martedì 22 gennaio 2013

SUL LAGO DI PUCCINI CON LA TURANDOT

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 NAZARIO PARDINI

 

Turandot, dramma lirico in tre atti

di

Giacomo Puccini







Puccini al tempo della Turandot.

  


Sintesi

 

 A Pechino la Principessa Turandot ha giurato di sposare solo colui che saprà risolvere tre enigmi. Chi sbaglia verrà condannato a morte. Per vendicare le brutalità commesse su una sua antenata ha giurato che non apparterrà mai a nessuno. La folla sta assistendo alla decapitazione del Principe di Persia. E un vecchio cieco, accompagnato dalla schiava Liù, viene travolto. In suo soccorso interviene Calaf, principe in esilio che tutti credono morto, e riconosce in lui il proprio padre, Timur. Calaf si innamora subito di Turandot e decide di affrontare la prova. Timur, Liù e i tre ministri dell'Imperatore, Ping, Pong e Pang, cercano, inutilmente, di dissuaderlo: ma Calaf accetta la sfida e riesce a risolvere i tre enigmi. La Principessa tenta di tutto per non essere data in sposa allo straniero. Allora è Calaf a proporre un enigma: se Turandot, prima dell’alba, scoprirà il suo nome, lui morirà; altrimenti sarà suo sposo.  Turandot cerca di scoprirlo da Liù, che è innamorata di Calaf, ma pur di non rivelarlo si uccide. Nel cuore di Turandot si è insinuato un sentimento d'amore per lo straniero, soprattutto dopo il sacrificio di Liù e quando Calaf le rivela il suo nome, Turandot annuncia al padre che lo straniero si chiama "Amore". La folla gioisce ed acclama.

 

 

La Turandot impegna Puccini per vari anni fra alti e bassi a causa “di disturbi alla gola che nell'ottobre 1924 saranno diagnosticati come cancro. Verso la fine del 1923 l'opera è quasi compiuta, ma ancora manca il duetto finale, il cui testo viene faticosamente rielaborato”[1]. Prima di essere ricoverato a Bruxelles in una clinica specializzata, Puccini prende accordi con Toscanini per la prima rappresentazione dell'opera, con la speranza di guarire e tornare presto dalla sua Turandot.

Ci lascerà, alcuni giorni dopo l'operazione, il 29 novembre 1924.

Ma procediamo con ordine.

Terminato il Trittico (Gianni Schicchi e, Suor Angelica e il Tabarro), nel 1918 a Puccini si presenta il problema di una scelta del nuovo soggetto da musicare. Fermamente convinto nel lavoro di collaborazione, dopo la morte nel 1906 di Giacosa e quindi lo scioglimento della coppia Giacosa-Illica, il Maestro sente il bisogno urgente di trovare degli affidabili librettisti; la sua scelta ricade sul drammaturgo Renato Simoni, come sostituto di Giacosa, e il veronese Giuseppe “Adami, il contraltare di Illica”1 che gli aveva già scritto La Rondine e Il Tabarro.
Fu lo stesso Simoni, con l'idea di presentare qualcosa di fantastico e di remoto interpretando un sentimento di umanità con una sfumatura moderna, a proporre “un soggetto genericamente ispirato al teatro di Carlo Gozzi”2, “e fu lo stesso Puccini a fermare la propria attenzione sulla fiaba cinese teatrale tragicomica Turandot3 del 1762. Per la lettura della fiaba utilizzano però la traduzione in italiano, eseguita da Andrea Maffei, “del testo di un adattamento realizzato da Schiller nel 1801”4.
Il libretto dell'opera di Puccini, Adami e Simoni, presenta però delle sorprendenti analogie con un mito degli indios amazzonici Cashinawa, aprendo così nuovi interrogativi sulle fonti a cui attinsero. Riporto qui un passaggio per me fondamentale che lega le due storie: 

<<Un tempo non c'erano né la luna, né le stelle, né l'arcobaleno, e la notte era completamente oscura. Questa situazione mutò a causa di una ragazza che si non si voleva sposare. Si chiamava Luna. Esasperata dalla sua ostinazione la madre la cacciò via. La ragazza errò a lungo piangendo, e quando volle rientrare in casa, la madre si rifiutò di aprirle: «Non ti resta che dormire fuori» gridò «così imparerai a non volerti sposare!». Disperata, la ragazza correva su e giù, batteva alla porta e singhiozzava. La madre si infuriò talmente per questo comportamento che prese un coltello da boscaglia, aprì alla figlia e le tagliò la testa... Durante la notte la testa rotola gemendo intorno alla capanna. Dopo essersi interrogata sul suo avvenire essa decide di trasformarsi in luna. «Così» pensò «mi vedranno solo di lontano>>5

