Gian Piero Stefanoni, collaboratore di Lèucade |
Salvatore Tommasi e il griko: Alia Loja, Associazione Ghetonia,
Calimera (Le), 2006
Quella di Salvatore Tommasi non solo per
l'identificazione piena con la sua lingua, di cui è cultore, promotore e
divulgatore nelle più diverse accezioni di studioso, autore in prosa e teatrale
oltre che poetico, ma necessaria perché senza quest'opera il griko salentino di
cui con tanto rigore critico e capacità affabulatoria leva alla vita andrebbe
probabilmente dispersa, seppure non solo certo (altro nome quello
dell'attore-scrittore Brizio Montinaro) nella salvaguardia di un bene prezioso
in cui si cela un mondo ai più nascosto, ai più sconosciuto. Questa lingua
millenaria, infatti, le cui origini ancora dibattute in un mistero che la vuole
figlia delle colonie della Magna Grecia o in relazione con l'Impero Bizantino e
parlate in sette piccoli comuni del Salento (il cui centro principale è quella
Calimera luogo natale di Tommasi) essendo trasmessa solo oralmente nell'arco
naturale di un tempo che forse chiama alla fine e nella lontananza che va a
godere ai più delle giovani generazioni, è in questo inizio di terzo millennio
come tante altre nel mondo al serio di
rischio di estinzione. Per questo dicevamo il lavoro di Tommasi va sostenuto, e
curato entro una identità nella quale è racchiuso un racconto che nei suoi riferimenti
in parte è anche il nostro. Così se la fatica di raccoglitore, cucitore,
dicitore di una cultura millenaria discettata nelle sue più diverse forme (vedi
tra le altre le pubblicazioni inerenti anche la conoscenza dell'uso
grammaticale del griko) è nella poesia che la sua restituzione, nell'intreccio
vitale dei suoi uomini e delle sue donne, dei suoi spazi antichi e delle sue
reminiscenze trova espressione piena.
Documento e insieme racconto poetico di pregevole fattura che ha goduto nel
2006 del riconoscimento del Premio "Ostana poesia in lingua madre", Alia Loja allora ha il merito di ridare
fuoco ancora a quei piccoli fuscelli di eternità cui questa voce nel respiro
libero delle sue presenze sa dare eco. Importante però, come raramente accade,
è saper ascoltare nella premessa alla sua poesia anche le intenzioni che
Tommasi mette in campo, nell'umiltà del rigore che è dello studioso, nel
fremito del poeta che viene dal bambino ancora alla ricerca e che è nella memoria,
in cui in realtà le stesse intenzioni di dettato e di resa entro un vocabolario
povero, provato a intrecciare nel modo più adatto "per far sentire la loro
musicalità e dolcezza ricorrendo ove possibile alla metrica e alle rime della
tradizione popolare", poi nei motivi sono state guidate dalle parole
stesse.
Il merito della freschezza che fuoriesce
da questi versi è nell'aver sfrondato l'ascolto da tutto ciò che avrebbe potuto
trattenerne l'ispirazione ("ricercatezze della lingua colta"- ad
esempio) per dare nell'essenzialità delle sue poche parole (alia aloja appunto) dispute, movimenti,
evocazioni di un'intera comunità. Se lo studioso ha saputo discerne cadenze e
sviluppi entro una struttura ben dosata nelle cinque sezioni in cui è suddivisa,
è nella splendore della parola la scrittura di una radice che come la parola
stessa va conservata e custodita "come un sacro crisma" ("sa'
krìsima vloimmeno"). Ed è nella prima, omonima sezione, la consegna
generazionale, la riflessione metapoetica di un mondo che nel suo canto tenta
ancora di incidersi, intrecciarsi come campo a presenza nei suoi colori, nei
suoi frutti, nelle sue corolle. Lingua del vissuto familiare e dell'infanzia,
lingua come detto di poche parole in cui però tutto è scritto e scrivibile, che
ha già nell'investitura di trasmissione che gli viene dal padre, e al padre
restituita, tutta la struggente consegna di un avanzare, di lumicino che possa
sostenere nel buio di un futuro a rischio (là dove le parole son "goccia
d'olio"-"ranta alai"). Nella consapevolezza e nella
determinazione di uno degli ultimi militi Tommasi
non recede avanzando con lui nella voce cui si impresta la millenaria
espressione di un'anima che ancora preme, ancora chiede nella dolcezza del suo
latte materno, di madre sì pronta ancora a nutrire, accudire, insegnare
preghiere e canzoni d'amore. E così è consolando, penetrando, rialzando, avendo
cura di chi cade perché "la più antica/, la prima che Dio ha fatto
risuonare" ("o pleo' paleo,/o pronò lô ka
fonàse o Teò") risvegliando in ogni dove la sua creazione in
una sola famiglia. Di qui l'opera di tessitura continua, di raccolta vivaddio
serena sempre seppure in un setaccio che ha la figura di un piccolo uccello
legato alla pietra che non può volare. Eppure bisognerebbe comprendere fin
dove, fin quando è possibile il volo verrebbe da chiedersi, Tommasi abile a
camuffarsi anche in questo risolvendosi sempre nella parola stessa a partire da
chi in quella terra "ha trovato nuova dimora" e ricordato
nell'arrivo, nella speranza, nella costruzione faticosa di terreni, case, nella
preghiere finanche con cui sono stati allevati i figli. E canzoni di versi
antichi allora ad asciugare lacrime, investititi e fecondati da una terra
pienamente incarnata; vivi entro "tre parole nella mente/nella mano pochi
semi/e d'amore una scintilla/che di fuoco accenda il cuore" ("tria
loja ecé ston nu,/tri sporu ecè sti' ch'era, mia spitta sti' kardia/na nàtsome
lumera").
