mercoledì 11 luglio 2018

DANIELA DI IORIO: "INTERVISTA PARTE FINALE" A F. CAMPEGIANI

Franco Campegiani,
collaboratore di Lèucade

La Filosofia degli archetipi nel saggio Ribaltamenti

di Daniela Di Iorio 
Oggi pubblichiamo la parte conclusiva della serie di interviste dedicate al saggio Ribaltamenti  del pensatore Franco Campegiani, che con quest’opera dà vita a una nuova Filosofia, la “Filosofia degli archetipi”
http://www.anaso.it/2018/07/09/la-filosofia-degli-archetipi-nel-saggio-ribaltamenti/














Il ritorno alla terra costituisce un argomento fondamentale del suo trattato. Come può definirsi la sua Filosofia?
 Noi siamo terrestri e non dovremmo dimenticarlo. Quando arriveremo su Marte diverremo marziani, ma la sostanza del discorso non cambierà. Apparteniamo al pianeta che ci ospita e non possiamo comportarci come se fosse il pianeta ad appartenere a noi. Detto ciò aggiungo che la mia critica alla modernità non è fondata sul vagheggiamento di un impossibile ritorno al passato. Ho grande ammirazione per Gustave Thibon e sono anch’io contadino per scelta di vita, ma le due generazioni che mi dividono da lui, nonché la mia area di appartenenza (i dintorni della megalopoli romana), han fatto si che io vivessi non la crisi, ma l’agonia e la fine della cultura contadina. Ciò può consentirmi di vederla distaccata dalla storia, riconoscendo in essa un archetipo molto più che una cultura. La mia non è, né può essere, filosofia rurale, bensì filosofia di archetipi, di quegli archetipi che non coincidono con nessuna fase storica, pur avendo la facoltà di calarsi in qualunque tempo storico e in qualsiasi cultura. La civiltà contadina ha saputo rinnovarsi decine di volte nel corso della sua storia millenaria, aderendo a molteplici culture, proprio perché è un archetipo, e un archetipo può essere posto fra parentesi, ma non può sparire dal mondo. L’umanità può sentire di appartenere alla terra a prescindere dai propri modelli culturali. E’ un sentire spirituale sperimentabile sempre e comunque, anche vivendo al quarantesimo piano di un grattacielo di New York o di Dubai. Sta qui la rinascita della civiltà contadina. In discussione non è il progresso, ma la nostra capacità di essere all’altezza morale del progresso raggiunto. L’aridità del mondo tecnologico non è dovuta alla tecnologia, ma alla nostra aridità di uomini, alla nostra pigrizia morale e mentale. Io non ho rimpianti per il passato. Non voglio tornare alla terra, voglio scoprire che la terra è qui. Non voglio tornare alle origini, ma svegliarmi nelle origini che non ci hanno abbandonato mai. Noi viviamo sempre e comunque nelle origini, nella creazione perenne, nella potenza dell’iniziale big bang. Ogni fiore, ogni giorno, ogni bimbo che nasce è un nuovo big bang. Quale nostalgia per le radici? Non danno nostalgia le radici. Loro si rinnovano, è questa la loro peculiarità. Altro che ancoraggio al passato!

 Nel suo saggio è sviluppato un curioso collegamento fra il tramonto della civiltà rurale e i disagi vissuti dai due generi nell’attuale civiltà.
Madre Terra è la figura simbolica centrale dell’universo contadino, bisogna partire da qui. E dal momento che non c’è terra senza cielo, i due poli viaggiano all’unisono in quella civiltà: Yin e Yang fusi in un solo respiro. Nelle culture rurali, matriarcato e patriarcato convivono serenamente tra di loro, senza alcuna prevalenza dell’uno sull’altro. Si dirà che la realtà storica raramente coincide con l’armonia degli archetipi, ed è vero, ma lo scompiglio accaduto in età moderna, a partire dall’avvento della società industriale, ha superato ogni limite. In tanto sconquasso, è accaduto che le donne non hanno trovato immediatamente lavoro nelle fabbriche e ciò ha creato un problema inesistente nelle precedenti culture contadine. Da qui la lotta di emancipazione delle donne, tese a farsi spazio in un mondo oramai  allontanatosi dai principi femminili. Un mondo disperatamente fallico e di conseguenza disperatamente uterino. Non un mondo maschile, badate, giacché il maschile cerca il femminile e viceversa, bensì fallico, tutto proiettato all’esterno, in totale assenza del grembo, dell’alveo, della dimensione interiore, uterina. Per ristabilire l’equilibrio occorrerebbe capovolgere ogni luogo comune, convertendo gli uomini al femminismo e le donne al maschilismo. E sarebbe l’armonia.