I riferimenti sono chiari: entrambe non si vogliono sposare e anche Turandot, come una visione, si lascia ammirare solo da lontano e viene definita dalla folla pura come la luna.
Ma ci sono altri indizi che ci portano a credere che le fonti d'ispirazione siano altre come, per esempio, la simbologia lunare nella Grecia classica, la “scandalosa”Salome di Strauss presentata nel 1905 a Dresda e infine il dramma di Oscar Wilde.
Nella primavera del 1920 iniziano il lavoro con grande entusiasmo; alla fine di questo anno hanno già scritto la prima parte del libretto ma Puccini, come sempre, non è soddisfatto e prosegue la scrittura alternando momenti di sconforto, a momenti di propositi di rinuncia definitiva.
Precisamente un anno dopo Puccini decide di ridurre l'azione in solo due atti, diversamente da quanto deciso in precedenza da Adami e Simoni che, dagli iniziali cinque atti della fiaba originale, e i quattro di Schiller, erano già scesi a tre.  

<<Un altro elemento di discussione riguardava le maschere. In Gozzi sono quattro (Pantalone, Tartaglia, Brighella e Truffaldino)e, secondo la tradizione della commedia dell'arte le loro battute sono affidate all'improvvisazione degli attori che parlano, ovviamente, in veneziano. Schiller aveva invece scritto per esteso i dialoghi delle maschere, attenuandone, seppur di poco, il tono decisamente comico6.>> 

Adami e Simoni inizialmente accolgono l'idea delle maschere, rinunciando tuttavia al dialetto veneziano, poi le abbandonano per infine riprenderle sotto suggerimento di Puccini, senza però fare di loro, personaggi inopportuni e petulanti. Nascono le tre creature Ping, Pong e Pang, che agiscono sempre insieme e che trovano l'unica diversificazioni nella scelta delle voci (Pang e Pong sono tenori, Ping un baritono). Queste tre figure vengono contraddistinte da una grande ricchezza ritmica di rapidi passaggi pentatonici, e dall'efficacia di un linguaggio parlato, sottolineato dai giochi delle assonanze.
Non ci sono discussioni, invece, per quanto riguarda la figura di Liù, lontana dalla fastidiosa e pettegola Adelma di Gozzi, che probabilmente inventa lo stesso Simoni. Liù non è una regina decaduta, ma solo la schiava del re tartaro Timur, invaghita di Calaf, figlio di Timur e quindi anch'esso principe che un giorno le ha sorriso. Ma la sua importanza nella vicenda è un'altra: in contrapposizione con Turandot, rappresenta la dedizione, la generosità fino alla morte e la felicità raggiunta attraverso il sacrificio. La dolce ed eroica schiava, “cresce e diventa un nodo drammatico decisivo”7; è Puccini a scrivere i versi dell'ultima aria Tu che di gel sei cinta, convinto che debba essere il duetto clou dell'opera, quello in cui la principessa Turandot scioglie il suo ghiaccio. Nella tipologia del melodramma italiano era un'anomalia pensare ad un'opera di forte contenuto drammatico, come Turandot, conclusa dal lieto fine; ed è questa la caratteristica che preoccupò Puccini durante i quattro anni di lavoro.
Nel giugno del 1923 inizia l'ultimo atto che in novembre giunge alla morte di Liù e, alla fine di questo anno, termina l'orchestrazione dei primi due atti, portando quasi al compimento anche il terzo.
Purtroppo per Giacomo comincia il dolore alla gola e quindi il calvario che rallenta il lavoro.  A settembre del 1924 si incontra a Viareggio con Toscanini che avrebbe diretto l'opera alla Scala nell'aprile seguente. In ottobre si sottopone ad alcuni esami medici che rivelano un grave carcinoma alla faringe; i professori proteggono Puccini nascondendo la vera causa del suo male, con una falsa diagnosi di un papilloma sotto la base dell'epiglottide. Il 3 novembre parte per Bruxelles diretto in una clinica, pieno di speranza in una veloce guarigione e angosciato per la sua Turandot non ancora finita. Ma il nodo cruciale del dramma, che Puccini cercò invano di risolvere, è costituito dalla trasformazione della principessa Turandot, algida e sanguinaria, in una donna innamorata. Gli storici sostengono che il mancato finale della Turandot sia dipeso più dal venir meno della passione iniziale del Maestro che dai suoi problemi di salute. Penso invece che le due cose siano strettamente legate e che proprio il cancro, che si impossessò di lui, gli abbia creato quell’indebolimento interiore, ed un sentire insufficiente a tradursi in un finale di grande passione erotico-sentimentale, come richiedeva la sua Turandot.
Pochi giorni dopo la morte di Puccini, l'editore Ricordi affronta il problema della rappresentazione dell'opera: dapprima pensa di lasciarla incompiuta, ma in un secondo momento decide di affidare il compito a Franco Alfano, su suggerimento di Toscanini. All'inizio del nuovo anno Alfano invia il lavoro all'editore che, d'accordo col direttore, lo boccia in quanto non aveva considerato gli appunti lasciati da Puccini e viene invitato a rifare il finale che viene consegnato all'inizio di febbraio.
L'opera va in scena alla Scala di Milano il 25 aprile 1926 e in quell'occasione non viene eseguito il finale elaborato da Alfano e al termine della scena della morte di Liù Toscanini si interrompe e rivolgendosi al pubblico dice: “Qui finisce l'opera perché a questo punto il Maestro è morto”8, forse desiderio dello stesso Puccini.”.
 
