giovedì 1 maggio 2014

L. SALLUSTIO SU: "FRAGILE MANEGGIARE CON CURA", DI E. CECERE

FRAGILE - Maneggiare con cura di Ester Cecere - Recensione di Lucia Sallustio

 

Postato il aprile 22, 2014 da lucia sallustio su http://luciasallustio.wordpress.com/

  




Non avrebbe potuto fare scelta migliore, la poetessa Ester Cecere, per aprire una raccolta poetica intitolata alla fragilità, concetto già presente nella dedica tratta da Fratelli di Ungaretti: Bolla di sapone apre emblematicamente l’opera con il suo volo in un mondo ostile, dove il pericolo, oltre alla classica brezza del vento che sospinge e aiuta ma se violenta distrugge, può assumere sembianze di esili dita di un bambino.
Malinconica, aperta alla negazione ostinata, abbarbicata, procede il viaggio la crisalide, farfalla impaurita che non vuole uscire dal bozzolo, dall’illusione e dall’ipocrisia rifugio.



Ci imbattiamo subito in un’anima fragile, bambina, timorosa di avventurarsi nel mondo che percepisce in tutta la sua minaccia, un’anima che si identifica negli elementi più deboli della natura, quali una coccinella gioiosa e piena di slanci che incautamente può divenire pulviscolo in un campo di papaveri da trattori attraversato, o minuscola formica che cerca di risalire lungo lo stelo verde e sottile con esauste zampette arrancando sotto il peso, che da sempre trasporta otto volte il mio peso, da sola.
Ma è la stessa fragilità di donna che rappresenta la forza della sua esistenza nel rapportarsi alla vita con il dubbio perenne e l’umiltà che la rendono ancora più amabile agli occhi degli altri, i suoi cari, tutti compresi nella silloge e destinatari di omaggio poetico: il padre, la madre, il figlio, oggetti d’amore in quel donarsi incondizionato che è l’altro punto di forza di un essere che pure si dichiara fragile sin dal titolo dell’opera. Un essere insofferente all’ipocrisia celata dietro la maschera, visi/una volta d’amore,/da oscuri livori trasformati; isolato nel silenzio, sipario di pesante broccato, su di un palcoscenico dove le parole,/acido solforico/ hanno sfigurato il cuore. Eppure, quella stessa fragilità prende consistenza, mentre non demordono i perché. Ed è questa ricerca delle cause per giungere a possibili, doverose soluzioni, che fa muovere i passi, pur nella loro incertezza, e riavvicinare all’altro, riconciliare con la vita. Come Erasmo elogia la follia, la nostra poetessa elogia l’ingenuità che la caratterizza, la porta a sognare, a credere nelle favole di orchi cattivi e ingenue fanciulle rapite, altro segno della sua fragilità in un mondo sempre più disincantato. Un essere che avanza in punta di piedi, quasi timoroso di esserci, hai varcato la soglia di un dolore/dove anche il respiro è deflagrazioneUn’anima che cerca l’amore, si chiede dove sia, dove sia andato a finire, un’anima ferita vetri infranti e schegge/custodisco/d’ogni colore/d’ogni dimensione. Sono aguzzi, taglienti come rasoi e provano la persona, mettono in dubbio la capacità d’amare custodirò/un giorno/briciole d’amore? I fantasmi, a notte, assalgono questa creatura provata, incerta e hanno occhi di brace/occhi di pietra/lapidano il cuoreLa poesia Alluvione ripercorre la metafora degli eventi naturali destabilizzanti per l’animo umano: alluvione d’odio e follia/l’amore travolge. Messe a dura prova tenerezza e compassione, i frammenti d’amore non riscaldano il cuore contratto sotto le macerie. Constata, la poetessa, che in questi cataclismi naturali, l’essere man mano cambia identità, perde una parte di sé, si modifica. Ma è proprio da questa fragilità estrema che, irrobustita dalle avversità, nell’incertezza di un’alba nuova, annaspando e annegando in un mare rosso sangue, spaventata di fronte all’assenza di metamorfosi che permettano al bozzolo di diventare farfalla e volare, la poetessa trova la sua nuova dimensione, il suo orizzonte di senso. In Sole di mezzanotte, l’autrice ribadisce il senso di solitudine, addirittura polare e nella notte inondata di luce siderale, si avventura alla ricerca della fonte primaria di luce e di vita, del sole del nuovo giorno. La ricerca estrema di compagnia trova esaltazione nella poesia Sotto la pioggia, un cane dove l’accomunarsi con la solitudine di un altro elemento della natura, un cane dagli occhi speranzosi e infissi in quelli del viandante solitario, trova un momento di condivisione forte. La speranza, la via d’uscita, s’intravvede già dalla poesia Sinergismo perduto dove la sinergia di anime mosse da un “afflato comune” anche se tardivamente incontratesi sembra rafforzare l’ipotesi che il rimedio alla solitudine sia nella sinergia d’anime. In stormo volerei, di nuovo emerge la voglia di trovare compagnia e forza dall’unione. Qui l’uso dei condizionali estrinseca aspirazione dell’animo ancora a livello velleitario, desiderio di farsi pilotare da ali giovani e forti, anche quando il peso degli anni rende fragili ed esposti. Ma poi la chiusa con la triste constatazione che gabbiano, passero o falco/da sola affronto il mio cielo evidenzia il rammarico, l’incapacità a fare gruppo, a beneficiare della auspicata sinergia, rende ancora particolarmente triste la condizione umana dell’Io poetico fino a questo punto della silloge. 


