martedì 5 marzo 2013

N. PARDINI: PREFAZIONE A I. B. MONTANELLI


Prefazione

a

Ines Betta Montanelli: Calici di luce.

Edizioni Bastogi.

 

La memoria si fa luce e chiede di esistere

 

 

 

Di fuoco è il tramonto.

Dolci pendii d’erbe spade

e conifere odorose.

 

Sperare nell’ignoto è vano.

 

Solo nel paradiso della vita

l’alba avrà per sempre

calici di luce.

 

Mi piace esordire con la citazione contestuale sopra riportata. È da lì che prende inizio questa melanconica, generosa, intimistica silloge educata dal silenzio. Un silenzio frutto di meditazioni forti, immediate, che si traducono con spontaneità, e perché no, anche con una certa malizia tecnica di ricerca poetica, in versi di alta caratura estetico-concettuale. Ma un silenzio che parla, non con voce stentorea, o roboante, ma con bisbiglio delicato e suadente. Un silenzio di raccoglimento, che ognuno di noi prova, che ognuno di noi cerca per ritrovare se stresso, e trarre un bilancio della vita, del vivere, dell’esserci, con tutto il mistero che l’ignoto comporta. Ed è per questo che la poesia della Montanelli, pur nella sua unicità, è un canto di tutti, è un canto universale, perché affonda le radici nel quotidiano, e ne fa un trampolino di lancio verso slarghi di un azzurro, che, venato di morbido spleen, si fa linfa indispensabile per la poesia. Ed è là che un’alba avrà per sempre calici di luce. Una melanconia, comunque, che mai deborda in pessimismo. Perché è sempre questa meravigliosa avventura che è la vita a fare da punto luce, a risplendere e dare vigore a ciò che resta nel vaso di Pandora. Un canto che riesce a sradicarsi dai vincoli del circuito ristretto in cui siamo racchiusi, per aprirsi verso mete di grande respiro. Verso albe rigeneranti:

 

Solo nel paradiso della vita

l’alba avrà per sempre

calici di luce. (Calici di luce).

 

Ed è l’amore a trionfare in questa plaquette, l’amore per questo misterioso e meraviglioso dono che ci è dato. E la poetessa la vive in pieno la coscienza di esistere. In tutte le sue sfaccettature esistenziali. In tutto ciò che questa vicissitudine ha saputo offrire e sottrarre. Sembra quasi che voglia dare tutta se stessa, tutto il suo pathos, come fosse l’ultima sua occasione vitale - e ce lo confermano i suoi versi che spesso vengono prolungati in enjambements di ampio respiro. Come a prolungare il discorso, tanto ha da dire -. Quasi un amore sussurrato da due amanti coscienti di vivere l’ultima notte della loro passione. Ma qui tutto è tenuto, tutto è controllato da un dire esperto e robusto che mai permette all’anima dei débordements eccessivi. E si affaccia sempre quel filo sottile di tristezza, dolce tristezza, ad avvolgere il fluire del tessuto poetico: pacato sentire di nostalgie di tempi in cui fiorivano in stelle luminose perfino gli autunni. E questo gioco interiore si fa nerbo del poiein.

 

Madre, gli occhi del cuore  si fanno

specchi lucenti di rituali d’amore.

 

Scendevamo scalini d’erba

che portavano al prato dei noccioli

e tu forse non sapevi di essere come Pomona

dea protettrice degli alberi e dei raccolti. (Scendevamo scalini d’erba).

 

   Quale terreno più fertile per il canto che quel senso eracliteo del panta rei. La coscienza della precarietà del tutto, dell’inconsistenza del presente che non riusciamo mai ad afferrare. Ed è per questo che la poetessa vuole dare al memoriale il sacrosanto compito di reggere e dominare il filo dell’esistere. Prolungare la vita col repêchage di storie ed emozioni. Dare un senso al mistero dell’esistere. Le chiede di essere presente e generosa, le chiede di affidarsi alla poesia, perché è al suo altare che vuole immolare tutta se stessa nella speranza di trovarvi una giusta collocazione di continuità  morale, intellettiva ed umana.