 
Locandina di Ricordi in occasione della Prima di Turandot


Turandot  è un immenso affresco drammatico e musicale che Puccini non avrebbe potuto scrivere senza la sua lunga esperienza, “valido proprio per il suo assunto novecentesco, estetizzante, moderno”9, a conferma del patrimonio che ci ha lasciato sia sul piano melodico, orchestrale che vocale. Lui, con le sue consuete esigenze che lo portarono ad essere sempre indulgente con sé stesso e con i suoi collaboratori, e inseguìto da “un'inesorabile ansia di perfezione”10, trovò proprio in Turandot, forse con l'intuizione che quest'opera fosse destinata a restare l'ultima, il completamento di una brillante ed eccelsa carriera artistica.

 



[1]    E. RESCIGNO: Giacomo Puccini. Turandot.1998. Dramma lirico in tre atti. Di Giuseppe Adami e Renato Simoni. Ricordi. Roma. 1998. Pp. 11.
1    EDUARDO RESCIGNO: Giacomo Puccini. Turandot. Dramma lirico in tre atti di Giuseppe Adami e Renato Simoni. Ricordi.  Roma. 1998. Pp. 18.
2    Per la sua fiaba, Carlo Gozzi a sua volta prende spunto da una raccolta di fiabe persiane, da una novella della celebre raccolta Le mille e una notte, e accenna alcuni riferimenti ai numerosi racconti orientali anche della Russia; il nome stesso della protagonista  sembra derivare da Turan, che in persiano significa Terra dei Turchi.
3    E. RESCIGNO, 1998. p. 18.
4    Ibidem.
5    CLAUDE LÈVI-STRAUSS, in SANDRO CAPPELLETTO (a cura di), Giacomo Puccini. Turandot. Guida all'opera. Gremese Editore. Roma.  1988. Pp. 8-9.
6    E. RESCIGNO: 1998. Pp. 19
7    S. CAPPELLETTO: 1988. Pp. 22
8    ARTURO TOSCANINI in E. RESCIGNO. 1998. Pp.21.
9      SILVESTRO SEVERGNINI: Invito all'ascolto di Giacomo Puccini.    Mursia Editore. Milano. 1984. Pp. 182.
10    S. CAPPELLETTO. 1988. Pp. 18.
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 
 
 

2 commenti:

  1. Un luogo sicuramente adatto per ascoltare la buona musica e che fa rivedere le atmosfere tanto care anche al maestro Puccini.

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  2. Bellissima pagina, ricca di suggestioni che tengono nel sottofondo note di romanze in dimenticabili.
    Grazie
    Prof Angelo Bozzi

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