodo non implica che qualcosa sia creato a partire dal nulla: c'era della materia, ma essa era ancora senza una vera forma.
Questa divinità primordiale, il Chaos, non ha niente di umano. Non un corpo, non un viso, nessun tratto del carattere. Un abisso, nel seno del quale non si scorge nulla di identificabile: nessun oggetto, nessuna cosa che si possa distinguere nelle tenebre assolute che regnano in quello che è semplicemente un totale disordine.
Dalla materia informe appare però, ad un certo momento, Gaia, la Terra, il suolo fermo sul quale può svilupparsi la vita. Come è nata Gaia? Per una sorta di miracolo, un avvenimento primordiale e fondante. E, sicuramente per spiegare questa apparente contraddizione logica, appare poi il terzo dio: Eros, l'amore ma soprattutto il desiderio.
Come Chaos, egli è un dio ma non una persona. Si tratta piuttosto di un improvviso zampillo che fa nascere e crescere gli esseri. Un principio di vita, una forza vitale.
Il suo compito è quello di far passare dalle tenebre alla luce tutte le divinità a venire”
Ulisse si azzittì.
“E poi, cosa è successo?” chiese Patroclo.
“L'essere è, il non essere non è” affermò gravemente Parmenide.
“Il resto lo conoscete: per partenogenesi Gaia dà alla luce Urano e unendosi poi con Urano genera i 12 Titani, tra i quali Crono e Rea. Dall'unione tra Crono e Rea nascono sei figli, tra i quali Zeus, signore dell'Olimpo, e Era, sua moglie e sorella”.
Giunti a questo
punto della loro discussione sulla nascita delle cose, alla quale Parmenide
aveva contribuito unicamente con quattro interventi per ribadire che l'essere è
e il non essere non è, tutto l'interesse dei tre valorosi guerrieri si
focalizzò sulla natura fondamentale, sull'essenza ultima del creato.
Ulisse passò in rassegna le variegate opinioni al riguardo, partendo da quella di Talete, secondo il quale il primo principio è l'acqua, passando per quella di Anassimandro, che dice che il principio non è né l'acqua né un altro dei cosiddetti elementi ma un'altra natura infinita, l'apeiron, dalla quale provengono tutti i cieli e i mondi che in essi esistono, per arrivare ad illustrare il pensiero di Anassimene, che invece sostiene che l'Archè, il principio, si identifica con l'aria.
“E tu cosa ne pensi?” gli domandò a questo punto Patroclo.
“Mah” rispose Ulisse, suscitando le risa degli altri due compagni (Parmenide rimase come al solito indifferente) “Io sarei orientato a considerare la sostanza base molto più astratta di un semplice elemento fisico. Io racconterei la genesi con una frase del tipo: in principio c'era il verbo, DORMIRE. Poi il verbo si svegliò”
Ma il principe di Itaca ridivenne subito serio e continuò l'excursus: “In tempi recenti le opinioni sull'Archè si sono ridotte essenzialmente a due. La prima è sostenuta dal qui presente Parmenide, che afferma che la realtà è immutabile, non cambia, è data una volta per tutte. Che se potessimo guardare lo svolgersi degli eventi da un punto privilegiato, come quello degli dei sull'Olimpo, vedremmo che le cose succedono perché devono succedere, che tutto è già scritto una volta per sempre, niente cambiamento, niente divenire, l'essere semplicemente è. Dico bene, Parmenide?
La risposta che diede quest'ultimo è facile da indovinare “L'essere è, il non essere non è”
“A me, sinceramente, sembra un po' scemo” fu il commento di Achille, un commento poco diplomatico.
“No, tutt'altro. Ma soffre di autismo” gli fece eco l'eroe di Itaca, che continuò dicendo:
“Di avviso opposto è invece Eraclito, la cui più celebre frase è: non si può discendere due volte nel medesimo fiume. Intendendo lo scorrere dei fiumi come una metafora del passare del tempo. Ogni momento è unico ed irripetibile, ogni istante è irreversibile, non te ne capiterà mai più uno uguale. Achille, se tu ti immergessi lì, in mezzo al fiume, per fare un bel bagno stando attento a non ferirti il tallone con i sassi sporgenti, mezz'ora dopo, od anche solo un minuto, non potresti bagnarti con la stessa acqua, perché il ruscello scorre, come scorre il tempo di noi mortali. Panta rei, tutto scorre, dice Eraclito, tutto è DIVENIRE. Lui sostiene che il principio ultimo è il CAMBIAMENTO. Non ci si può bagnare due volte nella stessa acqua.
