domenica 17 ottobre 2021

ANGELA AMBROSINI: "PROLOGO A LE PAROLE DEL VENTO" DI UMBERTO DRUSCHOVIC

Angela Ambrosini,
collaboratrice cdi Lèucade

Sono lieta di comunicarle di essermi classificata al terzo posto del Premio Letterario Nazionale "Città di Forlì" 2021 nella Sezione "Irene Ugolini Zoli-Prefazione a un libro di poesie" con la mia prefazione al bellissimo libro di Umberto Druscovic Le parole del vento, Barbanera Edizioni, 2020. 

E' il secondo anno consecutivo che partecipo al premio, classificandomi di nuovo al terzo posto e, conoscendo il calibro dei prefatori, non posso che esserne orgogliosa!

Le inoltro, pertanto, la prefazione stessa per la pubblicazione nel suo Blog e per divulgare il valore di questo sensibilissimo, pluripremiato poeta, amico mio.

Grazie e buona domenica!

Un carissimo saluto

Angela


Prologo a Le parole del vento di Umberto Druschovic,

Accademia Barbanera, settembre 2020 (pp.5-10)

Foto di copertina: Enrico Romanzi (Isola Filicudi)

 

   Silloge coesa, solida, pervasa di spiritualità, Le parole del vento di Umberto Druschovic, fin dal titolo addita al lettore, in modo subliminale, la simbiosi inscindibile tra logos e alito divino, laddove il “vento” è, nella simbologia cristiana, riferimento al soffio vivifico di Dio, al suo spirito. Ben altro sarebbe stato “parole nel vento” o “parole al vento”, a dimostrazione che anche quei tratti umili del linguaggio, apparentemente vuoti di significato, come le preposizioni, svolgono un ruolo connotativo di rilievo, imprimendo al messaggio una valenza aggiuntiva. E la valenza aggiuntiva di questo libro di altissima cifra poetica è la spiritualità, la ricerca indefessa di Dio e di una fede che si manifestano anche attraverso la natura. L’universo lirico di Druschovic si organizza principalmente intorno a un paesaggio che, seppur dipinto in uno spazio prospettico concreto, è racchiuso in una dimensione di eternità. Lo sguardo radicato nella bellezza imponente delle montagne e dei villaggi valdostani, fortemente teso a salvaguardarne l’autenticità dal disfacimento in un finto progresso, si posa tenace su una realtà ultra-fenomenica che forse a un lettore frettoloso potrebbe di primo acchito sfuggire.  “La veduta dipende dallo sguardo”, asseriva Alda Merini, e lo sguardo del nostro autore è estremamente acuto, rivelandoci la visione di una terra, di un paesaggio che in realtà sono innanzitutto dell’animo. Tramite uno scenario esteriore, Druschovic insegue uno scenario interiore della vita (attitudine del resto consustanziale in chi ama e vive la montagna). L’acme di questa acutezza percettiva si manifesta proprio per mezzo della realtà paesaggistica che intensifica e glorifica la visione interna dell’esistenza, assecondando un desiderio etico di disfarsi del superfluo e delle apparenze, desiderio che è tratto distintivo della vita contadina di un tempo e il cui ricordo il poeta si prefigge di onorare con i suoi versi, come palesemente afferma nella nota critica introduttiva. E torniamo ora al lessema “vento”, di elevata frequenza nelle liriche del poeta, un vento che pervade e sostanzia non solo la natura nel suo aspetto meteorologico (“i groppi del vento fanno paura”), ma finanche gli affetti più cari, impersonandosi nella figura materna (“Lei era vento”). E di vento animato si saturano versi declinati in una nomenclatura a volte esatta e puntigliosa per scandire con amore flora locale e ritmi antichi (“inclina le fronde ai pioppi / il vento /…/ Rastrella stoppie e rami secchi e lesto / in fascine con legacci di mestizia li affastella /…/ ruba le bacche al sorbo / e s’adorna con le ultime tagete”) con un andamento apparentemente discorsivo che, tuttavia, poco ha a che fare con una volontà di