IL PROSSIMO PERMESSO DI SOGGIORNO
Sandro Angelucci,
collaboratore di Lèucade
“[…] Il Poeta non conosce, prima che
sia intuito, il contenuto di ogni poesia. Esso si forma inconsciamente.[…] La
sua condizione poetica è caratterizzata dall’attesa: attende che l’intuizione
dia forma alla sua materia inconscia, a quel contenuto che si rende disponibile
allo spirito come contenuto ideale nell’alternarsi.[…] L’opera da creare
consuma il poeta in una attesa tragica dell’atto di intuizione: egli è colui
che ha rinunziato e attende, non è perché ancora non in movimento la sua
potenza creatrice […] prima dell’intuizione, il suo vivere è simile al morire,
senza identità e azione, un vuoto consistere nell’indeterminata materia che lo opprime
[…]”. (L’Arpa Eolia. Teoria del
principio poetico, di Salvatore Lo Bue)
Non è, forse, il più ortodosso dei modi
quello di principiare a scrivere una recensione proponendo uno stralcio della
citazione riportata in testa al libro ma, nel caso in questione, il riferimento
è quanto mai calzante e propedeutico ai fini dell’assimilazione della poetica
stessa dell’autore.
In effetti, fin dal primo dei testi qui
raccolti, Gino Pantaleone sostiene che l'attesa è nutrimento per la poesia ma
anche celebrazione di un "rito crudele di mattanza", entrando subito in medias res:
[…]
io so
che dovrò attendere
un tempo indefinito
un caotico
ordine delle cose
un indigesto
mucchio di giocattoli
gettati a casaccio
sull’armadio
io so
dover celebrare
un rito
crudele di mattanza
Croce e delizia, dunque, sono le
prerogative di ogni aspettativa: quella del poeta ma anche quella dell’uomo tout court, in questo riproducendo il
senso stesso dell’esistenza.
Il corpo dell’amata (cfr.
l’immediatamente successiva Mi alzerò al
cielo) è, esso stesso, metaforicamente, l’occasione, che si offre al
Nostro, di scrivere un dettato: qualcosa cioè che oltre ad essere già
preparato, e pertanto ineludibile, è anche imposto. I diversi gerundi che si
susseguono nella sopramenzionata poesia sono riprova di azioni che si vanno
compiendo per arrivare a scoprire, appunto, l’indicibile gioia e l’indicibile
tormento procurati dall’amore.
E - a proposito di passione amorosa -
questa viene descritta con un eros molto
acuto e delicato al contempo, eros che culmina nella splendida chiusa di Sfiorano le mani (“e ci perdiamo / si ci
perdiamo nel viaggio / trovando nell’infinito / l’unico porto sicuro”),
compimento non solo di un atto sessuale ma realizzazione di un sogno, allo
stesso modo in cui nasce un'opera d'arte: con l'attesa (tutto l'excursus del
fatto carnale) e la creazione (lo sfociare nell'orgasmo) che è, sì, pace dei
sensi ma nondimeno dispersione in una realtà che spaura.
Poco più avanti si affaccia nei versi
l’aspetto della denuncia sociale, pur sempre legato, tuttavia, al confrontarsi
dei contrari (“albeggia o imbrunisce / nulla cambia / solo danari contano /
queste mani”). Così le mani che contano solo denari possono farsi “rami
intrecciati” e possono ASPETTARE (di nuovo il senso dell'attesa). Viceversa: in
cosa si può confidare se altro non si sa contare che i soldi? Il comandante del
peschereccio può spaventare i gabbiani agitando il vello d’oro ma la sua nave è
in balìa di se stessa senza un timoniere equilibrato e sereno (cfr. Prende la cima).
ASPETTARE. Pantaleone sa aspettare:
[…]
torneremo ancora
a solcare
il mondo dei puri
a gioire come bimbi
che fanno un girotondo
torneremo ancora
a sperare
a tramutare odori acri
a sentire la fragranza intima
del pane appena sfornato
aspettando
Sa attendere che quel pane sia
lievitato al punto giusto, che sia pronto per essere sfornato e possa saziare
la fame di chiunque abbia bisogno di cibo semplice e genuino.
È indubbiamente un atto di fede il suo,
d’autentica fede. Una fede non abituata a comprare, “a chiedere perdono”, “a
barattare una carezza”, “a ricevere un sacramento” come se fossero merce di
scambio al mercato: così facendo, si smette “di frignare un’altra attesa”, e
frignare è necessario, anzi indispensabile, per giungere alla mèta
(all'orgasmo: come già detto a proposito di un'altra di queste poesie).
[…]
ci siamo scoperti
teneri
abbiamo imparato
tenerci al buio la mano
l’altra
leggera fragile
ha cercato il viso
ad accennare
una carezza
Versi, quelli appena riportati, di
straordinaria bellezza: canto di un cieco innamorato della propria cecità,
delle stelle che si stagliano sullo sfondo scuro di una notte che dura il tempo
per arrivare all’aurora.
E, ancora:
[…]
tornerò nel grembo della Natura
da buon migrante incallito
sbarcato al centro della Terra
aspetterò paziente
il prossimo permesso di soggiorno
[…]
Versi, anche questi, davvero di una
levità e di una profondità fuori dal comune. E, ancora, il tempo dell'attesa
come lasciapassare per ottenere "il prossimo permesso di soggiorno".
Altrove, il poeta parla di “ghiacci
secchi”, di un “artico” tutto suo. Ma qual è l'artico del Nostro?
