lunedì 30 luglio 2018

M. L. DANIELE TOFFANIN E R. ONANO: "ARTICOLI CRITICI"


Ricordando Gemma Menigatti Scarselli, “amica forte e dolce”
Le testimonianze di Rossano Onano e Maria Luisa Daniele Toffanin
Da NUOVA TRIBUNA LETTERARIA

Anni ’80: Veniero Scarselli e Gemma incontrati a Modena insieme, per la prima volta. Veniero era l’ospite principale, vincitore di un premio letterario. Invitato a prendere parola, lo fece senza fingere ritrosia e, anzi, debordando un poco in riferimento alle proprie virtù poetiche e marinaresche. Veniero era fatto così, prendere o lasciare. Gemma, casualmente seduta accanto a me, nell’occasione guardava Veniero con tenerezza, come fosse una mamma che assiste alla recita scolastica del proprio bambino.
Parlando a se stessa, pronunciò a voce alta una frase riferita al marito. Una frase dolcissima e paziente, che non ho più dimenticato: “E pensare che, da solo, non è capace nemmeno di vestirsi”. Gemma era fatta così, insieme sposa e mamma. Anche in riferimento a lei: prendere o lasciare. Veniero l’ha presa, senza più staccarsene. Gemma era donna di carnagione calda, di colorito fammingo. Aveva cuore e testa. Assecondava le smanie comportamentali di Veniero per amore di gioco, però attenta a smorzare i toni sempre accesi di lui. Adottando il linguaggio marinaresco caro a Veniero, dirò che l’amico era la vela che garrisce al vento, Gemma era il timone. Nel gioco di coppia, lui compariva come figura dominante e però adattava il proprio comportamento al volere di lei. Dei due, era Gemma la persona più forte. Veniero ne era affascinato. Ora che Veniero e Gemma se ne sono andati, mi accorgo di non riuscire a pensare all’uno disgiunto dall’altra, e viceversa. Credo, quia absurdum. Mi affdo a Tertulliano, pensatore poco attuale, per
credere all’assurdità di un luogo, Altrove, che contenga le persone che ho amato. Rivedrò Veniero e Gemma ancora vicini, complice nell’Altrove, sorridenti.