Perché anche una lingua non scritta resta,
la radice appunto avendo tutto intrecciata nel cuore a ciò che ci rende umani.
Lingua che resta nella dilatazione di atmosfere, luoghi, incontri, dinamiche di
vita nel cui affondo il griko ci sa investire, dai racconti e dalle scaramucce
d'amore, dalle liti tra commari, dalle aspirazioni personali e familiari ben
impresse sulla carta, l'amore, il dolore, tutta l'espressione del sentire e del
soffrire umano a illuminare come le stelle la notte in quel silenzio, in quella
suggestione in cui è tutto il nostro specchio. Lo sguardo di Tommasi sempre al
servizio della parola nell'incarnazione
presente della memoria ha il dono allora a proposito di specchio di restituirsi
nella dilatazione nelle sue modalità d'origine, nulla ascrivendo a se stesso,
la modulazione del cantare incisa nella favolistica espressione dei suoi riti
antichi, dei suoi cori riaccesi nelle ombre e nelle luci di una partecipazione
attiva di tutte le sue figure. Ecco allora il ricorso ai corteggiamenti e agli
intrecci d'amore nel dire sempiterno dei suoi modelli, la citazione dei
cantastorie, il sussurrare lirico di una creazione nell'elegia dei suoi
incantamenti, di quei timori, di quelle arsure da sempre nella spinta all'evocazione
del suo Signore. Giacché la fede riflessa è una fede rimessa, accolta,
custodita nell'accoglienza della preghiera, nel dialogo umile col suo Fattore,
nel desiderio di un legame sempre aperto col figlio, uomo-Dio (non corpo
disfatto a terra) che dalla carne ha levato la carne nelle braccia del Padre
alle nostre aspirazioni mostrando la via. E struggente è la remissione che
Tommasi sa innalzare nella fedeltà al suo griko, nella confidenza dell'ascolto,
lingua in cielo accolta per ciò che è, per questo cara nella bellezza della sua
voce onesta e semplice, povera. Il canto della bellezza è un canto dunque di
una gente che sa nella nascita di ogni giorno, pur nella fatica, pur nella
contraddittorietà della propria condizione, la letizia della consegna cui a
ognuno è data in quella dimora del Padre che è ovunque, nel cuore, nel cielo,
nelle chiese ma soprattutto negli ultimi. Anche per questo di contro l'atto di
accusa, sommesso forse ma nella costanza per questo più forte, è contro
l'incalzare di una modernità che sovente nelle promesse di sviluppo va a celare
i suoi risvolti dolorosi, la sacralità coi suoi uomini, le sue donne, le sue
tradizioni sacrificata alla bestia del profitto ("La bestia ha morso anche
la nostra terra/ con i suoi denti d'oro"- "Dàkkase puru i ch'òrama/
ma ta dòntia krusà") sapendo attingere bene tra l'altro al suo immaginario
antico, classico nelle sue figure e nei suoi riferimenti di fiaba che si
trasforma in dramma. Così, di nuovo, la salvezza può venire dai bambini cui le
ultime sezioni forse non a caso sono dedicate, la quarta "Biumbò" e
l'ultima "O intartieni" ("L'intrattieni"). Nella prima la
presa in prestito del "vecchio gioco- spingere su è giù il
bambino seduto a cavalcioni sulle ginocchia dell'adulto accompagnando il
movimento col ritmo di una filastrocca bium-bò-bium-bò..- riempiendo così il
ritmo tradizionale di nuovi motivi" come salace occasione di insegnamento
del griko, e dunque ripetiamo di una identità; nella seconda, nello spunto
ancora dalla tradizione, nell'enigma di quell' intrattieni usato per allontanare i bambini da un mondo adulto che
li vuole preservare nelle particolarità delle circostanze.
Ancora molto, tanto ci sarebbe da dire su
questa poesia,soprattutto su questo mondo che si va dimenticando, scontando
forse anche le disattenzioni di una cultura non più nell'esercizio e nella ricucitura di
motivazioni ed interrogazioni forti, urgenti, plausibili. che va lasciando
sovente a poche figure il compito che le spetterebbe, quello della cura e della
salvaguardia in sé della società che dovrebbe esprimere a partire dalle sue
urgenze, e dai suoi bisogni. Siamo grati perciò intanto a Tommasi per l'amore
espresso nella sua fatica a cui nel griko va il nostro augurio più caro,
riportando, aggiungendo soltanto riguardo la traduzione da lui stessa curata la
non riproduzione della rima, la sua libertà nello sforzo comunque del
mantenimento del ritmo nella fedeltà "alla sostanza delle parole". Infine,
per chiunque volesse accostarsi alla conoscenza del griko, questo il blog
condiviso col figlio Eugenio: www.ciuricepedi.it.
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