Proprio l'opposto dell'idea di Parmenide, per il quale tutto è ESSERE, tutto è IMMUTABILE”
Il quale Parmenide se ne uscì per confermare ancora una volta (ma scommetto che questo lo avete indovinato): “L'essere è. Il non essere non è”
“Quindi è questo il pensiero di Eraclito? Questo lui pensa? Non ci si può bagnare due volte nella stessa acqua?” domandò il pelide Achille.
“Esatto, è quello che ripete sempre. E che sostengono quelli della sua scuola filosofica, che viene dopo Talete, Anassimandro e Anassimene”
“Uhm...” fece Achille, mettendosi a riflettere intensamente, per poi chiedere ad Ulisse: “A che velocità scorre il fiume?”
Ulisse, dal sopraffino ingegno, prese un ramoscello e lo gettò proprio in mezzo al ruscello, spiegando: “Contiamo ora insieme.... uno... due... tre... quattro... cinque...sei. Ci ha messo sei secondi per arrivare a quella grossa pietra che sporge dall'acqua laggiù. Ora misuriamo quanto dista da noi “Uno, due............ ecco: 36 passi. Dunque la velocità è di 36 diviso 6, cioè sei passi al secondo. Sono astuto, io!” concluse Ulisse.
“Bene” approvò Achille che immediatamente dopo si tuffò nel fiume, uscendone subito e mettendosi a correre a perdifiato urlando “Raggiungetemi 1000 passi più a valle! A più tardi!”
E dopo alcuni minuti Ulisse e Patroclo, ma anche Parmenide, si spostarono più in basso di mille passi (noi diremmo un chilometro), dove trovarono ad aspettarli nel bel mezzo del fiume, con l'acqua all'altezza della vita, un trionfante Achille.
Quest'ultimo li accolse dicendo: “Io sono conosciuto in tutte le polis come Achille piè veloce, poiché riesco a correre alla velocità di 8 passi al secondo. Quindi per spostarmi dal luogo dove eravamo prima ci ho impiegato 125 secondi, 2 minuti e 5 secondi. L'acqua del fiume, quella dove io mi sono immerso e che è partita verso il basso della valle insieme a me, si muove invece a 6 passi al secondo e quindi è giunta qui poco dopo 166 secondi, quasi due minuti e 47 secondi.
Appena giunto qui mi sono tuffato in mezzo al torrente, e quindi dopo solo una quarantina di secondi sono stato bagnato dallo stesso liquido che mi aveva toccato due minuti e 46 secondi prima.
Eraclito ha torto: NON E' VERO CHE NON CI SI PUO' BAGNARE DUE VOLTE NELLA STESSA ACQUA!”
“Non credo alle mie orecchie!” commentò ammirato Ulisse “Sei riuscito a far diventare la filosofia una scienza sperimentale, a compiere un esperimento che confuta dunque una teoria su base empirica. Passerai alla storia non solo come invincibile guerriero, ma anche come grandissimo filosofo, l'iniziatore dell'empirismo!”
Il commento finale di un felice Parmenide fu, ovviamente: “ L'essere è, il non essere non è”.
E fu proprio così, cari lettori, fu proprio per questi motivi che oggi potete leggere su tutti i libri di storia della filosofia che Achille diede vita a quella corrente (di pensiero, intendo, non certo quella di un fiume) che va sotto il nome di empirismo, secondo cui la conoscenza deriva dall'esperienza, dagli esperimenti, e che vantò poi, nel diciassettesimo secolo, esponenti del calibro di Locke, Berkeley e Hume.
Achille, colui che ha evidenziato l'errore di Eraclito, dimostrando che quest'ultimo aveva torto marcio nel sostenere che non ci si possa bagnare due volte nella stessa acqua.