Rossano Onano

Sono ad Erice, alcuni anni fa, nel teatro Gebel Hamed, dove si sta svolgendo la premiazione del Premio Letterario “L’anfora  di Calliope” e sto aspettando il mio turno, pensando al freddo che sento: ma è possibile una cosa del genere in Sicilia, a marzo?
Improvvisamente, una voce dal palco dice «Leggerò alcune poesie tratte da Mia diletta sposa». Subito la mia attenzione si rivolge a questa figura femminile a me poco nota, ma di cui conoscevo il marito Veniero Scarselli, incrociato al Premio Cinque Terre (dove fu premiato proprio con la pubblicazione di questo poemetto), ora qui  insignito alla memoria, con motivazione redatta da Franco Campegiani. Mi dico: “Che donna coraggiosa, lui è da poco mancato e lei è già qui, ambasciatrice della sua poesia”. Questo fatto mi commuove e mi congratulo con lei. Così è naturale, poi, ritrovarmi a cena con Gemma al mio fianco ed accendere con lei un dialogo su comuni ricordi di premi, di personaggi del mondo poetico e soprattutto su
Veniero, di cui mi era ben noto lo spessore artistico e intellettuale. Come se ci frequentassimo da tempo, cominciamo a collaborare e a stendere alcune nostre comuni convinzioni, culturali e umane, sulle figure di questo mondo della poesia. Ne nasce la bella conversazione “Fra le nuvole di Erice”, apparsa a suo tempo su La Nuova Tribuna Letteraria. Ma il piacere dello stare insieme non si spegne ad Erice né tra le pagine della rivista, continua ad essere vivo nella reciproca presenza nelle nostre vite. Gemma è ospite a casa mia e gode di raggiungere Badia Polesine, con me e mio marito Massimo, curiosa com’era culturalmente. Insieme visitiamo quello splendido teatro che è la Piccola Fenice di Badia, ammiriamo la bella mostra dedicata all’impressionista Balzan e l’abbazia benedettina della Vangadizza, ora restaurata. Gemma è entusiasta di tutto, pure della presentazione della rivista polesana Ventaglio90 organizzata in quel luogo per noi appartenenti al Cenacolo di poesia di Praglia. Sempre con questo suo amore e generosità, arriva al Centro Universitario di Padova, l’8 giugno 2016, per la presentazione di Florilegi femminili controvento. Viene da Arezzo: vuole leggere la sua recensione al mio libro, dimostrando grande spirito critico e affermando in questo modo l’affetto che aveva per me e per la mia poesia. Io la seguo, col pensiero, nei vari premi cui aveva inviato le opere del marito, ammirandone la volontà di tener viva la sua arte poetica e farla conoscere ovunque. E incontri quasi quotidiani abbiamo attraverso internet, tramite il quale mi invia locandine di concorsi letterari. Alle volte è stata lei a ritirare i miei premi, insieme a quelli per suo marito, in
questa sua vocazione quasi di nomadismo culturale. Si stava insomma sempre insieme, in vari modi. Ora che Gemma ci ha lasciati, a fine marzo, ho il grande dispiacere di non aver accettato i suoi inviti a Pratovecchio e di non aver conosciuto il cane di cui mi parlava sempre: sarebbe stato bello trascorrere delle ore insieme in quella enorme casa, circondata dal verde. Non bisogna mai rimandare nella vita! Ero felice, però, quando mi comunicava che era lì, a lottare magari contro qualche topolino sceso dal camino, assieme alle sue sorelle o all’adorata figlia Teresa con il nipotino. Mi rallegravo quando la sapevo a Mogliano, dove seguiva il nipotino nelle lezioni o lo accompagnava al cinema o in altri luoghi di divertimento, oppure a Venezia, insomma quando con Teresa e gli altri parenti acquisiti faceva famiglia nella sua nuova residenza, colmando così la grande assenza di Veniero. Il nostro ultimo incontro è stato a Treviso, a Casa dei Carraresi, sempre per la presentazione di un mio libro, incontro concluso con una breve sosta da mia sorella Anna, che lì abita. Ora capisco che anche Gemma è stata parte importante della mia vita e sono contenta di poterne parlare, per continuare quel dialogo mai interrotto fino ai suoi ultimi giorni. Un dialogo frammentario ma intenso, articolato anche nei sapienti giudizi che mi inviava sulle mie cose, sentendoci appunto unite anche attraverso il legame poetico. Poi l’ho reincontrata nelle sue lettere a Rossano Onano, nel tempo della dipartita di Veniero, riportate dallo stesso autore nel saggio Testimonio eternamente errante. La simbologia biblica nel primo e nell’ultimo Veniero Scarselli (Genesi Editrice, 2017, Premio I Murazzi). Lettere che riconfermano le mie convinzioni in base alle quali l’amicizia, lungo o breve che sia il tempo della sua durata, quando è autentica è come un nutrimento affettuoso all’anima, come un viatico che ci accompagna nella vita, come un camminare con Cristo accanto.
Ora, cara Gemma, ti penso con grande affetto assieme a Veniero, ricomposti nella pace di un Pratovecchio celeste, con il cane maremmano a lato e i vostri pesci guizzanti negli acquari di Dio.

Maria Luisa Daniele Toffanin




Il viaggio di Giuseppe Ruggeri nell’identità siciliana
di Maria Luisa Daniele Toffanin

