Pasquale Ciboddo
ANDAR VIA
Recensione di Marcella Mellea
Pasquale Ciboddo
ANDAR VIA
Recensione di Marcella Mellea
Andar
via, l’ultima raccolta poetica di Pasquale Ciboddo, è poesia lirica meditativa sui grandi temi della
vita. Il poeta si abbandona all’evocazione nostalgica di un tempo felice, pieno
di lavoro e fatica, ma ricco di valori e buoni sentimenti. Con un linguaggio
lineare ed essenziale, a tratti particolarmente asciutto, ma sempre musicale e fluido,
il poeta descrive l’aspro e meraviglioso paesaggio sardo, evoca la bellezza dei
luoghi, i colori, le condizioni climatiche, la fauna, la vegetazione, gli
uomini, i loro umori, gli antichi mestieri e – con decise ed evocative pennellate
impressionistiche – dipinge scene di lavoro nei campi. Ciboddo, attraverso i
suoi occhi e il suo sentire, dà voce alla sua magnifica terra, ne coglie le
bellezze, i moti dell’animo, i modi di vivere, le tradizioni, i ricordi e li
restituisce al lettore con autorevolezza espressiva, suggestione e magica
evocazione di atmosfere e sentimenti. Andar
via è tutto questo, ma non solo questo.
La
raccolta inizia con un ricordo di guerra, evocato dalla maestra Tonina. “La guerra / non prometteva nulla / solo pene
e miseria” (In memoria, 1942 - ‘43) – scrive il poeta –, essa trascina le
persone nella vergogna per la fame e l’inedia. Il tema della guerra, con la sua
violenza, – e la sua condanna – è presente in maniera decisa in diverse liriche
della silloge. Altra tematica ricorrente è quella del tempo, che avanza inesorabilmente;
infatti, dell’umano passaggio senza ritorno, solo l’immutabile sole è il grande
testimone, sotto la sua luce e le sue ombre, la vita dell’intera umanità scorre
giungendo alla morte, “meandro d’impatto /
che non si può scansare” (È meandro d’impatto). L’idea del tempo che passa è una
spina nel fianco, molto pungente. Il poeta si pone domande molto pesanti, che
rimangono senza risposte: “Che c’è di
concreto/ in questo arrabattarsi/ (in)vano per vivere/ se anche manne di befane/
dal cielo sono sempre/ più rare?” (Che c’è di concreto).
L’immensità, l’infinito, il mistero dell’universo, la bellezza del tramonto
frastornano il poeta: “Ne ho assorbito/
l’essenza/ anche se l’incedere/ di tempo inesorabile/ è assenza” (L’essenza). Il poeta crea qui grandi e pregevoli effetti
musicali. Tutto ritorna a Dio, siamo gocce di un mare infinito, la colpa è uno
dei mali della vita che costringe a vivere una quotidianità pervasa dall’inedia;
la dea parca è sempre pronta a tagliare con indifferenza i fili della vita. La
società contadina del passato, con le sue consuetudini, le sue tradizioni e la
sua saggezza, è fortemente idealizzata dal poeta; la sua semplicità e la sua genuinità
dovrebbero divenire modello d’ispirazione per le generazioni future.
Il
poeta è consapevole delle sue radici; egli ha percorso molta strada, ha
studiato, gode di una buona posizione, ma non rinnega le sue origini, anzi ne è
orgoglioso. I suoi valori sono legati a quella società di mandriani e pecorai, là
risiedono le sue radici: “Ma io ho
scritto/ la storia di radici/ d’una civiltà agreste,/ antica come il tempo,/
ricca di uomini saggi,/ madre di ogni sapere./ Utile e giusta/ per un vivere
sano/ sereno e ordinato” (...ma io ho
scritto). L’eremita che muore solo in una conca diventa l’emblema
dell’umana solitudine: “Ognuno muore / come può / senza diletto / in
strane circostanze / d’umana esistenza” (Ognuno muore). Il progresso ha portato con se
l’inquinamento, distruggendo l’ecosistema, “l’uomo
saggio / osserva impotente / la distruzione totale / di sano alimento vitale. /
E muore sconsolato/ di vera inedia” (E muore sconsolato).
Chi
potrà negare è il canto della solitudine dell’uomo: egli è
solo sulla faccia della terra; il poeta sente tutta l’amarezza della solitudine
che in qualche modo è costretto ad accettare per continuare a vivere. Anche E cantare è l’elogio alla solitudine, poiché solo
attraverso la solitudine si può ascoltare il silenzio dell’anima “…Solo chi si isola / e si ascolta dentro /
può recepire i segreti / del cuore e dell’anima / e cantare / virtù e pregi /
in libri da sfogliare / nella poesia del silenzio”; il poeta mantiene vivo
nel cuore il ricordo degli attrezzi contadini “…ancora intatti / nel museo
del cuore / e la mente” (Come dimenticare). Il passato è ricco di rumori, colori e amori – spesso non
corrisposti –, che danno pena e voglia di morire a volte, ma l’amore è una
forza dirompente “L’amore / è il motore /
che fa muovere il mondo. / Se dovesse
mancare / morirebbe in breve / l’umana stirpe” (Se dovesse mancare). Nei
ricordi del poeta tutto assume una dimensione vivida e reale; gli stazzi –
spesso evocati e citati in diverse liriche – rappresentano un luogo dell’anima,
simbolo di vita vera, di amore per la natura, di libertà. La natura della
Gallura, con i suoi colori cangianti, la sua bellezza, le sue alture, i torrenti,
i sassi, i profumi, gli animali, con la musica dei loro suoni, sono
protagonisti parlanti di tutta la silloge. Di grande bellezza evocativa,
musicalità e impatto emotivo è la poesia Nasce una dolcezza: “Ogni pianta di radura, / un prodigio / di
natura. / Emana profumo / nello sbocciare / e attira l’ape / nel suo volare. /
Da incontro di piacere / nasce una dolcezza / infinita / che sa di mistero”.