 

Vengo di là dove la mia prima vita

è già sogno d’infanzia.

Vengo da una lunga strada d’acqua

che divide le colline fino al mare.

           

Vengo da castelli di fieno

scivoli odorosi di bambini ignari,

da tralci di uve legate ai gelsi,

da zolle di pane.

 

Vengo da gente sfinita sopra scranne

di sudore, che celava libri antichi

nella madia del grano e nelle notti

di luna cercava la sua stella d’amore

al suono di un violino.

 

Vengo da mistici silenzi di albe assonnate,

da improvvisi bagliori di sole;

calde tenerezze di fiumi e di tersi cieli

custodi di un tempo quasi irreale. (Vengo da…).

 

È qui il riassunto di una storia fatta di acque, di mari, di colline, di suoni di violino, di sentieri di silenzi, di gente sfinita sopra scranne di sudore, di calde tenerezze di fiumi e larghi cieli. E il linguaggio si insaporisce di una cifra metaforica di grande vicinanza emotiva. Ogni riferimento del testo si serve della parola. La amplifica per accostare forse uno dei momenti di maggiore liricità della silloge. Momento in cui l’anima sente il bisogno di suoni e verbi che vadano oltre il loro senso per coprire le esigenze di una profondità umana ed ultra/umana. E la memoria non si riduce mai ad una lamentatio piagnucolona. Ma dà forza e sostanza. Irrobustisce con la sua tensione emotiva i costrutti e gli impatti prosodici. Una simbiosi di dire e sentire tanto icastica, quanto vitale. E la poetessa ci aiuta a decodificare il suo aveu:calde tenerezze di fiumi e di tersi cieli/ custodi di un tempo quasi irreale”. Ed è così. Il reale si è tramutato in immagini. E la differenza è cospicua. Dacché l’immagine è tutto ciò che cova dentro, che si trasfigura, dopo lunga decantazione, in significati e visioni, in traslati ingranditi, polposi di sostanza poetica. E ci dice, anche, quanto il paesaggio, quanto l’ambiente in cui la Montanelli ha vissuto, abbia avuto influenza sulla sua vita artistica. Perché è da quei paesaggi che la Nostra trae il corpo delle sue sensazioni, dei suoi impulsi interiori. C’è questo bisogno, questa necessità in lei: affidarsi agli ambiti naturali, ai mari, ai tramonti, ai giochi delle stagioni, ai palpiti finali degli autunni, o alle luci verginali delle albe, che l’hanno accarezzata da sempre, per fasciare in maniera visiva il suo sentire. Ed ora chiede loro di farsi disponibili ad aiutarla. Ad oggettivare, appunto, quel magma interiore che vuole uscire, e farsi presente a nuova vita.

 

Sento il fiume folleggiare con le ombre

degli ontani in un vibrare di lucciole

e l’abbraccio caldo di alberi e voci

che a questo mio malinconico autunno

portano gioia di sogni accesi. (Gioia di sogni accesi).

     

Ho avuto il piacere di recensire due testi dell’autrice: Lo specchio ritrovato. Bastogi. Foggia. 2007. Pp. 110. 8.00; Il chiaro enigma. Bastogi. Foggia. 2004. Pp.128. 8.50. E devo dire che il copyright, il marchio di fabbrica è inconfondibile e per stile e per urgenza emozionale; inconfondibile sia per significato, che per significante; sia per lirismo, che per meditazioni sull’essere e l’esistere; sia per il valore che si dà alla vita, che a quello che si assegna alle vertigini paniche della poesia. E già ebbi a scrivere: “… Ci si sente veramente soli, allora, e impotenti e melanconici di fronte alla nostra miseria, se confrontati con l’enigma della pluralità del tutto. Anche perché sorge spontaneo il dubbio cruciale del nostro spleen: a chi le nostre memorie? a quale isola, a quale credo il patrimonio del nostro essere? noi chi siamo? quale il futuro di tanta passione umana?