E che quindi, probabilmente, aveva ragione Parmenide nel dire che l'essere è ed il non essere non è.
Come ogni mattina, spalancavo la porta
finestra e venivo aggredita dalla luce che fiottava in ogni direzione. Apro
impaziente, velocemente perché da un po' di tempo sul tetto opposto si
stagliava immobile un gabbiano. La mia mano gli faceva un cenno. Non credo
potesse notarla. Per me una insolita presenza, preziosa nel suo silenzio.
Mi pareva di avvertire il suo alitare.
Talvolta appariva anche un gabbiano piccolo che poi scompariva oltre altri
tetti.
Dimmi, gabbiano, come mai qui?
L'acqua
è lontana e ti sovrasta uno spicchio di cielo. Vorrei capire i tuoi pensieri.
Ti considero un ascoltatore silenzioso. Cosa sono per te? Quando con rauche
grida volteggi dispiegando le possenti ali, lanci un messaggio? È per me? Mi
vedi, sola, mentre stendo il bucato. Macchie colorate sventolanti nell'afa di
agosto. Tu non puoi rispondermi, ma io ti parlo. Sfilano anni ormai lontani,
colmi di sogni infranti. Voci sperdute nel tempo. Allora, vive speranze che
attutivano le maglie del silenzio. Aspettative per lo squillare del telefono.
Una voce…
Cerco di immaginare la tua vita; un
mare lontano e tu che affondi vorace il becco su una preda. Le nubi scomposte
dal vibrare delle tue ali. Sei qui, ora nella tua fiera immobilità. Cerchi
qualcosa o qualcuno o aspetti?
Su un
tetto vicino una terrazza, una vasca e acqua verde. Il tuo piccolo ha trovato
un luogo dove bagnarsi e tu lo guardi.
Non lo raggiungi. Per te necessità di
spazi ampi, di voli lunghi alla ricerca del mormorio di onde fruscianti. Non ti
basta il cibo, cerchi avventura e lo stridio degli uccelli migratori senza
nome. La tua sete è libertà. Mi ricordo di un gabbiano che su una costa
irlandese agguantò il mio panino. Lo trovai aggressivo. TU, no! Io voglio
immaginare che mi guardi e mi parli: “Vedi, sono libero come te ma il prezzo è
la solitudine”. Talvolta ritorni anche all'imbrunire. Con impazienza ti
aspetto: sagoma stagliata su un cielo che si tinge di rosa. Poi spicchi il
volo, le ali aperte in un gigantesco abbraccio.
Non è per me ma lo vorrei.
Affiora in me il ricordo lontano di due
forti braccia.
Richiudo la porta finestra.
Firenze, 16 agosto 2024
Wanda Lombardi torna a far sentire la sua
voce poetica con una breve ma intensa raccolta, Tempi inquieti, per
Guido Miano Editore: venticinque nuove poesie, seguite dalla riproposizione di
altre quattordici già pubblicate e raccolte sotto il significativo titolo Perché
nulla vada perduto. Il tutto conferma quanto la poetessa sia ‘presente’ al
nostro tempo, pur così travagliato; e la sua ricca bibliografia a chiusura del
libro lo attesta senza ombra di dubbio.
Nell’accostare i versi di questa raccolta di Wanda Lombardi, non si può prescindere dall’osservazione di Maria Rizzi nella Prefazione all’opera, laddove, riportando i versi che alludono all’«… immane dolore / che stretto ho serrato nel cuore / dinanzi a muri di ferro …» (da Nell’andare), afferma proprio tale esperienza permette all’Autrice “di calarsi nel sociale con sguardo caldo di pietas, valutando i pericoli del male, schegge di guerra in periodi bui come quello che attraversiamo”. Il “coraggio delle ferite” (citando ancora la Rizzi) permette alla Lombardi di affrontare ogni argomento con spirito al tempo stesso umile e combattivo – come testimoniano poesie come Rialzarsi per continuare.
