Il Senso della possibilità di Antonio Spagnuolo,
Kairos Edizioni, maggio 2013
di Ninnj Di Stefano Busà
Con il senso
della possibilità, Antonio Spagnuolo ci lascia smarriti, tale e tanta è la
irrisolta, feroce contraddizione tra il prima e il dopo, tra l’essere e il
dover essere, tra il cambiamento fatto di pensiero poetante e il discrimine,
tra la fuga e l’addio, tra il tempo diacronico e sincronico, tra antinomie,
segni fuggevoli, radici mnemoniche, abbandoni...ad ogni ora, sempre, riaffora
quasi esumato dalla polvere dell’impellenza retroattiva, un nuovo giorno catapultato
nei bisogni esistenziali e nelle afflizioni che immobilizzano il sentimento e
lo istruiscono nel percorso obbligatorio, inconcludente della materia. Ma è nel
segmento nostalgico che segue ogni tratto del suo itinere che Spagnuolo distingue
in modo sintomatico le sofferenze, le differenze, vagheggia come uno scolaretto
al suo primo appuntamento, fa leva sulle intuizioni oniriche, sulle inumazioni
che avvengono tra le due dimensioni: umana e intima l’una, ostile quella
extraterrena, visita la gamma esperienziale linguistica che della poesia una
campionatura piuttosto vivace e abbagliata, talché si potrebbe definire in
termine anche “abbagliante”. La fascinazione della parola ricrea un modello
unico e irripetibile di sospensioni dialettiche che lasciano il lettore
disorientato e attonito per le continue bellezze e sinestesie e metafore che la
nostalgia della donna amata sa ispirargli. La solitudine è implacabile e
inamovibile: una forza che procrastina la sua vera morte in un’atmosfera che
non è mai elaborazione e disincanto, ma consapevole approdo, orgia di necrosi,
a metà tra la vita e il suo contrario. Quasi mobile altalena, ogni ancoraggio
risulta perennemente in bilico, senza una via d’uscita, in ogni caso sempre in
sospensione. Molte immagini ne presagiscono una indagine accurata, pignola, e
uno scavo tra le ombre che riflettono ora più che mai il desiderio della moglie
adorata. I limiti sono quelli di una prigione, i rilievi danno per scontata una
fuga, un’evasione attraverso il precipizio della psicanalisi introspettiva, ma
dove? quando? tra notti asimmetriche e memorie affrante, il suo sé ricostruisce
itinerari di nevrosi, risucchi d’illusioni, ferite sempre aperte, che deformano
talune allucinazioni memoriali abbandonandolo alla nostalgia e anzi sprofondandovelo,
fin nella carne viva, nel perenne dissidio, come in una tensione difforme tra
la realtà e il sogno, tra l’immaginifico e il vulnus che non argina mai il
vorticoso malessere, la inarrestabile ricerca dell’amata: “inseguo le tue ombre quotidiane/ per rubarti un sorriso” oppure: “Scatta improvvisa la malinconia/ che
graffia, che morde, che inasprisce/ le braccia per divenire abbandono.” (pag.
84)
Tutta la sezione dedicata
ad Elena è un perverso e avvolgente sudario per ricordi incontrastati, una r^everie
“della docile materia, plasmata intorno
ai volti ancora giovanili”. Il poeta vi accumula una tensione che si
compenetra empaticamente con “l’altra” in una psicoanalisi di sopravvivenza che
rimuova la smemoratezza, il vuoto dell’assenza, tutte le categorie perdute: felicità,
presenze discrete, dolcissimi abbandoni
in un dispiegamento di simmetrie palpabili, di interferenze che sono
continuamente espressione del suo disagio, rivelazione di una coesistenza
immaginifica, tra il visibile e l’invisibile, fin quasi ad esasperare la
dimensione dell’illimite, l’appartenenza e la commistione inconscia con
l’oltre, di cui si fa carico il dolore: “ora
forma dormiente / sei simbolo del nulla/.../e ricordo/ quando scrivevo per te
versi gioiosi.” (pag. 97)
Il cielo ha
voragini inconsulte,/ quasi le vene spaccano il sudario che riprova lente
parole/.../ al confine dei nostri frantumi. (pag.99).
Vi è in quest’opera la forza prorompente di un guado,
che cerca un attraversamento dello
Stige, verso l’altrove, una inconscia
eppure lucida pulsione di trasparenze contraddittorie che violano le necessarie
formule di rito, la caducità dell’istante, l’imperfezione della morte: si fa
forte questa poesia di una levità che, pur, nel baratro provocato dall’addio,
percuote e plasma, come in un canto folle d’amore, le logiche della materia e
ne fa arte della parola, linguismo per scalfirne infine il suo mistero, forse
alla ricerca dell’assoluto di quella
trascendenza che è comunione di bene, vincolo di luce perenne, nell’indistinto
dello smarrimento e dell’autoanalisi di ogni azzardo.
Luigi Mazzanti
RispondiEliminaho letto l'opera di Antonio Spagnuolo, è assolutamente perfetta pur nel dolore di una fervida memoria, che ne ricostruisce il dato storico del legame. La nota critica che la indaga e ne traduce l'addio è, a dir poco, di una acutezza penetrante e abbacinante.
Dimenticavo di dire che è tutta vera anche la prefazione.
RispondiEliminaEnzo
Cosimo Mazzacurati
RispondiEliminaUna bella e avvertita scrittura poetica, e un'altrettanta nota critica che tutta la rappresenta. Bravi entrambi: poeta e critico
Paolo Tozzi
RispondiEliminaUna poesia forte che induce a riflessioni sulla vita e sulla morte, discopre le zone d'ombra della metafisica. L'acutezza della critica è la prova di un risultato che felicemente raggiunge il suo apogeo in una indagine che va di pari passo con una TAC più ancora che una nota recensiva. Credo che la perfezione si identifichi in entrambi i casi: poeta/critico, e sono entrambi egregiamente risolti da un linguaggio che nobilita la scrittura, nonché la CULTURA.
Nicola Di Giacomo
RispondiEliminaPoesia sublime e alta quella di Antonio Spagnuolo, le sue composizioni scavate sul bilancio dell'esistente, si riallacciano ad una memoria che conforta le irrimediabili ombre.
Non è da meno la critica che attacca e risolve le atmosfere selettive di una psiche che si strenua nel ricordo. Complimenti sinceri