Forse è la Poesia l’unica possibile isola a cui affidare questo nostro irripetibile patrimonio. Lei ci aiuta, ci avvicina, ci lusinga, ci promette anche qualcosa, forse l’unico qualcosa che possa vincere il tempo e faccia delle memorie un ambito storico degno di restare. Sì!, perché la vita è un battito d’ali e quindi urge viverla…”. 

Ma forse qui il memoriale si fa ancora più deciso e più robusto; e le immagini assumono tratti nostalgici di grande coinvolgimento.

 

Con un tremore segreto

mi accoglie ancora sul fiume

la vecchia casa-rifugio

asilo di merli e di poiane…

“Uno che torna a notte alta dai campi

scambia un cenno a fatica con i simili”

Eppure le voci della casa, i suoni

sono ancora la fiamma che arde

e tiene desta la memoria

che smania e patisce nostalgia.(La fiamma che arde).

 

È l’uso dell’imperfetto che fa da spia, spesso, a questa immersione in un’oasi di pace e serenità, di amore oblativo e di nirvana edenico, di paradiso riposante e rigenerante che è la memoria. Ma, al contempo, è tanto forte la presenza-assenza del ricordo che non stenta a farsi attuale, anzi si compiace di usare il presente, per rendersi più vivo, o per prolungarsi, addirittura, in un futuro incondizionato.

 

Madre, gli occhi del cuore  si fanno

specchi lucenti di rituali d’amore…

 

Lontano come te, ora,

il prato dei noccioli

ma fin che avrò vita esisterai

e per sempre saremo albero e frutto

nello splendore della memoria. (Scendevamo gradini d’erba).

 

È giorno perderai il treno, diceva

mia madre e dal tepore della casa

entravo nel freddo della prima luce…

 

E’ giorno perderai il treno.

E’ vero, madre, molti treni ho perduto

da quando ti sei fatta fiore e cielo

e carezza d’anima. (E’ giorno…).

 

Se ci saremo ancora

ci scalderemo al fuoco della memoria

custodita come la speranza

nel vaso di Pandora. (Nel vaso di Pandora).

 

Addirittura si attua una metamorfosi fisica fra albero e parti umane, una compenetrazione antropo-panica , tanto è il vigore delle parvenze naturali nella declinazione delle pluralità degli stati d’animo.

 

Il sei di Marzo, compleanno di mio figlio,

ti ho interrato all’ombra di una quercia

alberello di pero.

Nel tempo avrai frutti

accesi come guance di bambino…

 

ti guarderò felice dal brio di piccole  mani

tese nel fervore del raccolto… (Alberello di pero).

 

E anche se il tempo è fuggevole e non garantisce tante avventure senza l’intervento dell’atto onirico o immaginativo; e anche se ci parla di precarietà, di fine, di debolezze, di limiti umani, la vita è pur sempre presente, anche nelle invocazioni.

 

Dal cielo si affaccia una fulgida luna

da sempre ignoto mistero.

Vivere senza passione

è malinconico andare.

 

Abbracciami vita

ché in me vibrino ancora

gioie di risa bambine

sguardi vibranti di attese.

 

Abbracciami vita e dammi ancora

dolcezze di giorni sereni. (Abbracciami vita).

 

E cosa è la poesia se non che l’incontro di attimi immensi, o pacati o futili, rimasti dentro noi con voce quasi eterna ad incantarci? e che cosa è se non che ricercare il patrimonio che abbiamo dentro, riviverlo, perché in interiore homine habitat veritas? E quella è la vera vita, degna di esistere, e di soccorrerci nei nostri tentativi di procrastinarci. È questa la vera storia della Nostra. Storia complessa, dove un’intera esistenza ha il fascino e la virtù di tramutare in arte ogni sfaccettatura del quotidiano vivere. E anche se dietro ogni porta ci sono gli artigli, e la paura dell’ignoto è una goccia di lava che corrode, è il ritorno a primavere fulgide di sole e sapide di aromi a vincere le incertezze dell’essere umani.

 

 Ora che la paura dell’ignoto

è una goccia di lava che corrode,

la musica che divido con te

è l’unico tempo d’amore

che mi rincuora. (Quando suoni. A mio figlio Marco).