riproduzione realistica, sciogliendosi senza sosta, pascolianamente, in una dimensione lirica dell’oggettività e del quotidiano, d’improvviso spogliati degli iniziali indizi di concretezza. E, come spesso accade in poesia, se un testo risulta in apparenza privo di segmenti metaforici, è allora che l’intero testo rinvia a una metafora globale, a un’allegoria. Parallelamente, il registro concreto dell’enunciato poetico (“ricordo il rumore degli zoccoli / nelle sere d’inverno / quel battere duro sulle lose della soglia / tu che rientravi dalla stalla”) si snoda in simbiosi con un verseggiare raffinato, impreziosito da un incedere fluttuante, mai forzato. Diremmo quasi che si stabilisce una relazione osmotica tra emozione e musicalità: più accentuato è il trasporto emotivo, maggiore è la melodia ritmica che si ripercuote nell’omogeneità e fluidità dell’articolazione sintattica, spesso attraverso lo stilema del soggetto arretrato. Il reiterato arretramento del soggetto ravvisabile nella raccolta non solo conferisce una peculiare focalizzazione all’enunciato poetico, ma risulta espediente stilistico di dirompente efficacia musicale. Esempio paradigmatico nella nostra letteratura è il leopardiano Sempre caro mi fu quest’ermo colle, che non sarebbe rimbalzato di generazione in generazione in saggi critici e antologie se fosse stato concepito nella struttura grammaticale più ovvia, “Quest’ermo colle mi fu sempre caro”.  Ma la poesia ha leggi saldamente codificate nell’inconscio sia dei poeti che della lingua stessa nella quale si esprimono, ed esempi come i seguenti sono frutto di una profonda, viscerale conoscenza di queste medesime leggi assimilate da una frequentazione perseverante e non certo epidermica della poesia: “Non dimentica il passato questo amore /…/ Inesausto è ancora il nostro tempo / Tremavano le mani nostre”, oppure “Odoravano d’agosto / le tue mani /…/ Sapevano d’estate le tue labbra”, e “Lentamene scolorano pagine di cielo, / s’accendono luci sulle strade / e verso l’indaco virano gli azzurri”. La melodia serpeggiante nella silloge si apre anche al recupero di elementi formali tradizionali come rima interna, assonanza, allitterazioni e finanche sottili parallelismi e circolarità concettuale di strutture dei quali il poeta si serve per enfatizzare un nucleo esistenziale sovente saldato al tema dello scorrere del tempo, tra i leitmotiv più perspicui della silloge, ora veicolato dall’immagine ancestrale del panta rei (“questo male / che è l’andare dei giorni / che scorre, come l’acqua”), ora occhieggiante nel sintagma “pagine di cielo”, personalissima immagine del nostro, assidua nell’opera. Altro motivo frequente nei suoi versi è il viaggio, ma il viaggio mentale e spirituale del viandante, dell’homo viator (l’andare dei giorni-riprendo il mio andare-volo di farfalla è il nostro andare), legato anch’esso allo scorrere del tempo ma, soprattutto, alla ricerca di un senso del vivere oltre i limiti dello spazio e del momento circostanti. E questo insistito senso del vivere, che si pone come obiettivo preponderante nella sezione Cercando l’infinito, si chiama, cristianamente, amore: “Nell’andirivieni dei giorni / lasciamo segni, qua e là sparsi /poco più che labili tracce/ del camminare nostro, inquieto, / tra incerte chimere / e poche rocce sicure / cui fare approdo. / Solo l’amore / lascia indelebili impronte, / tutto il resto scioglie e svanisce /come neve a primavera”. In quest’ansia di meditazione, il desiderio di preghiera prevale sulla frenesia dello spazio e del tempo che ci circondano: “Preghiera pura, solo, rimane /nel muto salmodiare di compieta /dei nostri cuori, stanchi, anacoreti” e la ricerca dell’assoluto permea ogni lirica dell’intera silloge.