Giuseppe Ruggeri è medico-scrittore siciliano, vicepresidente nazionale dell’Associazione dei Medici Scrittori Italiani e direttore responsabile del periodico associativo “La serpe”, noto come giornalista pubblicista, scrittore e saggista. Ci soffermiamo proprio sui suoi ultimi libri, Sicilieide e Incontri in Sicilia.
Il primo (Zancle ’85 Edizioni Messina, 2015), molto raffinato nella veste tipografca, è un diario di viaggio nell’identità siciliana. Una meditazione continua articolata in un percorso culturale, letterario, storico, artistico e pure paesaggistico-geografco di grande passione e spessore, da giornalista, da uomo eclettico nella sua conoscenza del mondo insulare ed oltre, come si evince anche dalle note bibliografiche: un susseguirsi di nomi di artisti “locali” tra i quali Sciascia, Quasimodo, Bufalino, Antonello da Messina, Pirandello, Cattafi, Piccolo, e di autorevoli critici tra cui Barberi Squarotti, Vittorini, Aliberti, Giuffré e lo stesso Ruggeri. “Si tratta” afferma il prefatore Sergio Todesco” di contributi di varia ispirazione, occasionati da contingenze diverse, e però tutti accomunati dall’ancoraggio a un unico luogo, la Sicilia, tratteggiato, vagheggiato e analizzato come realtà geografica, e al contempo storica, sociologica, antropologica, esperienziale, infine simbolica, in grado di conferire senso di appartenenza a chi in futuro voglia per avventura cimentarsi nella costruzione di un’identità possibile”.
Favolosa la parte ultima, dedicata al viaggio reale e geografico attraverso luoghi incantati: Val Demone, Val di Mazara, Val di Noto. Una forma di riscoperta, nella scrittura poetica, del mito, della fisicità e della psicologia di questi luoghi: pagine uniche di bellezza formale e contenutistica, pagine di devozione alla sua terra, dai respiri ovunque d’Infinito e trame d’Eterno. In questa sezione conclusiva Ruggeri sembra abbia trovato risposte alla sua ricerca e, nella personale postilla a chiusura, dichiara il suo amore-dovere che l’ha spinto a questa favolosa opera-cammino nell’identità isolana, ma nel contempo rimette in discussione il tutto affidando alla storia le possibili risposte al grande interrogativo: “chi siamo, ma – soprattutto - chi eravamo?”. Perché il nostro poeta si affanna ad evidenziare le contraddizioni insite nel paesaggio ora aspro, ora dolce, ora selvatico, ora verdeggiante che ben si riflettono nell’animo dei siciliani lacerati da passionalità, bellezza e morte in loro confuse e fuse. Al che si può osservare come in ogni uomo esistano elementi contraddittori che ne formano il composito carattere, ma che rappresentano anche la sua unicità. La loro identità è proprio nella bellezza dell’isola, amalgama di culture diverse che, ognuna con la propria peculiarità, hanno attraversato Erice, esempio luminoso delle culture-sfaccettature che da secoli e per sempre illuminano questa storia, sorta di epifania di tante anime accomunate dall’appartenere all’isola in un modo eclettico, unico e irripetibile.