Come le rondini che fuggono dai consueti posti, perché dall’alto vedono «i risultati dell’odio,/ devastazioni, strade insanguinate,/ infanzia violata, crudo dolore/ per rancore tra genti mai sopito,/ per un diritto mai ottenuto» (da Rondini addio), così lo scoramento può prendere anche le persone capaci di pensare con la propria testa, perché «…in ogni angolo della Terra si soffre,/ si langue, si muore/ per contrasti a volte minimi/ che dialogando si potrebbero evitare» (da Abitudini). E poi, «In un mondo che corre vorticosamente,/ in un’epoca in cui sempre più veloci andiamo,/ spesso dimentichiamo la necessità/ di pensare, di usare il cervello/ che tempi più lenti ha per lavorare» (inizio de Il tempo della velocità). Non per nulla Tra ombre e dubbi finisce così: «È vero o falso il mondo in cui viviamo?/ Forse è da preferire questo a quello di domani». In ogni caso, «Malgrado gli alti e bassi,/ meravigliosa è la vita/ ché anche i momenti bui/ forza ridanno, la volontà nutrono/ e trasformarsi possono/ in coralli luminosi/ sì come le stelle dal caos/ si distinguono» (da La collana della vita). Ciò conforta anche di fronte alle perdite di affetti e di persone, come testimoniano le poesie dedicate al fratello Ubaldo e A un ragazzo prematuramente scomparso.
Una poetessa capace di scrivere «qualcosa di grande avverto/ nella profondità dell’essere» (da La musica della vita) è senza dubbio persona aperta sempre alla novità, ma nello stesso tempo critica – giustamente critica sul senso di tale novità. Ci sono, infatti, novità che sconvolgono («Spaurita, dall’alto mi par di osservare/ un mondo lacerato che sembra crollare/ …/ rapidi cambiamenti epocali/ con diritti raggiunti, imprese spaziali,/ progressi nei paesi musulmani,/ robot, intelligenza artificiale,/ e accanto guerre, genocidi, povertà,/ dignità calpestata» – da Contrasti) e novità che confortano come la presenza di un amico (amico evocato con queste parole in chiusura della prima parte della raccolta: «Con viso aperto/ e trasparenza negli occhi,/ è un vento benefico/ che un equilibro restituisce,/ è una brezza marina/ che adagio ti sprona a ripartire,/ a riprendere in mano/ le redini della vita» - da L’amico vero). Sta all’uomo avvertire la direzione alla ‘piena umanità’ cui ogni persona è chiamata, rendersi conto che occorre «la capacità di meditare sulla vita,/ sui cambiamenti repentini,/ le cose irrisolte, i problemi accantonati/ e guerre… guerre nate con l’uomo/ e che con l’uomo periranno» (da Silenzio amico). È però inutile rifugiarsi «nel ricordo di tempi lontani/ quando tutto affascinava/ e un niente appagava», perché «Vivere in pace con tutti è un sogno/ che morirà con l’uomo» (da Sguardo sul mondo).
Così Wanda Lombardi ci sprona ad essere consapevoli del nostro tempo nel nostro tempo, cioè ad essere ‘presenti’ e non ‘assenti’ col cuore e con l’anima: il mondo in cui viviamo è il nostro mondo, non ce n’è un altro. Un richiamo da non sottovalutare, mai.
Marco
Zelioli
Wanda Lombardi, Tempi
inquieti e altre poesie, prefazione di Maria Rizzi, Guido Miano Editore,
Milano 2024, pp. 60, isbn 979-12-81351-38-7, mianoposta@gmail.com.
FARFALLA
Dirò: sei morta?
Con una vita di ventiquattrore!
Troppa amarezza
in questo scherzo del Creatore...
Dirò tu non esisti
Ma cosa mai allora
di simile in te sente
la mia mano e quei colori
di inesistenza non sono frutto...
Tu non arrivi a vivere
fino a provare la paura.
Più lieve della polvere
vortichi su un'aiuola,
fuori dalla prigione
dove il passato e l'avvenire
ci chiudono e ci soffocano,...
Tanta bellezza
per cosi breve tempo,...