   Nell’assorta, coinvolgente sezione dedicata alla moglie, Noi due, nella quale il poeta esprime con trasporto un altro tipo di amore, affiorano spesso incanti marini in contrasto con le amate vette montane e la donna stessa è comparata a una “vela che porta lontano, / vela d’altura che sa domare il vento” nelle tempeste della vita e alla quale l’autore si affida nella ricerca di un approdo sereno, facendo propria la consolidata metafora poetica della componente femminile riconoscibile nell’emblema del mare. La pluripremiata lirica Caffè al porto emerge sicuramente non solo per profondità d’afflato, ma anche per una certa atmosfera di quotidianità straniata dalla tensione lirica. È frequente nella produzione di Druschovic un gioco di opposizioni ossimoriche tra stile discorsivo e alto lirismo, tra linguaggio confidenziale e termini aulici, tra situazioni quotidiane e sospensione d’incantamento che generano un sortilegio ipnotico in chi legge. Allo stesso modo, l’alternanza di monti e mare, di alba e imbrunire, di estati e inverni, di memoria e futuro, dolore e gioia, spesso affioranti in una stessa lirica, impregnano i versi in una modalità eminentemente visiva di cui la poesia succitata è magistrale esempio. Un normale caffè “nella tazzina orlata di rosso”, consumato sulla terrazza di un bar affacciata sul “molo che punta verso oriente”, non fa presagire il viraggio sorprendente della telecamera poetica su un particolare inusitato, motivo di profonda riflessione d’amore per la sua donna: “Penso che il nostro stare insieme / sia un piccolo dettaglio, ma determinante, / una cucitura raffinata sull’orlo del vestito / che indossiamo e che chiamiamo vita, / sul cui risvolto appare un’etichetta, / forse già un po’ logora, un po’ stropicciata / che non è di alta sartoria / ma su cui ancor si legge che è / di buona marca, e si chiama amore”.

   Un siffatto incedere lirico, autentico, scevro da scorie di sentimentalismi e aggettivazione stantia, purtroppo straripanti nell’altrettanto straripante scenario poetico contemporaneo, differenzia in modo marcato la produzione di Druschovic il cui assetto è sovente impostato su una funzione gnomica (forse scaturita in parte dalla secolare saggezza montanara) con la quale, attraverso formule asseverative, desume e trasmette verità di una concretezza che a volte pare riecheggiare  parabole evangeliche: “Chi è nato tra i monti / è come seme caduto fra i sassi”. Stessa immagine simbolo ritorna nella bellissima lirica dedicata al padre recentemente scomparso: “I tuoi giorni, ora, / sono petali appassiti / ma tu sei tornato alla terra, / padre, / come seme di Dio”.

   Tutti i componimenti che confluiscono nelle quattro sezioni in cui l’opera è strutturata (Memoria del tempo, Noi due, I solchi del cuore e Cercando l’infinito),  illustrate dallo stesso autore nella nota iniziale, sono stati più volte insigniti di primi premi in concorsi nazionali e internazionali, a riprova della indiscussa notorietà di Druschovic nel panorama poetico italiano, notorietà che cozza con la ritrosia innata che lo caratterizza, di origine in un certo qual senso genetica (“Chi è nato fra i monti / porta dentro qualcosa / che tiene per sé / con celata umiltà”) ma che, unitamente al notevole spessore della sua produzione, ancora in gran parte inedita, fa di questo poeta una delle voci senza dubbio più prepotentemente spiccate e autentiche della poesia contemporanea. Nella sua parola che diremmo “celata nel silenzio” (ricorrendo a una definizione che la filosofa Maria Zambrano enuncia nei suoi studi esegetici sulla natura della poesia) si ravvisa quello stadio aurorale del processo poetico, simile al “linguaggio sacro degli inizi”, un “silenzio che si fa come un vaso” per separare la vera parola poetica dalla “parola-linguaggio” dell’assordante cicaleccio pseudo letterario da cui spesso siamo purtroppo soffocati.

 

Angela Ambrosini

Città di Castello (Perugia), agosto 2020

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