ANGELA AMBROSINI,
I VERSI DI GABRIELLA FRENNA: UN’ECFRASI INESAUSTA
in “Contributi per la
Storia della Letteratura Italiana” dal secondo novecento ai giorni nostri
VOLUME IV, Terza Edizione,
Guido Miano Editore, maggio 2020, pp. 190-193.
Gabriella Frenna
(Messina) poetessa, critica d’arte e figlia del celebre mosaicista Michele
Frenna, risiede fin dall’infanzia a Palermo. Ha pubblicato i libri di poesie: La serie dello Zodiaco nell’elaborazione
musiva (2002), La rosa (2005), Generosa Natura (2008), tradotto in
quattro lingue, Arcano splendore (2008),
Il croco (2010), L’incontro dai mosaici alle poesie (2016), Sguardo d’amore (2018), nonché il libro di narrativa Il fascino della valle (2003). Ha curato e pubblicato vari studi monografici
su poeti e artisti mosaicisti tra cui: Orazio Tanelli, Sintesi dell’antico e del moderno nei mosaici di Michele Frenna
(2002), L’Eremo Italico di Carmine Manzi (2004),
La critica di Leonardo Selvaggi sull’arte
e sulla letteratura frenniana (2006), L’anima
lirica e storica di Brandisio Andolfi (2007), L’anelito spirituale di Ernesto Papandrea (2009), Leonardo
Selvaggi, Dai mosaici alla poesia
(2009), La ragione e il sentimento nelle
opere di Leonardo Selvaggi (2011), Mosaico
di San Calogero di Naro (2012).
Una vocazione sottile per il raccoglimento
religioso, costantemente filtrato attraverso l’aspetto fenomenico e
circostanziale dell’esistenza, pervade i versi di Gabriella Frenna che, in un
duetto incalzante con le raffigurazioni musive del padre Michele, indaga quello
che il critico Angelo Manitta felicemente definisce il “rapporto
bipolare…uomo-gestualità quotidiana” (dalla presentazione alla raccolta La rosa). Senza toni di solenne
vaticinio l’autrice “rivela…il suo desiderio di addentrarsi nell’essenza
conoscitiva, di proiettarsi verso il mondo trascendentale e di evidenziarlo
insieme con la propria visione realistica” (Guido Miano da Dizionario Autori
Italiani Contemporanei, 2017) e attraverso una versificazione lineare che
denota predilezione per la sequenza soggetto-verbo-complemento, scorrono
riflessioni e immagini con un andamento di prosa forse inconsciamente ispirato
alla struttura narrativa stessa dei mosaici del padre, di modo che “l’una
scrive in poesia ciò che il padre esprime con quell’arte musiva che definirei
di ‘genere’ perché rappresentative entrambe di scene di vita quotidiana, di
carattere aneddotico, con fedeltà di minuta riproduzione dei particolari” (Luigi
Ruggeri dalla presentazione alla raccolta Sguardo
d’amore).
Come Luciano Erba, anche la nostra interroga
“l’alfabeto delle cose” in un susseguirsi di immagini e riferimenti alla natura
e alla quotidianità così concreti e referenziali da prosciugare il verso, il
più delle volte, da sussurrate implicazioni metaforiche. Unica eccezione: il
mare. Elemento metaforico per eccellenza legato al ripetersi ciclico della
natura e del fenomeno non in quanto tale, ma piuttosto nella sua sostanza
extrafenomenica, il mare è, come osserva il critico Manitta, “espressione di un
Nulla cosmico che riesce a contenere il Tutto” (dalla presentazione alla
raccolta La rosa). Di qui la propensione dell’autrice alla
concatenazione lessicale di un concetto unico: “Infinite distese marine /
spazio profondo, / dimensione eterea / tra cielo e terra” (Incantevole
estate) o alla circolarità strutturale di alcune liriche: vedasi ad esempio
il primo verso della poesia Il mare: “Ascoltare il leggiadro rumore del
mare”, annodato al verso finale “insieme al flebile rumore del mare”. In tale ambito si colloca, ad esempio, anche
la lirica Il gioco del mare (dalla raccolta citata), nella quale la
meditazione spirituale va a convergere sulla parola di chiusura dell’ultimo
verso, non a caso corrispondente all’aggettivo “infinito” che qui si veste
anche del suo valore nominale. “Onde marine si rifrangono / con forza erosiva
sull’irta scogliera. / Alti spruzzi disperdono piccole gocce / riponendo bianca
schiuma / nel fragoroso, immenso mare. / Un bianco alone s’allarga / vicino
alle sontuose rocce / attenuando la corsa del mare / il dirompente ondeggiare.
/ Tutto si placa, in trepida attesa / del gioco rumoroso del mare / della
corrente che alimenta gli spruzzi / tra alte onde nel mare infinito”.