Trad. Giovanni Buttafava
Josip Brodskij nasce a Leningrado; nome
dato alla città che in altri tempi la gente comune chiamava Peter da Petersburg
– Pietroburgo. Durante l'assedio di Leningrado che durò tre anni (II guerra
mondiale); invasa dall'esercito tedesco con l'operazione Barbarossa, la città
rimase completamente isolata e nell'inverno circa 600mila abitanti morirono di
fame.Josif, nonostante la giovanissima età, ricorda l'assedio; le strade che
lui definisce morte; invase dalla neve:
“Facciate grigie o verdoline come fori di
pallottole e granate. Strade interminabili, vuote con rari passanti scarso
traffico;
nell'aria quasi affamata e quindi una fisionomia più netta, più nobile... E
dal
fiume grigio carico di riflessi... ho imparato più cose sull'infinito”
1
.
La sua famiglia di origini ebraiche e di
ascendenza rabbinica.
Jevrei (ebreo), negò di esserlo a sette
anni e fu la sua prima bugia.
1
Fuga da Bisanzio – Meno di uno – Ediz. Adelphi. Trad. di Gilberto Forti.
Piantò la scuola a quindici anni per una
reazione viscerale più che una
realtà cosciente. Una mattina d'inverno si
alzò senza un motivo apparente durante la lezione e usci dal cancello della
scuola senza farci più ritorno.
“C'era
anche quella vaga ma beata sensazione di fuga di una strada senza fine e
tutta in
pieno sole...”
2
.
Esule, perseguitato nel suo paese Brodskij in – Ninna nanna di Cape Cod
– VIII – ci dice:
“Metti in serbo per la stagione
fredda queste parole, per le
stagioni dell'ansia! Come il pesce sulla sabbia, l'uomo sopravvive:/ se si
trascuna agli arbusti e s'alza/ le gambe incerte e storte e va, come un
rigo dalla
penna/ nelle viscere della terra”
3
. Il suo cuore è colmo di ricordi:
“Sono nato e
cresciuto nelle paludi baltiche/ dove onde grigie di zingo vengono a due a
due:/
di qui tutte le rime, di qui la voce pallida che fra queste si arriccia
come un
capello umido;... In questi piatti paesi quello che difende/ dal falso il
cuore è
che in nessun luogo può celare e si vede/ più lontano. Soltanto per il
suono lo
spazio è ostacolo:/ l'occhio non si lamenta per l'assenza di eco”
4
. Per lui l'incontro con la vedova di Osip Mandel'štam fu importante e
nelle sue orecchie la memoria di lei. Così la descrive:
“lo sparuto corpo rattrappito sotto
lo scialle, le mani, l'ovale della faccia cinerea, i capelli grigi anch'essi
cinerei – tutto il resto era inghiottito dal buio. Nadežda Mandel'štam simile
un avanzo di un grande incendio, sembrava una minuscola brace che brucia se la
tocchi”
5
.Lui, grande amatore di Osip, importante poeta della Rivoluzione come
Anna Acmatova e Marina Svetaieva. Lo
affascinava il lirismo di questo poeta che ricorda con quattro versi
significativi:
“E rigide le rondini dai sopraccigli
tondi/ volarono a me dalla tomba per dirmi/ che abbastanza hanno riposato
nel
loro/ algido letto di Stoccolma”
6
.