Il
poeta, pur traendo ispirazione dall’atmosfera bucolica del paesaggio sardo, del
quale descrive ogni dettaglio – anche il capraio, infatti, diventa una figura
idealizzata paragonabile alla figura biblica di San Giovanni –, volge il suo
sguardo empatico anche verso un’umanità sofferente e i tanti profughi di questo
nostro tempo. Su questo versante, sono tanti e diversi i temi d’ispirazione dell’autore:
la povertà, i migranti, i terremotati, la droga, l’inquinamento provocato dalle
industrie e dal consumo smodato dell’uomo, le vittime dell’olocausto. Quella di
Ciboddo diventa così poesia didattica, che offre pillole di saggezza e trasmette
messaggi positivi; senza sapienza o libertà, la vita è difficile da vivere. L’ape,
insetto laborioso fondamentale per la vita dell’umanità, è il simbolo per
eccellenza di bellezza, di mistero, di prosecuzione della vita “…È il mistero della vita / che Dio non ha
svelato. / L’ape impollina il fiore / che dà i frutti / necessari alla
sopravvivenza / di ogni essere vivente.” (L’ape sul fiore a sottrarre il
nettare). L’autore ha una
venerazione per questa piccola creatura, in quanto l’ape è l’insetto più
importante e più antico, la sua scomparsa rappresenterebbe la fine
dell’umanità.
Tutte
le poesie della silloge sono pervase da profonda fede: la vita è dura e difficile
da vivere, il poeta ha molti dubbi e si interroga su tante cose a cui non sa
dare risposte: forse sarebbe meglio, allora, non viverla proprio la vita, se
non fosse per la fede e la speranza in Dio che, sole, ci possono salvare “Ma la fede nel Signore / ci salverà” (Si
nasce e si vive).
Andar via si
caratterizza indubbiamente per una struttura stilistica importante e di
pregevole fattura. Il poetare di Ciboddo assume un ritmo – nei suoi versi
delicati e profondi, ricchi di spiritualità – che scorre sull’orlo
dell’esistenzialismo – vestito a tratti di malinconica nostalgia – e
scandaglia diverse tematiche umane, ponendo in rilievo l’incapacità della
società attuale di congiungersi con l’esistenza stessa: “è un vivere primitivo / che offusca la mente / ti nega la cultura, / e la poesia della vita” (La poesia della vita).
Andar via è una
silloge che tocca punte di alto lirismo, politematica e polisemantica: essa,
infatti, è articolata su più temi, intrecciata di più motivi. La sua ricchezza
si esplica in una vasta gamma di sfumature, di temi e significati, che
attraversano le corde dell’anima dell’autore e che vanno dalla sensibilità
verso la Natura – la quale trasfigura l’essere in creatura – all’inquietudine
interiore, alle domande esistenziali (e senza risposta), dalla tensione civile
alla dimensione etica e spirituale.
La libertà metrica, con cui
vengono espressi i versi delle liriche che compongono la silloge, crea una
struttura continua che riproduce il fluire ininterrotto dell’immaginazione
dell’autore e si configura come un procedimento attraverso cui il poeta suscita
in chi legge la sensazione dell’infinito e, a volte, dell’imponderabile. In
questo poetare emerge la personalità spiccatamente poetica dell’autore, specie
nel modo in cui esplora e compenetra il mondo – e le vicende del mondo –, nel
lirismo dell’immaginazione che diviene possibilità contro gli ostacoli della
vita, un valicare il tempo, un viaggiare oltre il tempo, che ha ali per volare,
che è forza e sogno, emozione espressa con immediatezza e spontaneità creativa
e suggestiva. Andar via diviene così
elegia di un sentimento a ritroso, dove la nostalgia si disvela come sentimento
etico, in cui il trascorso non muore, ma rivive portando con sé un insegnamento
etico e civile. Il silenzio del poeta è lo struggimento dei pensieri, che
sopravvivono al tempo, ma è anche lo strumento, l’atteggiamento, per restare
umani di fronte ai tanti rumori del mondo, “e
cantare / virtù e pregi / in libri da sfogliare / nella poesia del silenzio”.
Marcella Mellea
Pasquale Ciboddo, Andar via,
prefazione di Maria Rizzi, Guido Miano Editore, Milano 2021, pp. 136, isbn
978-88-31497-75-6, mianoposta@gmail.com.
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