RECENSIONE A CURA DI FRANCO CAMPEGIANI
FRANCO CAMPEGIANI
COLLABORATORE DI LEUCADE
Romanzo a sorpresa di Ninnj Di Stefano Busà
("Soltanto una vita" -
Kairòs Edizioni)
Ninnj Di Stefano
Busà - lo sappiamo - è una delle più accreditate firme della pagina poetica
nazionale. Notissima come poetessa ed anche come critico letterario, oggi ci sorprende
con questo testo pubblicato dalla Kairòs di Napoli e prefato dall'illustre
Prof. Nazario Pardini, affrontando un genere di scrittura per lei nuovo, la
narrativa. Una vera e propria curiosità, pertanto. Una primizia, non soltanto
per i suoi lettori abituali, ma anche per un pubblico più vasto, maggiormente
sensibile verso questo genere di letteratura. "Soltanto una vita" è
un romanzo molto particolare, dove lo stile narrativo si arricchisce di una
vena poetica sempre fresca e felice, in una scrittura limpida e comunicativa,
intrisa di profonde riflessioni filosofiche. Qualunque genere affronti, la
penna della Busà ha le medesime caratteristiche: è poetica e filosofica nello
stesso tempo.
Chi conosce la sua poesia sa che essa è profondamente pensosa. La sua prosa, viceversa, risulta intrisa di poesia, e ciò contraddice il luogo comune secondo cui il filosofo ed il poeta non sarebbero compatibili tra di loro. Evidentemente c'è un pensiero filosofico che si radica nella poesia (non razionalistico), così come c'è un sentimento poetico radicato nella filosofia (non sentimentalistico). Ma qual'è il tratto veramente innovativo di questa scrittura? Della contemporaneità condivide l'aspetto fondante, e cioè il senso del relativo: il sentimento doloroso del limite proprio di ogni avventura esistenziale; la precarietà e l'angoscia del vivere; la coscienza della consunzione, del logoramento, della fine. Ma tutto ciò in Ninnj si incontra e si scontra con un vivo desiderio dell'incorruttibile e dell'assoluto, dando vita ad una pagina letteraria incandescente, dove ad animarsi è il fantasma della frattura, fantasma che paradossalmente evoca la reciproca appartenenza dei due poli tra di loro.
Ne vengono
sfinimenti, sconfitte, ma insieme rinascite interiori, nella consapevolezza di
appartenere ad un disegno universale inconoscibile, cui tuttavia ci si affida
religiosamente. Una religiosità, direi, di ascendenze keerkegaardiane, dove la
separazione del divino dall'umano funge paradossalmente da propellente della
fede, nella certezza di un ritorno nel cuore dell'eterno al termine
dell'avventura esistenziale. E sono esattamente questi i temi che emergono
anche nel romanzo di cui ora ci occupiamo. "Soltanto una vita" è la
storia di una famiglia colpita da gravi sventure, ma capace di reagire e di
risorgere dalle ferite con rinnovati slanci ed invincibili ardori, facendo
ricorso all'amore in tutte le coniugazioni possibili, ma soprattutto puntando
lo sguardo verso l'assoluto, che è e resta la vera fonte battesimale di ognuno
di noi, come di ogni espressione vivente.
Potrebbe sembrare, questo, un facile ed ingenuo ottimismo per tanti intellettuali à la page, pronti ad arricciare il naso di fronte a tutto ciò che ha sapore di incanto, di innocenza, di purezza, di positività. Si ritengono scaltri e smaliziati, costoro, mentre invece hanno paraocchi che non consentono di vedere come positivo e negativo, incanto e disincanto, non sono altro che facce distinte d'una stessa medaglia. E in fondo hanno pregiudizi simili a quelli dei cosiddetti "incantati", degli imbambolati, seppure di segno contrario. Entrambi separano spocchiosamente il Nero dal Bianco, il Bene dal Male. Al contrario, l'incanto di cui parla la Busà non esclude il disincanto, ma lo include entro i propri confini. E' un incanto che si fa carico del disincanto, una gioia che porta sulle proprie spalle il dolore. E lo fa senza battere ciglio, come risulta fin dalla frase posta ad esergo del libro: "Credere nella vita / vuol dire accettare anche il peso del suo dolore".
