Prefazione
a
Ines Betta Montanelli: Calici di luce.
Edizioni Bastogi.
La memoria si fa luce e chiede di
esistere
Di
fuoco è il tramonto.
Dolci
pendii d’erbe spade
e
conifere odorose.
Sperare
nell’ignoto è vano.
Solo
nel paradiso della vita
l’alba
avrà per sempre
calici
di luce.
Mi piace esordire con la
citazione contestuale sopra riportata. È da lì che prende inizio questa
melanconica, generosa, intimistica silloge educata dal silenzio. Un silenzio
frutto di meditazioni forti, immediate, che si traducono con spontaneità, e
perché no, anche con una certa malizia tecnica di ricerca poetica, in versi di
alta caratura estetico-concettuale. Ma un silenzio che parla, non con voce
stentorea, o roboante, ma con bisbiglio delicato e suadente. Un silenzio di
raccoglimento, che ognuno di noi prova, che ognuno di noi cerca per ritrovare
se stresso, e trarre un bilancio della vita, del vivere, dell’esserci, con
tutto il mistero che l’ignoto comporta. Ed è per questo che la poesia della
Montanelli, pur nella sua unicità, è un canto di tutti, è un canto universale,
perché affonda le radici nel quotidiano, e ne fa un trampolino di lancio verso
slarghi di un azzurro, che, venato di morbido spleen, si fa linfa indispensabile
per la poesia. Ed è là che un’alba avrà per sempre calici di luce. Una
melanconia, comunque, che mai deborda in pessimismo. Perché è sempre questa
meravigliosa avventura che è la vita a fare da punto luce, a risplendere e dare
vigore a ciò che resta nel vaso di Pandora. Un canto che riesce a sradicarsi
dai vincoli del circuito ristretto in cui siamo racchiusi, per aprirsi verso
mete di grande respiro. Verso albe rigeneranti:
Solo
nel paradiso della vita
l’alba
avrà per sempre
calici
di luce. (Calici di
luce).
Ed è l’amore a trionfare
in questa plaquette, l’amore per questo misterioso e meraviglioso dono che ci è
dato. E la poetessa la vive in pieno la coscienza di esistere. In tutte le sue
sfaccettature esistenziali. In tutto ciò che questa vicissitudine ha saputo
offrire e sottrarre. Sembra quasi che voglia dare tutta se stessa, tutto il suo
pathos, come fosse l’ultima sua occasione vitale - e ce lo confermano i suoi
versi che spesso vengono prolungati in enjambements di ampio respiro. Come a
prolungare il discorso, tanto ha da dire -. Quasi un amore sussurrato da due
amanti coscienti di vivere l’ultima notte della loro passione. Ma qui tutto è tenuto,
tutto è controllato da un dire esperto e robusto che mai permette all’anima dei
débordements eccessivi. E si affaccia
sempre quel filo sottile di tristezza, dolce tristezza, ad avvolgere il fluire
del tessuto poetico: pacato sentire di nostalgie di tempi in cui fiorivano in
stelle luminose perfino gli autunni. E questo gioco interiore si fa nerbo del
poiein.
Madre,
gli occhi del cuore si fanno
specchi
lucenti di rituali d’amore.
Scendevamo
scalini d’erba
che
portavano al prato dei noccioli
e
tu forse non sapevi di essere come Pomona
dea
protettrice degli alberi e dei raccolti. (Scendevamo scalini d’erba).
Quale terreno più fertile per il canto che
quel senso eracliteo del panta rei. La coscienza della precarietà del tutto,
dell’inconsistenza del presente che non riusciamo mai ad afferrare. Ed è per
questo che la poetessa vuole dare al memoriale il sacrosanto compito di reggere
e dominare il filo dell’esistere. Prolungare la vita col repêchage di storie ed emozioni. Dare un senso al mistero
dell’esistere. Le chiede di essere presente e generosa, le chiede di affidarsi
alla poesia, perché è al suo altare che vuole immolare tutta se stessa nella
speranza di trovarvi una giusta collocazione di continuità morale, intellettiva ed umana.
Vengo
di là dove la mia prima vita
è
già sogno d’infanzia.