 

  Sì!, perché il mistero dell’ignoto c’è tutto in questi versi, è umano; la paura del precipizio c’è, e ci deve essere per rendere la poesia naturale e terrena. Ma c’è anche una reazione, una reazione affidata al misterioso gioco del canto, che commuove e convince; che prende per mano l’autrice e le dice: “Tu sei questa! Questa è la tua forza. E non puoi chiudere qui la magnifica avventura di una storia. Scrivimi! Leggimi! E rincuorati! È tutto qui il nerbo dell’esistere. Ed io ti prometto, credimi!, ti prometto vette che avranno il potere di sfiorare l’azzurro e di guardare il mondo, pur bello che sia, con animo quieto, come una piccola cosa fuggevole, in vista di eterni spazi.”.

            E forse quell’azzurro sublime, come l’anima della poesia, non è detto che non venga illuminato da un raggio divino che proprio nei momenti più tristi sa invadere i nostri cuori e darci speranza.

 

 Carezze vorrei, soffi d’amore

per questi miei giorni legati al dolore.

 

Soffrire è cogliere attimi preziosi

guardare gli altri con occhi più  teneri,

sfrondare il secco dei rami

che ci chiudono in grovigli oscuri.

 

Cercare Dio è cammino di speranza. (Cercare Dio).

     

Un raggio che ci penetra, che si fa alimento spirituale , e al quale chiediamo perdono per un’inerzia che trattiene dal primo passo verso la giungla del dolore.

 

Perdonami, Signore per il pane sciupato

soccorso per ventri scarni di fame.

 

Perdona la mia vita a volte vuota di parole

che potrebbero farsi grido di rivolta.

 

Perdona l’inerzia che mi trattiene

dal fare il primo passo verso la giungla del dolore. (Perdono, Signore).

 

È forse qui, a questo raggio, che la poetessa vuole ancorare le sue memorie, con l’intento di dare loro la forza del sempre. Lo slancio verso quei lidi che superino le ristrettezze dei nostri limitati spazi. Ma se la poesia è la parte di noi che più si avvicina all’inarrivabile, la Nostra ne assapora già, col suo fluire caldo, quel senso di eterno che l’avvicina a Dio.

 

Eri un lampo di gioia

tra le ciglia dell’infanzia

ora sei fuoco che divampa, vento,

passione che ad ogni esitazione

in profonda pena si tramuta.

Ma, forse, adesso è l’ora

di qualche follia diversa.

Rompere lo specchio che deforma,

urlare alle voci che non sentono,

arrestare le lancette del tormento

e fermarsi

ad ascoltare l’anima. (Poesia).

 

Rompere uno specchio che deforma ed ascoltare l’anima.

 

Per quel viaggio ignoto

da cui nessuno torna,

con me, nella mano del cuore,

vorrei portare un po’ della mia terra:

una foglia di vite e tre di ulivo,

un ciuffo di mimosa

e uno zufolo di canna

musica di figlio, mio sole…

 

E se il mio partire avverrà

quando la natura assopita

ancora non s’ingemma,

con me vorrei portare

alloro e rosmarino, sempre verdi,

chè mi resti addosso

il profumo della vita. (Il profumo della  vita).

 

Il profumo della vita! Sì!, è questo che alla fine domina. È la vita la grande interprete di questa storia. La coscienza della sua sacralità. L’eterno suo ritorno. La gioia di averla vissuta in tutta la sua pienezza. Ed è là che la poetessa vorrebbe portarla con i suoi sapidi colori, con i suoi profondi affetti. Unita alla sua anima, bramerebbe poterla trasferire in quell’immenso  e misterioso azzurro.

Nazario Pardini                                                 28/12/2012

 

 

 

 

 

2 commenti:

  1. Molto belle queste poesie! Complimenti anche alle note critiche di Pardini che danno ancor più valore a questi frammenti lirici della poetessa Ines Betta Montanelli. Miry

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    1. Su questo blog vedo nomi eccellenti e di gran fama, alcuni meno noti ma bravissimi ma, per questa poetessa io trovo sia superlativa. Eccezzionale.

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