Potrebbe sembrare, questo, un facile ed ingenuo ottimismo per tanti intellettuali à la page, pronti ad arricciare il naso di fronte a tutto ciò che ha sapore di incanto, di innocenza, di purezza, di positività. Si ritengono scaltri e smaliziati, costoro, mentre invece hanno paraocchi che non consentono di vedere come positivo e negativo, incanto e disincanto, non sono altro che facce distinte d'una stessa medaglia. E in fondo hanno pregiudizi simili a quelli dei cosiddetti "incantati", degli imbambolati, seppure di segno contrario. Entrambi separano spocchiosamente il Nero dal Bianco, il Bene dal Male. Al contrario, l'incanto di cui parla la Busà non esclude il disincanto, ma lo include entro i propri confini. E' un incanto che si fa carico del disincanto, una gioia che porta sulle proprie spalle il dolore. E lo fa senza battere ciglio, come risulta fin dalla frase posta ad esergo del libro: "Credere nella vita / vuol dire accettare anche il peso del suo dolore".
Il bianco non
esclude il nero, della cui vicinanza ha bisogno proprio per potersene
differenziare. Altrettanto il Bene, per crescere, ha bisogno del Male con il
quale si deve confrontare. Non lo può eludere, ma se ne deve alimentare. C'è
dunque un Male che fa Bene, un Male che contribuisce alla costruzione della
coscienza, anziché alla sua distruzione. Intendo dire che gli orizzonti della
scrittrice sono di ordine morale, non moralistico. La differenza è
fondamentale, perché dove il moralismo divide, la moralità abbraccia tutto con
ineffabile amore. E sono davvero tanti
gli spunti che potrebbero essere estrapolati dal libro per convalidare
l'assunto.
Mi limito a citare
le frasi finali del testo, che trovo particolarmente illuminanti e
significative: "Le risorse stanno in noi, basta saperle cogliere,
diramarle, veicolarle e trasmetterle ai nostri figli, senza ostentazione o
vanità, con efficacia e semplicità, senza tentennamenti... Veniamo al mondo per
amarla questa vita, l'unica che abbiamo, non per opporci ad essa o per
oltraggiarla, e se talvolta ne veniamo feriti, ebbene si, tiriamo fuori tutto
il coraggio, l'ardimento, la forza morale di cui siamo capaci per lottare
strenuamente contro il male". Una lotta che è anche un abbraccio, come si
può vedere, perché il male vissuto in tal modo finisce per essere mirabilmente
costruttivo. E sta qui, direi, l'ulissismo di questa visione della vita.
La cultura
contemporanea, approdata da tempo ai temi del Nulla, del Nonsenso e del Vuoto,
del Naufragio a senso unico, gronda a mio parere di orfismo ed ha bisogno di
incrementare quella fede nei valori positivi il cui depositario è Odisseo. Cosa
fa invece Orfeo? Caduto in disgrazia, finisce nella disperazione e nella
follia, mentre Ulisse, a dispetto delle sconfitte, è sempre spinto in mare
aperto con rinnovati ardori. Tuttavia egli conosce frustrazioni e naufragi, per
cui non ha alcunché di tronfio, di arrogante o presuntuoso. Non è un drago
sputafuoco ed è umilissimo nella sua fierezza, tant'è che si fa chiamare Nessuno. E' un Nulla e un Tutto nello
stesso tempo, una forza dell'equilibrio, una potenza della Natura. E credetemi:
queste digressioni non sono peregrine, ma fondamentali per mettere a fuoco la weltanschauung della nostra scrittrice.
