mercoledì 5 giugno 2019

ROSSELLA CERNIGLIA: "RIFLESSIONI SULLA CONTEMPORANEITA'"

   
A PROPOSITO DI
(martedì 23 aprile 2019)
NAZARIO PARDINI CRITICA
GIORGIO LINGUAGLOSSA

RIFLESSIONI SULLA CONTEMPORANEITA'
di Rossella Cerniglia

Rossella Cerniglia,
collaboratrice di Lèucade


     Nel nostro tempo, quello che il filosofo francese Lyotard ha definito postmoderno, tutto sembra darsi nella dimensione del frammento. Ogni aspetto della realtà è divenuto complesso, multisfaccettato, multidirezionale e l'apertura al mondo ci appare poliedrica e multiforme. Saperi ed attività umane si sono andate approfondendo e differenziando secondo uno schema di specializzazione/settorializzazione che ci appare, oggi, come un percorso irreversibile e inarrestabile.  Le ricerche e i saperi si sono a tal punto diversificati e ramificati,  in relazione alle conquiste e ai progressi in specifici ambiti di realtà, che riesce difficile, se non impossibile, ricollocare tale frammentazione all'interno di un quadro sinottico che  ponga la parte in relazione al tutto.  Le grandi sintesi, i quadri d'insieme, le ideologie totalizzanti ed ogni altro quadro di riferimento sono scomparsi, sia a livello filosofico che scientifico che letterario. La filosofia è andata orientandosi su una ricerca che si interroga prevalentemente sulla funzione del linguaggio; la scienza ci appare spezzettata settorialmente in varie branche, difficilmente comunicanti tra loro o totalmente autonome l'una dall'altra; in campo letterario non si scrivono più romanzi  dall'impianto epico e grandioso né si pone l'accento su ideologie e  valori condivisi. Tutto l'universo, che trovava, un tempo, una rappresentazione coerente nel soggetto, si riduce ora all'episodico, all'attimo di vita  esperito nell'immediatezza, nell'hic et nunc, cioè, ancora, nel frammento. Indice di un depauperamento dell'orizzonte interpretativo che si concentra nella dimensione sempre più solipsistica del privato. Neanche i poeti fanno più capo a una visione unitaria e interattiva delle loro conoscenze ed esperienze, a quella cosa che un tempo era definita Weltanshauung, l'occhio sul mondo, ma tutto il loro dire (salvo rare eccezioni) non trova espressione che nel frammento. Ma esso non è l'occhio che guarda il mondo alla ricerca della sua consistenza, di un suo essere profondo ed autentico, è semplicemente il documento e la cronaca di istanti staccati, che, perché tacciono sul resto, non ci danno ragioni della realtà rappresentata. Realtà che rimane a se stessa, non indagata, e la rappresentazione è solo riproduzione, cronaca, macchina fotografica che coglie solo uno spaccato - nei casi migliori  una folgorazione-  dell'intero, un frammento che, tuttavia, da solo non regge, non sta in piedi, da solo non ha senso. Ma se le cose stanno così, direi che siamo incamminati a grandi passi verso il caos e il generale marasma perché l'uomo è, per sua natura, necessitato a dar senso alle cose: in mancanza di esso, la vita scade di livello, si perde nell'insignificanza, smarrisce la sua  connotazione umana. Ogni azione dell'uomo, ogni sua decisione o scelta nascono, infatti, con una motivazione e un senso  che le orienta e le muove. Il volere e il costruire qualcosa hanno sempre un senso in se stessi, una ragione e una finalità che li spinge avanti, in cerca di qualcosa  da conseguire. Senza un senso, una ragione, una motivazione, nulla si genera, e l'azione, il pensiero e le scelte dell'uomo divengono nulli,  invalidati dalla loro stessa insignificanza.