Vengo
da una lunga strada d’acqua
che
divide le colline fino al mare.
Vengo
da castelli di fieno
scivoli
odorosi di bambini ignari,
da
tralci di uve legate ai gelsi,
da
zolle di pane.
Vengo
da gente sfinita sopra scranne
di
sudore, che celava libri antichi
nella
madia del grano e nelle notti
di
luna cercava la sua stella d’amore
al
suono di un violino.
Vengo
da mistici silenzi di albe assonnate,
da
improvvisi bagliori di sole;
calde
tenerezze di fiumi e di tersi cieli
custodi
di un tempo quasi irreale.
(Vengo da…).
È qui il riassunto di una
storia fatta di acque, di mari, di colline, di suoni di violino, di sentieri di
silenzi, di gente sfinita sopra scranne di sudore, di calde tenerezze di fiumi
e larghi cieli. E il linguaggio si insaporisce di una cifra metaforica di
grande vicinanza emotiva. Ogni riferimento del testo si serve della parola. La
amplifica per accostare forse uno dei momenti di maggiore liricità della silloge.
Momento in cui l’anima sente il bisogno di suoni e verbi che vadano oltre il
loro senso per coprire le esigenze di una profondità umana ed ultra/umana. E la
memoria non si riduce mai ad una lamentatio
piagnucolona. Ma dà forza e sostanza. Irrobustisce con la sua tensione
emotiva i costrutti e gli impatti prosodici. Una simbiosi di dire e sentire
tanto icastica, quanto vitale. E la poetessa ci aiuta a decodificare il suo aveu: “calde tenerezze di fiumi e di tersi cieli/ custodi di un tempo quasi
irreale”. Ed è così. Il reale si è tramutato in immagini. E la differenza è
cospicua. Dacché l’immagine è tutto ciò che cova dentro, che si trasfigura,
dopo lunga decantazione, in significati e visioni, in traslati ingranditi,
polposi di sostanza poetica. E ci dice, anche, quanto il paesaggio, quanto
l’ambiente in cui la Montanelli ha vissuto, abbia avuto influenza sulla sua
vita artistica. Perché è da quei paesaggi che la Nostra trae il corpo delle sue
sensazioni, dei suoi impulsi interiori. C’è questo bisogno, questa necessità in
lei: affidarsi agli ambiti naturali, ai mari, ai tramonti, ai giochi delle
stagioni, ai palpiti finali degli autunni, o alle luci verginali delle albe,
che l’hanno accarezzata da sempre, per fasciare in maniera visiva il suo
sentire. Ed ora chiede loro di farsi disponibili ad aiutarla. Ad oggettivare,
appunto, quel magma interiore che vuole uscire, e farsi presente a nuova vita.
Sento
il fiume folleggiare con le ombre
degli
ontani in un vibrare di lucciole
e
l’abbraccio caldo di alberi e voci
che
a questo mio malinconico autunno
portano
gioia di sogni accesi.
(Gioia di sogni accesi).
Ho avuto il piacere di
recensire due testi dell’autrice: Lo specchio ritrovato. Bastogi. Foggia.
2007. Pp. 110. € 8.00; Il chiaro enigma. Bastogi. Foggia.
2004. Pp.128. € 8.50.
E devo dire che il copyright, il
marchio di fabbrica è inconfondibile e per stile e per urgenza emozionale;
inconfondibile sia per significato, che per significante; sia per lirismo, che
per meditazioni sull’essere e l’esistere; sia per il valore che si dà alla
vita, che a quello che si assegna alle vertigini paniche della poesia. E già
ebbi a scrivere: “… Ci si sente veramente soli, allora, e impotenti e
melanconici di fronte alla nostra miseria, se confrontati con l’enigma della
pluralità del tutto. Anche perché sorge spontaneo il dubbio cruciale del nostro
spleen: a chi le nostre memorie? a quale isola, a quale credo il patrimonio del
nostro essere? noi chi siamo? quale il futuro di tanta passione umana?