Continua l’accomunarsi agli elementi più minuti e semplici della natura, quelli apparentemente più fragili ed esposti alle forze del cosmo con copiosi elementi di identificazione e di raffronto. Compaiono la crisalide nelle sue fasi di vita, la coccinella, il cane, la formica, il lupo ferito. Quando pure si potrebbero ravvedere degli elementi di forza o di aggressività, l’autrice li piega con delicatezza ad un momento di fragilità, quello in cui si è deboli, feriti, esposti alle forze della natura e ai soprusi. Non meno speranzosa è la sezione di poesie che si apre con Illusione:
Ad una ad una
Caddero le torri.
Ad una ad una.
Non s’alzò più
Il ponte levatoio.
Travolta e dispersa,
l’invincibile armata.
Versi che decretano la fine delle illusioni che tengono compagnia all’uomo forte. A questo gruppo appartengono poesie dedicate agli affetti più cari, alla madre e al padre, al cui ricordo l’autrice s’appiglia cercando conforto nel momento di maggiore fragilità. Ma i ricordi stessi sono legati a momenti di altrettanta debolezza, quali quello della madre incapace di scorgere la sua fine imminente nella sfera di cristallo della vita o la figura paterna ridotta ad ombra che affianca ma che non si avvale del momento forte di vicinanza che una lapide, alla quale portare fiori per festeggiare compleanni, rappresenta da sempre per l’uomo. Ancora velleitaria l’aspirazione appare nella poesia Volevo essere dove continua il gioco degli opposti, dove il senso di fragilità, il desiderio di essere arenaria per farsi modellare dall’acqua e dal vento, in una parola dalla vita, dove essere arbusto per disegnare arabeschi, collide con la realtà di essere elemento sempre più forte, granito, sequoia, dotato della forza resistente e duratura. 