Chiediamocelo. Sono le artificiosità di un vivere non consono alla leggi
dell'amore: è per questo che il Paradiso appare lontano e distante, in alto
sempre più in alto. E' per questo che i piedi per terra vengono maledetti;
perché gli stessi stanno a simboleggiare, non il terreno come si sarebbe
portati a pensare, ma la costrizione di una forza altra, una forza che nulla ha
a che vedere con la gravità, con l’attrazione terrestre (sia in senso figurato
che letterale).
Pantaleone è consapevole che il male
deriva dalla mancanza di amore, quell’Amore “che salva che mira il cielo”. Sta
nel volersene quasi affrancare il problema, il reiterato errore commesso
dall’uomo.
Quando sarebbe opportuno non
dimenticare - come si legge in un altro esergo - ciò che afferma Walt Whitman:
“Se è tardi a trovarmi, insisti, / se non ci sono in un posto, cerca in un
altro, / perché io son fermo da qualche parte / ad aspettare te.”. E Gino che
ribadisce:
[…]
ma c’è del buono nell’affanno
quando il cielo si sgombra e azzurra
di fiori e di carezze
di baci e di voli d’uccelli
e la voglia di rimettere nel cuore
il tempo sprecato quello acquistato
io e te la notte un letto sfatto
e la pioggia che smette di cadere.
Allora non sbagliavo quando - sopra -
sostenevo che l'attesa non è fonte di disperazione bensì desiderio di
"rimettere nel cuore il tempo sprecato quello acquistato" e che si
conclude con l'orgasmo dei sensi e del cuore che fa smettere la pioggia di
cadere?
Non dissimile la speranza del poeta da
quella dei migranti (di nuovo la denuncia civile) che devono “pensare a nord”
mentre guardano indietro i “mulinelli di sabbia”, “la capanna paglia e fango”.
Nell’ultima ‘sezione’ (preceduta da un
aforisma di Shakespeare) - non a caso sotto forma di breve poemetto -
Pantaleone tira le somme e sorprende tutti:
Ci prepariamo ad un nuovo evento,
un nuovo Messia è alle porte,
non è un uomo di terra ma di fuoco
e spargerà danaro sui nostri più remoti
desideri.
Il sole sorgerà ugualmente
ma sorgerà da ovest,
gli uccelli aspetteranno accovacciati
la calma
e il nuovo Dio brucerà per intero le foreste.
[…]
È l’incipit di Canto dell’attesa (il già menzionato poemetto, che chiude la
raccolta).
Il nuovo Messia - anziché portare la
pace, l'amore - porterà, apparentemente
però, distruzione e sovvertimento. Già perché non sarà una palingenesi di
morte, quella che ci prospetta il poeta, ma una palingenesi rigeneratrice
attraverso l'annientamento del preesistente .
D'altro canto, non lo aveva detto
Cristo (il Messia che abbiamo conosciuto) che Lui non era venuto a portare la
pace ma la guerra? Messaggio, dunque, altamente cristiano quello di cui si fa
portavoce il poeta siciliano. E altamente profetico, a mio modo di vedere.
Ecco: qui Pantaleone spiega senza più
mezzi termini cosa vuol dire attendere. Il tempo dell'attesa si sta compiendo
ed è soltanto al suo termine che si potrà comprenderlo, è soltanto dopo che
sarà trascorso che si capirà che, senza quel tempo, nulla poteva avverarsi, la
palingenesi si nutre dell'attesa di se stessa così come l'uomo deve nutrirsi di
se stesso nell'attesa della palingenesi.
È un crescendo fino alla chiusa:
[…]
Ci siamo, un vento leggero attraversa
il tuo cammino
ti accarezza la pelle: quello, amore
mio, sono io.
Attendo.
E non è certo un caso che l'opera
termini con la parola "attendo" che - si badi - non chiude il
discorso ma lo lascia aperto a ciò che verrà. Si, perché qualcosa di buono
verrà sicuramente.
Sandro Angelucci
Un altro esempio della sublime capacità critica di Sandro Angelucci. Si avvicina a testi lontani e li rende vicini. Mi piacerebbe paragonarlo a un mietitore di stelle. Coglie la luce nei Poeti che legge e, come rabdomante del cielo, ci presenta in punta di piedi i loro modi di vedere e vivere la vita. Gino Pantaleone giunge ai nostri sensi con la sua tensione verso l'attesa e con lo stesso sentimento che diviene impegno civile. Cito l'estratto che mi ha colpita di più: "Così le mani che contano solo denari possono farsi “rami intrecciati” e possono ASPETTARE (di nuovo il senso dell'attesa). Viceversa: in cosa si può confidare se altro non si sa contare che i soldi?". L'Artista nell'esegesi del nostro Poeta attraversa molti stati d'animo e torna a un'attesa che è apertura d'ali, desiderio e speranza che possa avvenire qualcosa di buono. Non ho dubbi che Pantaleoni si sarà ritrovato in questa pagina magistrale e si sarà emozionato, come la sottoscritta, anzi molto di più, visto che l'anima sondata era la sua. Ringrazio Sandro per queste perle e l'Autore per il suo lirismo mai convenzionale, che rompe gli schemi, stupisce e convince. Un abbraccio a Sandro e al nostro Nocchiero e un saluto affettuoso al Poeta!
RispondiEliminaPer il momento, ma solo per il momento, ringrazio Sandro Angelucci per avermi tanto emozionato, sorprendendomi, avendo fatto centro con la sua freccia sul senso che tento di dare a questi miei versi. Lui ha superato me stesso e per raggiungere le sue altezze dovrò "attendere" che io Maceri per bene questa recensione... Ringrazio anche Maria Rizzi per il suo delicato commento e, ovviamente, il padrone di casa Nazario Pardini che nei giorni a venire spererei di ringraziare personalmente.
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