Presso il Museo Civico
"Umberto Mastroianni" di Marino
SPIRAGLI DI LUCE
In mostra lo tsunami artistico di Stefano Piali
Franco Campegiani, collaboratore di Lèucade |
Presso il Museo
Civico "Umberto Mastroianni" di Marino, si è inaugurata, venerdì 4
giugno, una mostra del pittore e scultore Stefano Piali, con una selezione
significativa di opere realizzate nell'ultimo decennio. Una proposta artistica
che irrompe nella scena visiva dei nostri tempi con una potenza vulcanica e
fantasmagorica di inusitate proporzioni, pur essendo un teatro squisitamente intimo.
Pennelli e scalpelli si rincorrono nell'evocare un incontro/scontro di forze
terrestri e celesti in dialogo tra di loro. Un avvitarsi e torcersi
incandescente di figure antropomorfe che s'inoltrano nell'invisibile, o
viceversa approdano nelle tele e nei marmi venendo da quelle sponde. Il
laboratorio dell'artista dà l'idea di essere un teatro frequentato da attori
invisibili che raggiungono la scena da ignoti mondi per intrecciare trame con
personaggi in carne ed ossa che, entrati nella stessa scena, vengono invece
risucchiati nel mistero cosmico.
Un palcoscenico di
segrete metamorfosi, dove è tutto un volare e franare, un avvinghiarsi e
sciogliersi di corpi e spiriti, un aggrovigliarsi di lotte e abbracci, uno
sfaldarsi e ricomporsi di ossa, nervi, sangue, un rarefarsi e condensarsi
dell'energia vitale. Da dove nasca questo tsunami
- impantanati come siamo negli odierni minimalismi culturali - non è dato sapere, ma
evidente ne è lo sconquasso nella palude conformistica in cui viviamo, nel
quieto vivere di una modernità che da molto tempo ha esaurito la spinta propulsiva
delle avanguardie da cui è stata generata. Ad uno sguardo disattento,
l'impalcatura cinquecentesca di questa poetica (ma nondimeno dantesca, considerato
l'influsso delle cantiche su Michelangelo, da lui stesso apertamente dichiarato)
potrebbe far pensare ad un esercizio mnemonico, ad un anacronismo
intellettualistico, ad un dotto citazionismo (alla maniera della
Transavanguardia, per intenderci), rimanendo nel solco squisitamente postmoderno
di quella rappresentazione colta e decadente di favole già messa in scena un
secolo fa dal teatro (allora avanguardistico) del vuoto dechirichiano.
In realtà, qui la mitologia non c'entra. C'entra piuttosto
la mitopoiesi, la produzione di nuovi
miti sorgivi, tesi a superare l'impasse di
una cultura naufragata nel Nulla e non più capace di nuove avventure. Non deve
sfuggire, infatti, la valenza squisitamente interiore di quest'arte, i suoi
moventi inconsci, le sue pulsioni autentiche che nulla hanno di antiquario e
sono fuori da ogni manierismo come da ogni intellettualismo memoriale. Non c'è
nulla di orizzontale, piatto o conformistico in questo teatro che pone tutto a
soqquadro, risucchiando gli orizzonti esistenziali e storici in un mistero
cosmico e in un racconto metafisico di cui si era persa memoria nei tempi
attuali. Stefano Piali sta qui. Il suo non è lo sguardo smarrito
dell'intellettuale che, nel declino civile dei nostri giorni, fa ricorso ai bei
tempi andati, restandone ovviamente deluso, bensì lo sguardo penetrante ed
ardito, creativo, dello spirito che cerca in se stesso gli stimoli per andare
avanti. Ed è un fervore di rinnovamento cui non siamo più avvezzi negli aridi e
omologati tempi attuali.
Un'arte che vive di
crisi e di ricerca, ovvero di fede in se stessi, anziché di decadenza e di
grigi sopori. Un'arte che tenta di ridare voce all'Essere che vive nell'uomo
stesso. Un ascolto interiore che è innanzitutto ascolto del proprio Essere,
giacché l'uomo - ogni uomo - ha una doppia genetica: celeste e terrestre,
angelica e concreta a un tempo. Il linguaggio artistico di Piali pretende
questa particolarissima chiave di lettura. Un orizzonte poetico, il suo, che è
l'orizzonte della vita stessa: non soltanto esistenziale o storico, ma fisico e
metafisico a un tempo, in stretto dialogo tra di loro. Quando lo conobbi, agli
inizi degli anni Ottanta, egli stava uscendo da un'esperienza sofferta ed
esaltante di iperrealismo, con esiti particolarmente lusinghieri e
sorprendenti. Incurante tuttavia dei fermenti neofigurativi in voga a quei
tempi, egli, ancora giovanissimo, stava mandando al macero un bagaglio
incredibile di sapienza espressiva che gli avrebbe garantito un successo
immediato e sicuro.