Incomincia a delinearsi piano il cammino verso un nuovo status, disegnato dall’ossimoro della forza intrinseca alla fragilità o di una fragilità che, a patto che la si maneggi con cura, sa divenire forza oppositiva e resistente. Continua la filosofia della negazione in Non scriverò d’amore dove l’aridità del cuore messo a dura prova dalla vita si ribella alla poesia d’amore. Solitudine e buio, incapacità momentanea di risalita, si confermano a tratti, come nella poesia La forra pervasa da disperazione. L’impossibilità del cuore a scrivere d’amore trova un parallelo nell’essiccarsi delle lacrime, come latice bianco che fuoriesce dalle ferite lasciate dallo strappo di un germoglio cresciuto nella scorza dell’albero. Resta, l’autrice, come manichino svuotato, modellato e adornato dal mondo con i suoi credo, doveri e amori che, immobile e apatico, si lascia vivere nella lirica Manichino. Traspare, a questo punto della silloge, una maggiore duttilità a farsi modellare, una minore resistenza, una leggera apertura alla vita, sancito dal brindisi che 
Invitante nel bicchiere,
addormenterai un dolore antico
che mi rende insonne ancora.
Il monito successivo in Lupo solitario ad arrestare la corsa solitaria nella fragilità estrema delle ferite, per sfuggire a se stesso, senza branco, nelle foreste oscure, ad annusare l’aria, il profumo d’amore trasportato dal vento, è già inno più deciso alla vita, a non lasciarsi andare alla morte del corpo come alla morte dell’anima. La condivisione di uno stesso destino volubile e incerto che determina l’esistenza umana è racchiusa in Davanti a due autoritratti di Tintoretto, dove i due volti di un uomo giovane e vincente e di un vecchio al quale la sorte ha tutto sottratto imprevedibile porgono forte, per contrasto, il messaggio della mutabilità della condizione umana, per questo ancora più fragile. Con la condivisione di uno stato personale con quello endemico dell’Umanità, una sorta di solitudine cosmica di fronte al destino, si chiude il gruppo di poesie che si è incamminato verso la speranza del vivere con l’invito a mettersi una maschera e partecipare alla vita nella poesia Il Ballo, pur nella consapevolezza che solo il buio della notte è momento di sincerità, quando non si guarda in faccia alla realtà. Ci vuole Preghiera, con il suo dono altruista d’acqua ai nuovi germogli verde brillante, anziché alla spenta foglia il cui marrone è ricordo del passato splendore, per segnare il passo alla rinascita, al volo di farfalla che duri almeno un giorno, alla rivincita del tenero bucaneve che sbuca dalla coltre bianca e pesante fragile,/eppur fortissimo/affiorando. Finalmente l’autrice, si sente libera dalla zavorra del presente, mentre sorvola sul passato, schivando liane attraverso fitti boschi e considerando emblematicamente, quando sorvola il mare, che il mare non è mai uguale a sé, che il panta rei dell’esistenza cambia ogni volta scenari e scombina le aspettative, ma in fondo può donare nuove e più avvincenti prospettive. Per questo basta la memoria sbiadita dal tempo che tutto porta via e una goccia di rugiada a dare nuova vita alla rosa del deserto, ennesimo emblema di forza e bellezza nata dalla inconsistenza della sabbia. Con Canto alla vita, nonostante, ci si avvia alla ripresa finale, alla razionalizzazione che la vita è degna di essere vissuta apprezzando perfino avversità e bassezze, come il volo basso dei pipistrelli, mediocri voli al buio in anfratti pericolosi, a rischio di cadute letali. E la voglia di vivere giunge con la folata del maestrale a maggio, con il desiderio di volare, di respirare l’odore del mare che rinvigorisce, con animo di mutare il lamento in canto. La volontà negativa che si percepiva nel nonostante della poesia precedente, assume sembianze possibiliste nel forse de Il profumo del maestraleCosì i giorni della vita,/identici/scorrono tra le dita. Sono tegole pesanti, sovrapposte le une alle altre, uguali. Eppure basta poco, piccole gioie domestiche, frulli d’ali, nidi e pigolii a restituire pienezza, a regalare emozioni giuste per andare avanti. Dal finestrino, la vita chiude la raccolta regalando al lettore, seppure limitato da un forse che invita ad essere sempre cauti e non illudersi, uno spiraglio di apertura alla vita, il senso della continuità, la speranza dell’approdo del pellegrino, anima errante sospinta dalla vita, ad una stazione, al calore di un abbraccio, alla restituzione di un punto fermo e dell’amore, unica ancora alla fragilità dell’uomo.



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