Questa è la loro identità, per chi guarda da lontano: una sostanza culturale che è linfa di uno stile di vita, come chiarirà meglio lo stesso Ruggeri in una delle successive risposte.
Nel secondo libro Incontri in Sicilia. Testimonianze di vita e di cultura (Giambra Editori, 2016) Ruggeri sembra trovare una risposta a questa ricerca dell’identità siciliana, leitmotiv di tutta la sua opera-vita, proprio nell’essenza della Sicilia colta “che ama se stessa non per autocelebrarsi ma per testimoniare la propria essenza”, essenza costituita dall’aristocrazia dello spirito. Questo è il respiro profondo, che lui ed altri avvertono, dei “Gattopardi siciliani, figure archetipiche e senza tempo” identificabili “con gli ultimi aristocratici dell’Isola”. A questa categoria interiore appartengono i personaggi con cui Ruggeri si confronta in questo viaggio attraverso i secoli, con interviste personali, conoscenze dirette e altre testimonianze.
Un viaggio tuttavia privato, costituito di ricordi, momenti di vita letteraria e non solo, che attraversano i territori esistenziali più intimi: in altre parole, il privato che si fa poesia, che diviene arte consacrata all’immortalità.
Fra i tanti personaggi protagonisti, alcuni già incontrati in Sicilieide ma qui appunto rinnovati in un rapporto più ravvicinato, brilla Lucio Piccolo, del quale Ruggeri racconta l’amicizia con Andrea Zanzotto. I due poeti si conobbero nel 1954, al famoso convegno di San Pellegrino Terme a cui Piccolo si recò, su invito di Eugenio Montale, in compagnia del cognato Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Di tale evento Ruggeri rivela particolari inediti, a lui raccontati direttamente da Zanzotto tramite l’autrice del presente articolo, legata al poeta di Pieve di Soligo da un’amicizia leggera, come rimarcato nel capitolo riservato al già citato convegno e relativo ai legami epistolari tra il poeta siciliano e quello veneto. Viene anche ricordata la testimonianza appunto intitolata “Un’amicizia fra noi leggera” apparsa su La Nuova Tribuna Letteraria del primo trimestre 2012 e in seguito inserita negli atti del convegno “Il Sacro e altro nella poesia di Andrea Zanzotto”, curati da Mario Richter e dalla sottoscritta. Ruggeri si sofferma su questi bellissimi rapporti, a cui il poeta di Pieve si dimostrava sempre disponibile proprio per l’amore che nutriva per l’uomo. Molti altri interventi  meriterebbero un approfondimento, da quello sui paesaggi e sui personaggi presenti nell’opera di Antonello da Messina a quello dedicato al connubio tra letteratura e fotografa, che aprirebbero altri orizzonti infiniti su questa isola senza confini.
È dunque un libro anche questo unico, come tutti quelli di Giuseppe, che “aggiunge un tassello importante al mosaico culturale che in Sicilia racconta di suoi celebri figli (i principi Tasca Filangeri di Cutò, sempre il nostro Quasimodo, Lucio Piccolo, Casa Cuseni luogo della memoria, la famiglia Ciampoli)” entrando però questa volta con spirito nuovo nell’intimità delle persone, fino alle loro stesse dimore. “Un libro che non si limita a descrivere fatti e circostanze ma se ne nutre profondamente e trae dalle vicende umane, letterarie e spirituali (...) linfa vitale per guardare a una Sicilia forse ancora possibile”, una terra che, nel suo apparente isolamento, offre in realtà se stessa nella gioia di un’apertura culturale che è in fondo scoperta, condivisione dei valori che appartengono al dominio universale, agli spiriti più nobili e sensibili. Chiude il suo bel libro, così ricco di umano spirito aristocratico, il poemetto L’isola senza confini, altro atto d’amore del poeta Ruggeri, espresso attraverso i colori, la vegetazione dell’isola, la musicalità dei versi nello scorrere delle ore “indistinte / su quest’arca di pietra che ripete / da millenni la sua storia alle onde”. Ascoltiamo la viva voce di Ruggeri, attraverso le risposte ad alcune domande su questi due suoi recenti capolavori.

Dai suoi testi emerge una Sicilia “teatro di memorie”, parte avulsa e al tempo stesso fortemente integrante del resto dell’Italia nonché luogo di luci e ombre, di contrasti e contraddizioni. Cosa, nella sua formazione culturale, ha significato l’incontro con scrittori come Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo?
“Teatro di memorie, in effetti, definiva Leonardo Sciascia la Sicilia, a significare la sua ancestrale tendenza a far risaltare, sotto la filigrana del presente, il ricordo delle vicende che hanno avuto la Sicilia come palcoscenico, quella grande anzi grandissima stratificazione storica che ne costituisce il peso specifico. E questa è la principale delle contraddizioni sulle quali si fonda il giudizio che, dall’esterno, si ha della Sicilia.
Il passato come passe-partout per il presente, la rappresentazione scenica in luogo dello svolgimento reale, così come ci ha insegnato Luigi Pirandello. Sciascia, come pure Bufalino e Consolo, sono solo alcuni dei protagonisti di questa rappresentazione alcune volte viva e cangiante, altre volte misteriosa e crepuscolare. Ciascuno di loro non fa che interpretare un ruolo in cui riversa la propria tematica personale senza tuttavia mai deragliare dall’immenso contenitore di spunti ispirativi che è la Sicilia. Il mio incontro con questi autori ha contribuito non poco alla maturazione del mio senso d’appartenenza a una terra che oggi respiro meglio rispetto a prima, senza ancora avere, naturalmente, la pretesa di capirla del tutto”.