Forse è la Poesia l’unica
possibile isola a cui affidare questo nostro irripetibile patrimonio. Lei ci
aiuta, ci avvicina, ci lusinga, ci promette anche qualcosa, forse l’unico
qualcosa che possa vincere il tempo e faccia delle memorie un ambito storico
degno di restare. Sì!, perché la vita è un battito d’ali e quindi urge
viverla…”.
Ma forse qui il memoriale
si fa ancora più deciso e più robusto; e le immagini assumono tratti nostalgici
di grande coinvolgimento.
Con
un tremore segreto
mi
accoglie ancora sul fiume
la
vecchia casa-rifugio
asilo
di merli e di poiane…
“Uno
che torna a notte alta dai campi
scambia
un cenno a fatica con i simili”
Eppure
le voci della casa, i suoni
sono
ancora la fiamma che arde
e
tiene desta la memoria
che
smania e patisce nostalgia.(La
fiamma che arde).
È l’uso dell’imperfetto
che fa da spia, spesso, a questa immersione in un’oasi di pace e serenità, di
amore oblativo e di nirvana edenico, di paradiso riposante e rigenerante che è
la memoria. Ma, al contempo, è tanto forte la presenza-assenza del ricordo che
non stenta a farsi attuale, anzi si compiace di usare il presente, per rendersi
più vivo, o per prolungarsi, addirittura, in un futuro incondizionato.
Madre,
gli occhi del cuore si fanno
specchi
lucenti di rituali d’amore…
Lontano
come te, ora,
il
prato dei noccioli
ma
fin che avrò vita esisterai
e
per sempre saremo albero e frutto
nello
splendore della memoria. (Scendevamo
gradini d’erba).
È
giorno perderai il treno, diceva
mia
madre e dal tepore della casa
entravo
nel freddo della prima luce…
E’
giorno perderai il treno.
E’
vero, madre, molti treni ho perduto
da
quando ti sei fatta fiore e cielo
e
carezza d’anima. (E’
giorno…).
Se
ci saremo ancora
ci
scalderemo al fuoco della memoria
custodita
come la speranza
nel
vaso di Pandora. (Nel
vaso di Pandora).
Addirittura si attua una
metamorfosi fisica fra albero e parti umane, una compenetrazione antropo-panica
, tanto è il vigore delle parvenze naturali nella declinazione delle pluralità
degli stati d’animo.
Il
sei di Marzo, compleanno di mio figlio,
ti
ho interrato all’ombra di una quercia
alberello
di pero.
Nel
tempo avrai frutti
accesi
come guance di bambino…
ti
guarderò felice dal brio di piccole mani
tese
nel fervore del raccolto… (Alberello
di pero).
E anche se il tempo è
fuggevole e non garantisce tante avventure senza l’intervento dell’atto onirico
o immaginativo; e anche se ci parla di precarietà, di fine, di debolezze, di
limiti umani, la vita è pur sempre presente, anche nelle invocazioni.
Dal
cielo si affaccia una fulgida luna
da
sempre ignoto mistero.
Vivere
senza passione
è
malinconico andare.
Abbracciami
vita
ché
in me vibrino ancora
gioie
di risa bambine
sguardi
vibranti di attese.
Abbracciami
vita e dammi ancora
dolcezze
di giorni sereni. (Abbracciami
vita).
E cosa è la poesia se non
che l’incontro di attimi immensi, o pacati o futili, rimasti dentro noi con
voce quasi eterna ad incantarci? e che cosa è se non che ricercare il
patrimonio che abbiamo dentro, riviverlo, perché in interiore homine habitat veritas? E quella è la vera vita, degna
di esistere, e di soccorrerci nei nostri tentativi di procrastinarci. È questa
la vera storia della Nostra. Storia complessa, dove un’intera esistenza ha il
fascino e la virtù di tramutare in arte ogni sfaccettatura del quotidiano
vivere. E anche se dietro ogni porta ci sono gli artigli, e la paura
dell’ignoto è una goccia di lava che corrode, è il ritorno a primavere fulgide
di sole e sapide di aromi a vincere le incertezze dell’essere umani.
Ora che la paura dell’ignoto
è
una goccia di lava che corrode,
la
musica che divido con te
è
l’unico tempo d’amore
che
mi rincuora. (Quando
suoni. A mio figlio Marco).
