SEDIA
A SDRAIO ABBANDONATA LUNGO IL LAGO.
RACCONTI DI ANNA VINCITORIO
Un
corposo manoscritto, con cui Anna Vincitorio costruisce una storia di ampio respiro,
di ontologici riflessi, che, rimasta in animo a decantare per tempo, esce con
dolcezza e forza paradigmatica a brillare di nuova vita. Trentuno racconti
brevi dal titolo Sedia a dondolo lungo il lago, che, già indicativo per il
prosieguo della lettura, si fa corpo di intricanti soluzioni: sedia a
dondolo: riposo, ombra solitudine; abbandonata:
tristezza, memoria, disincanto; lungo il
lago: acqua, spazi, ampie visioni,
orizzonti lontani, dimenticanze. Il tutto in una pennellata panico-ornitologica
che fa da prodromica apertura ad una narrazione che tanto ha a che vedere con
la vicinanza dell’autrice ad una natura semplice, pura, genuina; ad ali di
uccelli che spiccano il volo verso un’azzurrità che si declina in simbolo del
modo di sentire della Nostra: voglia di volare, di sottrarsi ai paradigmi di un
mondo che la scrittrice condanna per la plurivocità delle aporie. Tanta
spiritualità, tanto amore, tanta interiorità autobiografica in questa serie di brevi
quadri freschi e contaminanti: “Amo e osservo gli uccelli, rapita dalle loro
volute. Le ali spalancate svelano piumati spazi bianchi. Amo quell’essere
liberi, potersi soffermare su un gotico campanile o su un ramo fronzuto… Amo la
loro libertà fuori dal quotidiano. Incontro un merlo che zampetta sul selciato
a passo di danza. Ho visto nel verde di Vinci librarsi le tortore e i fagiani. È
un mondo silenzioso e ingenuo che non travalica gli altri. Non si impone, trasmette
calda gioia e si avvicina al cielo”. Libertà, spazi, cielo, rispetto, volo, umanesimo;
slanci verso sommità di ardua tensione meditativa; di frequenze
realistico-invasive con riferimenti ad una semplicità tanto complessa da
richiamare l’uomo, il suo esistere e il suo azzardo verso orizzonti che
appaghino le sue sottrazioni. Questo passo introduttivo è preceduto da versi
che traducono, con profonda e armonica liricità, l’abbraccio con cui Anna avvolge una natura
libera, antropologicamente allusiva, nelle sue esplosioni di vita e di amore;
allunghi verso azzurri che tradiscano le incomprensioni dell’umano vivere:
idee, solo questo
in un mattino d’estate
Le mie fughe d’uccello
spalancano siepi di gelsomino
e l’aroma spaura e si sperde
Brani, caldi e umanamente vicini, che, raggruppati
in espansioni tematiche, sono uniti da un filo rosso che lega ogni sezione: VITE DI DONNA 1 (A mio padre, Subite
violenze, Ricordo e amarezza), VITE DI DONNA 2 (L’invito, Il giorno dei morti,
Presagio, Verso Lisbona, Quel mercoledi di febbraio); EVOCAZIONI (Il quadro, Il
ritorno, I tulipani, La caccia, Sequenze, Volano ancora le colombe, La Pasqua, Il salto, Blu,Il ballo); LUOGHI (Alice’s
Restaurant, Il bar di Dario, La moto e la piscina, San Salvi, Sul selciato,
Diversi o migliori, Il salto, Fiume, Potrebbe essere amore, Affittasi); SOGNO (I due viandanti,
Vittime); VITA DI DONNA 3 (Sedia a sdraio abbandonata lungo il lago) che,
con valore eponimo, contiene input esistenziali, afflati vitali, solitudini esistenziali, questioni che fanno
da leitmotiv nel tragitto della narrazione. Tante le vicende trattate, tanti
gli accadimenti che segnano i passi della vita: esistere, violenze, memoriale,
immagini e volti di ritorno, inquietudini, abbandoni, amori, incontri,
delusioni, illusioni, dolcezze profumate di antiche stagioni, sogni. Un modus vivendi, inveniendi, un riportare alla luce
episodi, che, nel tentativo di prolungare la vita, ci rendono anche coscienti
del tempo che passa con certe vicende segnate da ferite profonde, in cui la stessa
vita è un gioco di perdite e conquiste,
di dolori e di soprusi tornati a memoria pur contro la nostra volontà. Spaziare
a tutto tondo è il proposito di Anna; far leggere il suo racconto, che si fa