Lei scrive che in Sicilia “ogni utopia ha tutte le carte in regola per diventare realtà”. Parafrasando Jorge Luis Borges, secondo il quale “la letteratura è la più reale delle finzioni”, può secondo lei la Sicilia essere assunta a paradigma di una scrittura che tanto più si allontana dalla cosiddetta realtà apparente quanto più aderisce alla realtà vera?
“La Sicilia vive di utopie, di sospensioni spazio-temporali che ne costituiscono la cifra più segreta e oscura. Utopie sono il fenomeno della fata morgana, i folletti e gli elfi che popolano le notti errabonde di Casimiro Piccolo, l’irreale Mineo di Giuseppe Bonaviri che vi trasfonde tutto il suo naturalismo magico. In questo senso dico che in Sicilia ogni utopia è in fondo un aspetto della realtà vissuto con una lente diversa che ne
fa intravedere lati imprevedibili, sfaccettature che mai avresti immaginato. Potrebbe essere forse questo uno dei motivi per i quali gli scrittori siciliani, se non lo fanno con le loro trame, si allontanano dalla realtà con la scrittura che diventa altisonante e gongoriana, in una parola barocca, in autori come Bufalino,
soprattutto, ma anche Brancati, Vitarelli e altri ancora”.

L’impegno civile è la cifra che accomuna la maggior parte degli scrittori siciliani di cui lei si è occupato nei suoi saggi. Un impegno che non può essere in alcun modo disgiunto da quella peculiare ricerca identitaria dalla quale discende il senso d’appartenenza necessario a tracciare un cammino condiviso, un’evoluzione in termini di progresso civile. È d’accordo?

“La ricerca identitaria è un percorso obbligato per quanti vogliano scoprire, anzi riscoprire le proprie radici. In tale direzione viaggia l’impegno civile degli scrittori siciliani, nessuno dei quali per istinto, passione, nostalgia o non so più cos’altro, riesce mai a sdoganarsi dal profondo attaccamento alla propria origine. Il senso d’appartenenza è l’effetto naturale di questo radicamento in cui ogni siciliano ha ritratto se stesso, un po’ come avviene nel Ritratto d’ignoto di Antonello da Messina che ormai costituisce una sorta di simbolo delle somiglianze. Tutti i siciliani si somigliano e per questo il loro è un cammino, come dice lei, condiviso, un’evoluzione civile in pieno senso”.

Un’ultima annotazione riguarda la parte narrativa o, per meglio dire, inventiva di queste due pubblicazioni. In appendice a entrambe, lei inserisce un suo contributo personale, un diario di viaggio in Sicilieide e un poemetto in Incontri in Sicilia. Una scelta precisa o cos’altro?

“Una scelta precisa, certo. La verità è che, non essendo io un saggista puro, il mio tentativo di scrittura finisce per approdare spesso e volentieri nell’invenzione, o meglio in una trasfigurazione della realtà in base alle mie tematiche interiori, che sono poi quelle del siciliano: il gusto dell’ossimoro, il piacere delle tinte forti, dei sentimenti passionali, la consapevolezza dell’inevitabile decadere della vita nella morte. Sicilieide e L’isola senza confini sono, in definitiva, due distinti diari di viaggio, il primo in prosa e il secondo in versi, che concludono la celebrazione di questo fantastico mondo di castelli di carta che, diversamente e a più riprese, s’assemblano per fingere la realtà che prende il nome di Sicilia”.


Concludiamo con un sentito grazie all’autore, augurandogli un buon viaggio in questa ricerca che rappresenta l’infinita inquietudine di ogni individuo mentre indaga sul senso della sua vita, del suo esserci oggi in un ambiente e contesto umano e sociale in cui non sempre è facile ritrovarsi.

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