Il suo sguardo era
tutto puntato sullo sdoppiamento delle immagini nell'intento di ritrarne il
retroterra inconscio, il fiume misterioso di energia che alimenta tutto il
vivente e che l'inganno trompe-l'oeil,
per sua natura, tende da sempre a congelare. Questa dunque la nuova esigenza,
indifferibile: ritrarre la verità nascosta dietro il trionfo della finzione;
rappresentare il battito dell'Essere dietro lo sferragliante frastuono
dell'Apparire. Da qui l'avvio di una stupefacente esperienza astratto/informale
che distruggeva le immagini e che sul finire degli anni Ottanta sarebbe stata a
sua volta superata per tornare ad una figurazione rinnovata, arricchita del
dinamismo gestuale. Ed è la fase che, con maturità cresciuta e crescente,
l'artista ancora oggi vive, nell'evidente esigenza di rappresentare il dialogo
incessante tra il mondo interiore (la vita esplosiva ed inquieta dello spirito)
ed il mondo della conformistica realtà storico-esistenziale. I lavori di
Stefano sono le gesta eroiche di questo incontro/scontro, con un ruolo
squisitamente epico evolutivo.
Guerrieri omerici e
intrepidi lottatori, valorose amazzoni e scalpitanti destrieri si aggrovigliano
in storie inestricabili e si avventurano in trame celesti, numinose, arcane. E'
il viluppo della commedia insieme divina ed umana. Ed ecco fuochi roventi,
scudi, elmi, criniere al vento, armature. Ecco ali e scie luminose, ecco vesti
e drappi srotolati in un'ansia di denudamento, di svelamento della verità
ultima, umana. Il tutto in atmosfere livide, grandiose, cruente, teatro fervido
della liberazione dell'io. Non sono giuochi della fantasia, ma balconi sulla
realtà dell'essere che viene al mondo per un suo preciso disegno evolutivo.
Sono i fotogrammi delle sue sconfitte e delle sue rinascite, il film delle sue
battaglie e dei suoi voli. E' il racconto della ricerca di se stessi e della
fede di sempre, di cui ogni uomo ha bisogno e non soltanto lo spirito creativo.
Riscoprire le proprie fonti archetipiche è ciò di cui si ha urgente bisogno.
Sempre se ne ha bisogno, ma particolarmente oggigiorno, per dare nuovo slancio
all'intorpidito vivere quotidiano.
Il marasma attuale,
alimentato e ingigantito dalle emergenze socio-sanitarie che sappiamo, non è un
problema di esclusiva pertinenza scientifica, come potrebbe sembrare, e può
essere combattuto compiutamente solo promuovendo un rinnovamento profondo
dell'animo umano. L'arte di Stefano, in questo può aiutare. Essa rappresenta la
dolce rottura degli schemi, l'irruzione dell'ignoto nel noto per ravvivarlo e
ridestarlo dai propri torpori. Da qui Spiragli
di luce, il titolo dato alla mostra, con storie e personaggi che non appartengono
ad un tempo storico, bensì all'illo
tempore del mito, all'attimo sacro degli archetipi, degli inizi perenni,
che sono sempre a portata di mano ed ai quali in ogni tempo si può attingere
per venirne rinnovati. Quando la storia si appiattisce, quando sembra che stia
per esaurirsi il suo ruolo e che l'umanità stia uscendo di scena dal mondo dal
lei stessa creato - il che è tipico dei depressi tempi attuali - è ai valori
eterni dello spirito e delle incorruttibili leggi universali, che si deve
necessariamente ricorrere.
Non certo per tornare al passato, ma per tornare alle origini sempre originanti (non originarie ma originanti) e così accendere nuovi fari, promuovere nuove risorse e nuove avventure culturali. Non a caso, ritengo, Gabriele Simongini, superbo prefatore del catalogo di questa esposizione, parla di una sorta di primordialità contemporanea, a proposito di alcuni lavori di Stefano (le tavole graffiate) che, lui dice, "lontanamente evocano i graffiti dei primi uomini delle caverne". Fuor di metafora, siamo sempre all'inizio e siamo sempre alla fine. <Così il cerchio si chiude - dice Simongini - e Piali potrebbe identificarsi nel grande Octavio Paz dicendo con le sue parole: "Un giorno ho scoperto che non avanzavo bensì che ritornavo al punto di partenza: la ricerca della modernità era una discesa verso le origini. La modernità mi ha condotto al mio inizio, al mio passato. Essa non sta al di fuori ma dentro di noi. E' l'oggi ed è il più antico passato, è il domani ed è l'inizio del mondo, ha mille anni e sta per nascere"
Franco Campegiani
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