C’è un’esperienza
letteraria importante, nel panorama culturale sostanzialmente orfico dei tempi
attuali, che in qualche modo raggiunge l’ulissismo e di cui è qui opportuno
parlare. Mi riferisco a Giuseppe Ungaretti. Ricordiamo i famosi versi dell’Allegria? “E subito riprende / il viaggio
/ come / dopo il naufragio / un
superstite / lupo di mare”? Ebbene la visione del mondo della nostra scrittrice
si trova su questo stesso binario, in questa medesima lunghezza d'onda. E' una
fede nella vita che cresce e si rafforza con l'esperienza del dolore. E a
questo punto è opportuno a mio avviso ricordare un'altro importante percorso
letterario ed umano, davvero odisseico, dei tempi attuali: quello di Alda
Merini, di cui non a caso la Di Stefano Busà è stata confidente ed amica.
E qui si giuoca, a
parer mio, un passaggio particolarmente importante per la cultura del nostro
tempo. Siamo nel Postmoderno, dove l'antropocentrismo in ogni sua forma è
crollato e l'umanità ha finito per disperdersi dal centro nelle periferie del
creato. Ebbene, a me sembra che nella storia che Ninnj descrive, i protagonisti
facciano un percorso alternativo, sperimentando un'altra e diversa centralità:
la centralità di se stessi. Così l'uomo, non più al centro dell'universo, qui è
posto, o si pone, al centro di se stesso. E la sua è soltanto una vita nel pullulare sconfinato di vite di cui si popola
l'universo. Gli attori di questo romanzo vivono nella consapevolezza che la
loro è soltanto una vita, solo una
tessera nell'immenso mosaico. Danno il meglio di sé, con il massimo impegno,
senza tuttavia sopravvalutarsi, senza illudersi di essere i protagonisti
esclusivi della scena.
E dire che sono
personaggi molto potenti! Appartengono all'alta società, sono direttori di
banca, ingegneri petroliferi, manager.
Ma non insuperbiscono, il che è straordinario. Nell'immaginario collettivo, lo
sappiamo, questo ceto sociale naviga negli ori e nei privilegi, nelle feste e
nei lussi sfrenati, per non dire dell'affarismo spericolato. Qui si fa
portatore, invece, di impegno etico, di morigeratezza, di affetti limpidi, di
valori morali. E tutto senza cedimenti retorici. Una rivoluzione! Ricordiamo il
detto evangelico? "E' più facile che un cammello entri nella cruna di un
ago che un ricco nel Regno dei Cieli"? Questo romanzo sembrerebbe smentire
l'assunto, ma in realtà lo conferma, in quanto il motto suddetto evidenzia la difficoltà per i potenti, non l'impossibilità, di vivere con sentimenti
di rispetto e di altruismo, di fraternità e di amore (difficoltà, d'altro
canto, comune agli uomini e alle donne di qualunque ceto e posizione sociale).
Il romanzo si apre
con una descrizione paesistica stupefacente. Siamo nella Tierra del Fuego, all'estremità meridionale del continente
americano, tra lo stretto di Magellano e Capo Hoorn. Un'alba rosata si dipinge
sull'ampia baia dopo l'orribile nubifragio notturno. Da un lato le colline
solenni, dall'altro l'oceano atlantico che "si apre come una valva sul
fondale lussureggiante di un'immensa esplosione di luce". Un vero e
proprio rapimento estatico di fronte alla bellezza selvaggia di una natura
incontaminata, crudele e dolcissima nello stesso tempo. E' lo scenario adatto
per porre il lettore nella condizione psicologica idonea ad entrare nelle
pieghe del romanzo, tutto giuocato, come abbiamo visto, sulla compenetrazione
armonica del positivo con il negativo. C'è un parallelismo calzante tra le
vicissitudini violente, ma rigeneranti, del creato e gli eventi dolorosi, ma
corroboranti, dell'esistenza umana.
Nazario Pardini, in
prefazione, parla di "un grande mélange
di cospirazioni naturistiche, di panorami mozzafiato, di forze evocative,
di scavi psicologici e di intrighi che mai si allontanano da una verità,
specchio dei nostri giorni". Realismo, dunque. Un realismo vitalistico,
energetico, diverso da quelle scuole del realismo che indulgono al pessimismo,
al disincanto, al trionfo dello squallore e del Nero. Ascoltate questa
descrizione: "Sulla sabbia sono ancora evidenti i segni lasciati dalle
raffiche di vento; disseminata di oggetti dei più disparati, la spiaggia appare
come uno scenario infernale; sparsi un po' ovunque, in modo disordinato e
violento, vi sono i segni di una lotta all'ultimo sangue, con quegli elementi
che la natura ha scaraventato in aria e ammassato alla rinfusa". E' da
questa violenza che la natura si rigenera, dando origine a nuove aspettative e
a nuovi cicli vitali.