La parola Stoccolma in russo è un
aggettivo: allusione a una favola di Hans Cristian Andersen che tutti i bimbi
russi conoscono. La poesia si insinua nella memoria dell'uomo
“così può accadere che una poesia
sia l'ultima cosa a staccarsi dalle povere labbra di un vecchio”
7 . Sempre nel testo su citato: In una stanza
e mezzo – descrive la vita della famiglia in Russia kommunalka – erano quaranta
metri di spazio con bagno e cucina in comune con altre famiglie. Questi
appartamenti sono situati in alloggi immensi e lussuosi a Pietroburgo.Questa
parte della sua infanzia il poeta la ricorda con affetto, mentre ricorda con
rabbia il regime sovietico e la scuola. In Russia dilagava l'antisemitismo e la
prima bugia di Josif fu in una biblioteca dove gli fu chiesta, per compilare un
modulo, la nazionalità, e lui disse di non ricordarsela. Lasciatala scuola ha
fatto esperienze di lavori i più disparati e poi l'amore per le spedizioni geologiche lo portò nel Circolo
Polare Artico fino ai deserti dell'Africa Centrale. La sua scrittura per i
contenuti lo fece arrestare. Nel 1961 subì un processo e condannato a cinque
anni di lavori forzati nel nord del paese.Venne condotta una campagna pubblica
di difesa. Vi parteciparono Anna Acmatova e vi furono pressioni dall'estero (un
discorso al Governo sovietico di Jean Paul Sartre e altri intellettuali). Di
conseguenza, la pena venne ridotta. A trentadue anni nel 1972 viene espulso
(minacciato di interrogatori ripetuti, carcerazioni, reclusione in ospedali
psichiatrici). Lasciò la Russia per gli Stati Uniti di America. Non potè più
rivedere i genitori, né partecipare ai loro funerali. L'America dove insegnò,
divenne il suo rifugio. Ottenne la cittadinanza americana nel 1977 e insegnò
fino alla morte. Diviene Joseph Brodskij. Soltanto con l'avvento della
Perestroika viene riabilitato in Urss e le sue opere poterono circolare nella
madre patria. Colto da infarto, muore il 29 gennaio del 1996 e viene sepolto
nell'isola di San Michele a Venezia, città da lui profondamente amata. L'Italia
era inoltre la patria della moglie Maria Sozzani che è presidente della Joseph
Brodskij Fellowship Fund con sede in America e in Italia. Tale fondazione offre
agli artisti russi la possibilità di vivere una esperienza creativa in un
ambiente stimolante senza costrizioni. Si è avverato quello che era il
desiderio del poeta, di fondare un'accademia russa a Roma – La JBFF offre anche
una borsa di Studio per periodi passati in Italia. Gran parte delle poesie
d'amore di Josip Brodskij durante gli anni di Pietroburgo sono dedicate a
Marina Basmanova, pittrice. Un casuale incontro a una festa in casa di Boris
Tiščenko; relazione tormentata e costellata dai tradimenti di lei. Crisi forti
e depressione di Josif. I componimenti dedicati a lei hanno le iniziali MB
8
.
IL POETA
Josif Brodskij, poeta russo, cittadino
statunitense. La sua poesia intesa come espressione dell'inconscio attraverso
la parola. Proiezione del pensiero, simbolodi libertà. Forza espressiva che
dilaga come lo scorrere di un potente fiume. Giunge ovunque, anche se il poeta
viene allontanato, perseguitato, esiliato. La parola prosegue il suo cammino e
diffonde quella profonda verità e denuncia che conquistano chiunque sia dotato
di sensibilità. Un atto fisico non può bloccare la parola che scivola e ti
avvolge come il vento. Brodskij in Italia è pubblicato da Adelphi. Più traduttori validi;
il testo in mio possesso – Poesie – è curato da Giovanni Buttafava. Brodskij
ottiene il Nobel per la letteratura nel 1987 con la motivazione:
“Per una produzione onnicomprensiva, intrisa di chiarezza, di passione e
intensità poetica”.
In lui forte il desiderio di amore per la libertà, giustizia, bellezza.
Considera l'essere poeta una missione. Legge i poeti russi e poi, autodidatta
per l'inglese, i poeti inglesi (Donne, Auden). Ama viaggiare per conoscere e
abbuia il viaggio di ricordi:
“oggi compio quarantacinque anni.
Quarantacinque anni fa mia madre mi ha dato la luce. Lei è morta due anni fa. L'anno scorso è morto mio
padre. Io sto camminando per le strade di Atene, strade che loro non hanno mai
visto, né vedranno mai. Il frutto del
loro amore, della loro povertà, della schiavitù in cui sono vissuti e sono morti. Il loro figlio cammina libero. E poiché
non si imbatte in loro in mezzo alla folla, si rende conto che è un errore, che
questa non è l'eternità”
9
. Ancora sue parole:
“Non sono uno storico, un
giornalista o un etnografo. Tutt'al più
sono un viaggiatore, una vittima della geografia, non della storia...”
10
. A leggere Brodskij non cala l'interesse
per la lettura ma si tende a rileggerlo, approfondirlo. I suoi pensieri ci
coinvolgono imprigionandoci. Le poesie del testo di Adelphi fanno riferimento
agli anni 1972-1985. Richiedono più attente letture per poterlo penetrare. Il
poeta è solo, anche se la sua parola si proietta nell'infinito. Il poeta soffre
di malinconia che s'insinua nel cuore del lettore:
... Una sera d'inverno col vino in nessun posto
una veranda assalita dai salici
appoggiandosi al gomito riposa il corpo
come morena fuori dal ghiacciaio.