Sì!, perché il mistero dell’ignoto c’è tutto
in questi versi, è umano; la paura del precipizio c’è, e ci deve essere per
rendere la poesia naturale e terrena. Ma c’è anche una reazione, una reazione
affidata al misterioso gioco del canto, che commuove e convince; che prende per
mano l’autrice e le dice: “Tu sei questa! Questa è la tua forza. E non puoi
chiudere qui la magnifica avventura di una storia. Scrivimi! Leggimi! E
rincuorati! È tutto qui il nerbo dell’esistere. Ed io ti prometto, credimi!, ti
prometto vette che avranno il potere di sfiorare l’azzurro e di guardare il
mondo, pur bello che sia, con animo quieto, come una piccola cosa fuggevole, in
vista di eterni spazi.”.
E forse quell’azzurro sublime, come l’anima della poesia,
non è detto che non venga illuminato da un raggio divino che proprio nei
momenti più tristi sa invadere i nostri cuori e darci speranza.
Carezze vorrei, soffi d’amore
per
questi miei giorni legati al dolore.
Soffrire
è cogliere attimi preziosi
guardare
gli altri con occhi più teneri,
sfrondare
il secco dei rami
che
ci chiudono in grovigli oscuri.
Cercare
Dio è cammino di speranza. (Cercare
Dio).
Un raggio che ci penetra, che si fa
alimento spirituale , e al quale chiediamo perdono per un’inerzia che trattiene
dal primo passo verso la giungla del dolore.
Perdonami,
Signore per il pane sciupato
soccorso
per ventri scarni di fame.
Perdona
la mia vita a volte vuota di parole
che
potrebbero farsi grido di rivolta.
Perdona
l’inerzia che mi trattiene
dal
fare il primo passo verso la giungla del dolore. (Perdono, Signore).
È forse qui, a questo raggio,
che la poetessa vuole ancorare le sue memorie, con l’intento di dare loro la
forza del sempre. Lo slancio verso quei lidi che superino le ristrettezze dei
nostri limitati spazi. Ma se la poesia è la parte di noi che più si avvicina
all’inarrivabile, la Nostra ne assapora già, col suo fluire caldo, quel senso
di eterno che l’avvicina a Dio.
Eri
un lampo di gioia
tra
le ciglia dell’infanzia
ora
sei fuoco che divampa, vento,
passione
che ad ogni esitazione
in
profonda pena si tramuta.
Ma,
forse, adesso è l’ora
di
qualche follia diversa.
Rompere
lo specchio che deforma,
urlare
alle voci che non sentono,
arrestare
le lancette del tormento
e
fermarsi
ad
ascoltare l’anima. (Poesia).
Rompere uno specchio che
deforma ed ascoltare l’anima.
Per
quel viaggio ignoto
da
cui nessuno torna,
con
me, nella mano del cuore,
vorrei
portare un po’ della mia terra:
una
foglia di vite e tre di ulivo,
un
ciuffo di mimosa
e
uno zufolo di canna
musica
di figlio, mio sole…
E
se il mio partire avverrà
quando
la natura assopita
ancora
non s’ingemma,
con
me vorrei portare
alloro
e rosmarino, sempre verdi,
chè
mi resti addosso
il
profumo della vita. (Il
profumo della vita).
Il profumo della vita!
Sì!, è questo che alla fine domina. È la vita la grande interprete di questa
storia. La coscienza della sua sacralità. L’eterno suo ritorno. La gioia di
averla vissuta in tutta la sua pienezza. Ed è là che la poetessa vorrebbe
portarla con i suoi sapidi colori, con i suoi profondi affetti. Unita alla sua
anima, bramerebbe poterla trasferire in quell’immenso e misterioso azzurro.
Molto belle queste poesie! Complimenti anche alle note critiche di Pardini che danno ancor più valore a questi frammenti lirici della poetessa Ines Betta Montanelli. Miry
RispondiEliminaSu questo blog vedo nomi eccellenti e di gran fama, alcuni meno noti ma bravissimi ma, per questa poetessa io trovo sia superlativa. Eccezzionale.
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