La stessa cosa
accade negli eventi della vita umana, dove il lieto fine non è scontato, ma può
anche esserci, come in questo caso, ed è il frutto di un impegno strenuo e costante,
di una fede non astratta ma vissuta sulla propria pelle, andando molto oltre la
ragionevolezza umana. Tra Julie Lopez e George Martinez, dopo molte sofferenze,
scocca le sue frecce Cupido. E la Busà registra il suono festoso delle campane
del cuore in pagine ricche di estraniante fascinazione: "Tutto ora sembra
presagire un lieto fine: sentono di possedere l'apertura alare delle aquile che
sorvolano il cielo privo di nubi, una pacificazione interiore che rinforza gli
argini e inibisce i malumori, concilia con il mondo intero, che pare ovattato,
quasi insonorizzato, per loro, che hanno attraversato lo Stige a piedi,
lacerandosi l'anima, e ne riportano ancora le ferite, le escoriazioni, le
abrasioni".
Ed è stupenda,
successivamente, la descrizione di Julie, dopo aver superato la prova di un
triste aborto: "Hanno strani riflessi quegli occhi! Contornati da
pagliuzze dorate, hanno lo scintillio incomparabile di una riverberazione dal
profondo. Parlano il linguaggio del cuore, la lunga discesa negli Inferi, la
risalita lenta e faticosa di chi ha tanto sofferto e amato". I due
protagonisti, successivamente, avranno figli e nipoti, tanto che la trama
sembra assumere l'andamento di una saga. Una saga il cui mito centrale è
l'amore: l'amore sofferto e non sdolcinato, l'amore che è sempre un dolce
intriso di amaro. Perché bisogna costruirlo l'amore, e non aspettarlo da altri,
bisogna crederci fino in fondo, farselo crescere dentro e poi donarlo.
Scrive la Busà: "L'amore vero ci vive dentro, mai nei paraggi, né di sghembo o nelle vicinanze"; "L'amore s'impara: giorno per giorno, momento per momento, nulla è dato per scontato". E le pagine più belle sono a mio parere quelle che nascono osservando una gestante, una donna capace di spezzarsi come il pane per donare la vita ad un altro essere. Ci sono riflessioni formidabili, come la seguente: "Mettere al mondo una creatura è... mettersi in contatto con l'eternità... L'antinomia fondamentale dell'amore risiede nella frenesia del mordi e fuggi, nel dilatare il significato esteriore a sfavore di quello interiore". E non è, questa - non vuole esserlo - una teoria sull'amore, ma il puro e semplice maturato di conoscenze di vita di una neo-mamma, di una puerpera che parla e sussurra a se stessa: "Viviamolo l'amore! Non abbiamo molte vite, ce ne resta solo una, ed è molto breve!". Soltanto una vita, appunto.
Scrive la Busà: "L'amore vero ci vive dentro, mai nei paraggi, né di sghembo o nelle vicinanze"; "L'amore s'impara: giorno per giorno, momento per momento, nulla è dato per scontato". E le pagine più belle sono a mio parere quelle che nascono osservando una gestante, una donna capace di spezzarsi come il pane per donare la vita ad un altro essere. Ci sono riflessioni formidabili, come la seguente: "Mettere al mondo una creatura è... mettersi in contatto con l'eternità... L'antinomia fondamentale dell'amore risiede nella frenesia del mordi e fuggi, nel dilatare il significato esteriore a sfavore di quello interiore". E non è, questa - non vuole esserlo - una teoria sull'amore, ma il puro e semplice maturato di conoscenze di vita di una neo-mamma, di una puerpera che parla e sussurra a se stessa: "Viviamolo l'amore! Non abbiamo molte vite, ce ne resta solo una, ed è molto breve!". Soltanto una vita, appunto.
Franco Campegiani
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