Frane millennio un fossile bivalve estrarranno
da questa tenda, e rivelerà fra le nappe
l'impronta di due labbra che non hanno
nessuno a cui augurare “Buona notte”
E ancora il ricordo delle origini:
“Sono nato e cresciuto nelle paludi. Dal cielo, dove
onde grigie di zingo vengono a due a due,
di qui tutte le rime, di qui la voce pallida
che fra queste si arriccia, come un capello umido;
se mai si arriccia. Anche puntando il gomito, la conchiglia
dell'orecchio non distingue in esse nessun taglio
ma sbattere di tele, di persiane, mani...
Soltanto per il suono lo spazio è ostacolo;
l'orecchio non si lamenta per l'assenza d'eco”.
Quanto alle stelle ci sono sempre. Quando
ne spunta una, un'altra ne verrà. Solo così di là si guarda qua:
dopo le otto di sera ammiccando.
Il cielo è meglio sgombro. Anche se
la conquista del cosmo è più opportuna
con le stelle...”
La poesia è spesso mistero. Non sempre si
può spiegare ma se coinvolge, incuriosisce, commuove, è autentica e ti penetra
nel cuore. L'importante della scrittura per Josip Brodskij appare evidente
nella parte VIII di Elegie Romane:
“Batti nella pagina vuota, lingua di candela,
palpita curvati sotto il fiato rotto,
segui, ma non avvicinarti, la sequela
del lettore delle lettere in fila per un contenuto
Rischiari un muro, un armadio...
un'area ben più grande di quella che ricopre la scrittura
Ed il filo del tuo fumo s'innalza e supera
i pensieri dell'autore di queste righe...
(se compone la penna, compone sempre poco)
Ma quanta luce danno nella notte
con il buio fondendosi gli inchiostri”.
Per motivi di spazio mi spiace non
riportare per intero la serie di strofe
veneziane.Il suo amore per Venezia lo ha
portato a sceglierla come dimora eterna per la sepoltura.
... “Vanno le barche spazzine come scolari in corsa
battono col bastone gli steccati, i raggi del mattino
ispezionano colonne, arcate, fosse
ciocche d'alghe, mattoni...
La luce vi disserra l'occhio come conchiglia e le conchiglie
degli orecchi vi inonda lo scampanio dei campanili
All'abbeveratoio vanno a bere il bagliore della riva
cupole e mandrie...
La notte imponderabile dell'azzurro al quadrato
della finestra, lasciando in retrovia l'azzurrità...
una muta di nubi ricciute si scalmana...
e vento promette da nord est. La città è un ammasso di porcellana
e di cristallo rotto...
Io scrivo questi versi, seduto su una sedia bianca,
a cielo aperto, d'inverno con giacca,
ebbro e pronuncio frasi che allargano gli zigomi
nella lingua che è mia.
E intanto nella tazza si raffredda il caffè.
Sciaborda la laguna e punisce con cento minimi sprazzi
lo sguardo intorbidito dall'ansia di fissare questo paesaggio
Capace di fare a meno di me”
1982
Spero che
chi leggerà queste righe, legga “Poesie” di Josif Brodskij.
Tutte le
traduzioni riportate sono state curate da Giovanni Buttafava.
Firenze, 27
settembre 2024
Anna
Vincitorio
1
Fuga da Bisanzio – Meno di uno – Ediz. Adelphi. Trad. di Gilberto Forti.
2
Ibidem.
3
Poesie 1973-1985 – Adelphi a cura di Giovanni Buttafava.
4
Poesie ibidem.
5
Fuga da Bisanzio pag. 104.
6
Fuga da Bisanzio – ed. Adelphi pag. 85.
7
Ibidem.
8
Notizie tratte da Josif
Brodskij poesie, saggistica e memoria del passato a cura di Laura Cogo –
27-01-2023.
9
Fuga da Bisanzio – pagg.
151, 152.
10
Ibidem