racconto di tutti, è il suo obiettivo. E ci riesce appieno soprattutto per il
suo linguismo armonico, paratattico, apodittico, conclusivo; sciolto,
convincente e arrivante per la brevità
dei periodi e per una morfosintassi laconica e penetrante nel suo dispiegarsi in
sequenze di plastico equilibrio: narrative, introspettive, descrittive. E
quando si descrive, quando ci si abbandona a luoghi del vissuto, lo si fa per
dare forza e luce a personaggi che hanno ruoli determinanti nel succedersi dei
fatti. Già ebbi a scrivere a proposito della sua “per vivere ancora”: “Una narrazione chiara, semplice, arrivante,
persuasiva e pervasiva, quella della Vincitorio. Chi avesse letto la sua poesia
non stenterebbe di certo a riconoscervi quell’animo snello, pulito, ambizioso a
mantenere in vita stagioni ora burrascose ora lucenti del suo vissuto. E qui c’è
tutto il patrimonio umano ed oltre; ci sono riflessioni, memoriale, saudade,
realismo, luoghi compagni dell’amore, amori compagni di luoghi, personaggi,
figure, aspetti che non possono morire, così come muore un autunno con le sue
foglie arrugginite. Non è di certo azzardato parlare di prosa poetica; di
contaminazione poematica: sembra proprio che da questi racconti in diacronica
successione ogni tanto faccia capolino la virtù versificatoria di Anna e che
questa virtù manifesti la sua presenza con calore e ardore, con grazia e
riservatezza, con pennellate di colori e ondate di malinconia. La realtà vi è con tutta la sua forza
rappresentativa…”. Proprio così: non è azzardato dire che la vèrve poetica contamini
la sua prosa: musicalità, concisione, male di esistere, introspezione, e tanto
animo in una verbalità fatta di esplosioni intime, spontanee, ora amare, ora lucenti di albe, e di
tramonti. Ma è soprattutto la parola, le connessioni, gli incastri a richiamare
la sua poesia, la brevità e il simbolismo del suo dire poematico.
Da
A
mio padre:
“…
Memoria, ideali, patria, guerra, battesimo del fuoco, tardi autunni, antiche
foto, personaggi lontani nel tempo, padre bambino, sguardo intenso:
…
In uno degli armadi Biedermeier
dell’ingresso… ho trovato una scatola rossa e un pacchetto legato con
nastri azzurri. La scatola era piena di antiche foto, alcune a me sconosciute
di personaggi lontani nel tempo, altre che avidamente prendevo tra le mani per
ricostruirne il percorso. Ti ho ritrovato, padre, bambino… A quei tempi si
amava la patria, gli ideali, l’odio per il nemico, e tu partisti, ragazzo del
’99 per la guerra. Battesimo del fuoco a diciotto anni…”. Con in finale una
poesia di plurale intimità tratta da Trama
verde sull’aia, 1986
A
mio padre:
Il tempo ha spezzato quelle
scale
dove il celeste bagliore si
spense
con
un grido
fluidi calarono i falchi sul
sole
e fu ambra di parole pensate,
mai dette
Tu ora non più sembianza
ritorni
voce azzurra di dentro e
schiudi le mani
al mistero
A
Presagio:
Stefano,
gli amici, nonna Elena, la madre, il padre, il presagio: “… Mi devo sbrigare…
mi è stato detto che morirò a trent’anni…”, il brevetto di volo, l’incidente
aereo. La madre che cerca il figlio in ogni dove e un viale che l’accompagna
con il suo mesto panorama:
“…
In un cassetto un suo quaderno di scuola dove lui scrive: “Per tutti i bambini
c’è un angelo custode. Riuscirò a vedere il mio ?”. La madre continua a vivere
nelle ombre del passato. Nei suoi occhi, gigli che si sovrappongono e sul suo
viso passa un soffio lieve come una carezza. Lui c’è; non è mai andato via. È
nella sua casa per sempre.”. Qui un certo sperdimento di malinconica intrusione
fa di questo brano una impennata emotiva di toccante realtà.
Da
Il
ritorno
Dove
le memorie la fanno da padrone in un racconto di struggente saudade:
“…
Nella bruma del mattino le luci del Mediterraneo, la carezza del blu sfumato di
verde, le case arroccate, l’erosione legata all’angoscia di un amore perduto.