Lei cita Pasolini più volte nel trattato. Anche a proposito del suo amore per i semplici, per gli analfabeti, per i baraccati eredi della cultura contadina.
Pasolini vedeva nell’analfabeta un essere non ancora imbarbarito dalla cultura, un essere autentico, dotato di saggezza innata e di una grazia che, secondo lui, solo ad altissimi livelli culturali è possibile recuperare. Nell’ultimo capitolo del libro, io parlo del risveglio della saggezza atavica: un risveglio di ordine morale che a mio parere prescinde totalmente dall’evoluzione culturale, intellettuale.

Ci parli di questa saggezza atavica.
Il mito prometeico accenna ad un tempo in cui gli uomini erano ammessi alla presenza degli dei in momenti di grande convivialità. Poi Zeus – per gelosia o altro – nascose il fuoco agli umani e il Titano lo rubò a sua volta agli dei per farne di nuovo dono all’umanità. Inutile gesto magnanimo. Un pregiudizio filosofico pose ben presto un divieto d’accesso alla Sapienza, considerata dai Greci appannaggio degli dei, lasciando agli umani la sola possibilità di essere amici della Sapienza. In ciò consisterebbe la filo-sophia, ben diversa dalla sophia di cui gli uomini avevano smarrito memoria, ma di cui erano stati depositari nei mitici tempi in cui avevano il divino con sé. La filo-sofia si è impadronita del campo, convinta che la ragione, da sola, possa bastare, e ciò ha reso gli uomini monocordi, unidimensionali, assolutamente non problematici, contrariamente a quanto si è sempre voluto far credere. Non si diviene problematici interrompendo il dialogo interiore con la fiamma che ciascuno ha con sé. La vera Sapienza non viene dai libri, ma è succhiata dall’uomo insieme al latte materno, per il semplice fatto di nascere umano.

Si direbbe una rivalutazione delle culture native e addirittura sciamaniche. Che cosa pensa della psicologia infantile e del pensiero prelogico in generale?


Il pensiero prelogico, mitico-sapienziale (nativo o sciamanico, o come altro lo si voglia chiamare), non è pensiero ingenuo, come è luogo comune credere, ma è pensiero fondato sul confronto duale: ego ed alterego, ragione e spirito in relazione tra di loro. Pensiamo al “gioco del perché” del fanciullo. Nulla di meno ingenuo e di più smaliziato. Il bambino s’interroga e si risponde, perché, contrariamente a Socrate che “sa di non sapere” (ma occorrerebbe mettere meglio a fuoco questa locuzione), egli “non sa di sapere”. Così si sdoppia e parla con se stesso, consapevole della propria natura duale. Cosa gli accade da adulto? Gli accade che perde smalto lasciandosi rubare a se stesso dalle pressanti responsabilità sociali. In tal modo l’adulto si adultera, lasciando morire nella crescita il bambino che ha in sé.

2 commenti:

  1. Carissimo Nazario, ora che il tormentone è finito, sento il bisogno di ringraziare soprattutto te per l'incoraggiamento, l'ospitalità e la comprensione ricevuta. Se il mio pensiero è oggi un tantino conosciuto, gran parte del merito è tuo. Rileggo spesso la tua prefazione e mi commuovo. La terra, a dispetto delle offese ricevute è tutt'oggi sinonimo di armonia, lieta se il proprio figlio degenere torna ad amarla, a pensarla "come vegetazione utile alla respirazione, come ruscelli chiari e freschi per dissetare, come terra generosa nel dare frutti sani del color del tramonto e dal sapore eternamente piacevole e nutriente... un ambiente in simbiotica empatia con coloro che ripescano dall'antico quel nerbo, da cui l'umanità si è scostata, per farne un inno al pane di memoria varujaniana da trasferire oltre i limiti del tempo". Chapeau.
    Franco

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  2. Grazie Franco,
    per le tue commoventi parole e per acer citato una frase della mia prefazione che contiene il cuore del mio pensiero poetico e non solo..

    Nazario

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