Il
tempestoso carattere visuale dei versi, sostenuto da un’aggettivazione di
matrice romantica, pare stemperarsi e placarsi nel richiamo dell’immensità
insito in chiusura di strofa. È questo uno stilema abbastanza frequente nella
produzione della Frenna, secondo uno schema tematico in un certo senso simile a
quello del genere lirico giapponese dell’haiku,
genere nel quale, tuttavia, l’elemento nominale nevralgico (il cosiddetto kigo), è rigorosamente riferito a un concreto elemento della natura nella
stagione cantata dal poeta. Al contrario, i versi della Frenna, incardinano,
normalmente in chiusura, un lessema astratto, spesso l’unico non strettamente
denotativo e non descrittivo, che si fa parola chiave, sia essa sostantivo o
aggettivo, alla quale soggiace la cosmovisione implicita di quel singolo
componimento: si vedano ad esempio i termini “universo”, “amore”, “creato”,
“creazioni”, “perenni”, o “cuore”. Altrove campeggiano, come perno o a volte
come titolo della lirica, termini specialistici strettamente correlati
all’attività figurativa paterna e persino alla critica di settore sulla sua
opera (“tassello”, “verdino”, “estro musivo”, “visione musiva”, “espressione
musiva”, “artista creatore”, “estimatori”, “fruitore”). L’occhio della poetessa
si sofferma in simbiosi emotiva non solo sul dettato narrativo dei mosaici, ma
anche sulla corrispondente esegesi da altri operata, come ad esempio nella
lirica Volgere lo sguardo (dalla raccolta Sguardo d’amore) dove
il titolo si replica in anafora strutturale nell’elemento bimembre “Volgere lo
sguardo / verso opere musive” lungo tutta l’estensione del componimento. La
lirica Estimatori (dalla silloge citata) si fa portavoce in forma
poetica di una vera e propria recensione sulla produzione del padre Michele:
“Piccoli e grandi estimatori / delle opere musive / esprimono le emozioni / che
ogni piccolo mosaico / manifesta allo sguardo / sorpreso e incantato. /…/ Un
plauso si volge / all’artista creatore / all’inesauribile estro, / al suo
racconto di vita, / all’espressione musiva”.
Come può evincersi anche dalla succitata
poesia, “creato” e “creatore” sono lessemi ricorrenti nelle poesie di
Gabriella, a voler ribadire la spinta religiosa della manifestazione artistica
e facciamo nostra in tal senso l’affermazione di Luigi Ruggeri: “In forza di
questa profonda analogia tra l’atto creativo e quello di Dio è favorito
l’incontro con il Creatore e la fonte dell’essere, come origine e fine della
creazione” (dalla presentazione alla raccolta L’incontro dai mosaici alle
poesie). Di qui la serena, mistica tensione di versi come i seguenti “I
colori dei fiori / rallegrano lo sguardo /l’animo s’innalza / in armonia col
creato” (La primavera dalla raccolta Arcano splendore). Da notare
che anche nella prevalenza del verso breve, sovente il settenario, le liriche
frenninane sembrano ancora recare l’impronta dell’haiku, laddove il microcosmo cantato non è, come negli haiku, direttamente rivolto alla natura,
ma alla traduzione visiva che della natura opera Michele Frenna nei suoi mosaici.
Si potrebbe individuare un rapporto, un comparatismo inesausto, nelle poesie di
Gabriella, tra poesia e linguaggio visivo, una sorta di ecfrasi ora dichiarata
e ora tacita, sottintesa alla contemplazione implicita delle creazioni paterne.
Un testo esemplare è la lirica L’incontro affiancata all’opera del padre
che reca lo stesso titolo e della quale i versi sono una perfetta, consapevole
trasposizione linguistica. “Scenari marini / trasparenti e verdini / ritratti
nel mosaico / col gioco gioioso / di due sommozzatori / tra squali e delfini. /
Il gioco sereno / della coppia nell’acqua / salva il pensiero / dell’artista
musivo…” (dalla raccolta L’incontro dai mosaici alle poesie). Difficile è a volte stabilire il discrimine
tra la visione diretta dell’opera musiva e la sua impronta mentale.
Imperdonabile sarebbe omettere l’ampia e
sentita produzione lirica in memoria della sorella Rosanna prematuramente
scomparsa e alla quale è intitolato, in un gioco di parole, il volume La
rosa, a lei offerto non solo fin dai versi in anteporta: “Il suo nome è
inciso / in una rosa vermiglia, / il suo dolce ricordo / è impresso nel cuore”
ma, ancor prima, come in una fuga di specchi, fin dall’immagine in copertina
del mosaico “La Rosa” (1977) del padre Michele. Tuttavia, al di là del dolore e
del rimpianto incolmabile per la perdita subita, si fa strada una concezione
sapienziale della dimensione umana in virtù di una fede non ostentata ma
intimamente distillata proprio per mezzo della sofferenza: “…La vita è imprevedibile
/ e quando meno speri / le catene si spezzano / e la buona sorte vedi. // Un
brutto periodo / è finalmente passato / non tutto era nero / qualcosa ti ha
lasciato”. (A Rosalia … come in un sogno). Il dolore si dirada
d’improvviso e alla vista di “una terrazza fiorita /…/ un simbolo diventa / la
‘regina dei fiori’ / e un ricordo riaffiora / dal profondo del cuore” (La
rosa). Di nuovo il lessema “cuore” contiene e amplifica un universo oltre
il transitorio e l’effimero e facciamo eco alle parole di Leonardo Selvaggi: “… Il
sentimento dei ricordi diventa vita piena, si riempie di quello che si ha in
tutti i momenti dei nostri giorni” (dal saggio La critica di Leonardo
Selvaggi sull’arte e sulla letteratura frenniana).
Angela
Ambrosini
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