Un’età diversa “senza più grida”. L’attracco e il tonfo dell’àncora. Lì con
cocciutaggine per voler rivivere un amore assoluto e misterico, frutto di lotte
e di angosce che si era concretizzato tra sabbie dorate, cupi profili dei monti
circostanti e giovani braccia avvinte…”
A
La
Pasqua
La
chiesa, il piattino del povero, la dolce arroganza della giovinezza, ricordi,
la stazioncina di Elephant Castle, “A quei tempi per me una chiesa significava arte e
conoscenza…”, “Solo il viaggio contava dovunque e comunque per sfuggire alla
realtà contingente…”, memoriale che torna impietoso in un giorno di Pasqua a
rievocare tempi e momenti, forse felici, ma distanti e sfumati. Ed il presente:
Vinci, la casa di Anna, e lei che parla a lungo con un uomo cordale che ha
vissuto in Inghilterra e che con il suo inglese la riporta a primavere lontane con le sue storie per lei legate al
tempo dell’uva e dell’amore. Il commiato verso la quiete e il silenzio: “mi
giunge col vento il tubare sommesso di un colombo. Risuonano festose le
campane. Mi sono però dimenticata di
portare l’uovo per la benedizione di Pasqua”.
E
su su fino all’ultimo brano che con ritmo
incalzante segna l’approdo ad un porto di incognite e insicurezze:
Sedia
a sdraio abbandonata lungo il lago
Dove
assenze oniriche, rievocazioni, vertigini familiari, tentativi di ritorni,
fanno da cammei, da quietudini verso cui la scrittrice si incammina per colmare
distanze; per vincere il tempo che con la sua ingordigia distrugge armonie di
affetti, alcove di amore, dolori di altre stagioni. E torna il memoriale
imperioso a prendersi la scena con Ilena, autoritaria, il pulmino di una città che non ricorda, il
giardino nell’ombra, e l’attesa di lui con le mani odorose di legno. Poi su una
sedia a rotelle. “Perché” “dov’è la mia casa?”. “Eppure mi pareva di avere camminato tanto;
c’era un bosco e l’acqua, ma non era il mare… Quel mare… dove? Com’era il
posto? C’era la torre e quella buca d’acqua verde, sì, la buca delle fate. Ma
dove sono andati i bambini?”. Con un lungo sorriso l’uomo la guarda e le
stringe le mani tra le sue. “vieni, è tardi, ti portiamo a dormire”. Lei si
alza insicura e lo guarda negli occhi: “ma tu, chi sei?”.
Un
racconto da brividi, tracciato da una mano onesta, da un’anima netta che gronda
storia, emozione, sensibilità, vicissitudine; da un’anima accoccolata, disumanamente
insicura, con là una sedia a sdraio abbandonata lungo il lago.
Quello
che poi richiederebbe un discorso a parte, una nota non di secondo piano, riguarda
i contorni ambientali di cui Anna si serve per avviare le sue storie di pathos, passione, melanconia, struggimento,
riflessione, meditazione. E la natura, con i suoi paesaggi, monti, orizzonti,
viali, cieli brumosi… si impossessa della penna della scrittrice in funzione di
un preludio o di una concretizzazione delle sue calde storie:
“Un
turbine di foglie nel gelido vento di un autunno che si preannunziava con
piogge improvvise. A terra, specchi d’acqua disseminati, riflettevano
ombrelli e passi frettolosi…” (Presagio).
“E’
una ventosa giornata di febbraio. Il freddo si proietta all’interno della
stanza…” (Quel mercoledì di febbraio).
“Il
treno scorreva lento nella notte. Gli alberi e la bassa in movimento si
allungavano e dilatavano assumendo forme inconsuete che turbavano i pensieri di
Emanuele…” (Il quadro).
“…
i viali, gli alberi che nell’avanzare dell’autunno si colorano di giallo e di
marrone mentre scompare il verde e al suolo uno scomposto frusciare di foglie
secche che invadono i prati verdissimi, bagnati di rugiada… (La moto e la piscina).
…
Insomma
un “romanzo” che dice dell’uomo, del suo esistere, del suo inquieto
sopravvivere, dell’esserc-ci, in questa terra illuminata dal sole, e inumidita
da nubi, ora disseminate, ora affagottate, in un cielo che promette acquazzoni.
Un viaggio fatto di tappe umanamente vicine che trae dalla realtà ogni
occasione per slanci in vertigini azzurre; in campi nascosti di questa vita che
ci guarda in faccia. Questo è.
D’altronde
tutto non si può dire come non si può dire tutto sull’esistere ed il mistero
che lo circonda.
A
voi la lettura.
Nazario
Pardini
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