     Heidegger parlava, profeticamente,  di un progressivo allontanamento del Pensiero da quel connubio con il Canto postulati all'interno della Dichtung. Essa ci appare come il sostrato archetipico in cui Pensiero e Canto, Filosofia e Poesia, si intersecano, si fondono, dialogano tra loro intimamente, inscindibilmente. In altri termini, mi pare che H. individui, per così dire, una struttura portante della nostra esistenza, quella da cui dipende la nostra interazione col mondo, con la realtà che ci circonda: il Pensiero e il Canto, la Filosofia e la Poesia ci appaiono strutture a noi destinate nel rapportarci al mondo  e nell'interpretarlo. Ma esse si danno nell'unità della Dichtung, in questa archelingua che è la matrice comune che tesse e compenetra entrambi, rimanendo nella assoluta indistinzione da essi - fondamento che permane non scisso dai suoi elementi (descrivibili singolarmente solo a posteriori) – ma che nella sua postulazione di fondamento del dire e del pensare, allo stesso tempo li trascende, poiché in questo suo essere a fondamento, ogni pensiero e ogni dire non potranno mai ricomprenderla e riaffermala interamente. Essa rimane nel pensiero e nel linguaggio dell'uomo in un Nascondimento che mostra o in un Mostrarsi che nasconde. Ed è qui l'essenza del pensiero e del linguaggio e, se vuoi dell'esistenza intera: essa vive nell'ombra di questo Nascondimento che accenna a se stesso senza mai interamente svelarsi, è l'inesorabilità del metafisico, connaturata alle modalità di essere della nostra esistenza, è il problema dell'Origine, dove l'Aporia insormontabile è costituita dal fatto che qualunque tentativo facciamo per raggiungerla vede l' Origine arretrare nel suo Nascondimento, e porsi sempre oltre, e sempre al di là dell'orizzonte umano.   
     Ma la deriva del pensiero dalla sua matrice originaria dove entra in connubio col canto, col farsi stesso della poesia, conduce con sé la deriva del linguaggio che tale pensiero esprime. Se il pensiero smette di interrogarsi e di pensare in maniera determinata e forte, se si limita ad una semplice registrazione di fatti che il linguaggio trascrive in semplice cronaca, in documentazione del frammento, senza tentare una loro interpretazione, affiorerà il linguaggio del non-senso, qualcosa di degradante per l'uomo, in quanto essere pensante, un'abdicazione alla sua stessa identità nell'inadeguato impiego dello strumento a noi dato per comprendere il mondo e per orientarci in esso.  La ricerca di nuove strade, ritenute più consone alla poesia del cosiddetto postmoderno, non può essere stabilita a priori, avendo, prioritariamente, di mira il solo aspetto formale. Imporsi nuovi schemi nell'approccio alla realtà, inventarsi il guscio di nuove formulazioni e nuove modalità o  sbocchi inediti per la poesia (il più delle volte assai discutibili) non mi pare rivoluzionario per niente: è solo la constatazione che l'uomo è costretto a pensare secondo schemi -che a noi, tuttavia, sono già stati dati una volta per tutte, anzi consegnati all'Esistenza stessa insieme alle ineliminabili strutture o condizioni che fanno sì che essa sia, appunto, quella che è.  In altri termini, una vera, assoluta libertà del pensare non esiste, se non eliminando il pensare stesso. A mutare sono certo i contenuti di pensiero ma non la struttura che li informa. Rimane perciò la constatazione di questa sorta di prigione o gabbia nella quale ci troviamo e della quale non possiamo liberarci finché viviamo. Tutto il resto mi pare illusorio. Non è che non vi sia il divenire, il cambiamento, esso si fa presente a noi in ogni cosa, ma  non arriva a ledere mai la struttura ferrea dell'esistenza con le sue ineluttabili, ineludibili coordinate.
Quale auspicio, dunque? Abbiamo sotto gli occhi il nulla prodotto dalle avanguardie del Novecento, dallo stesso Rimbaud  ci arriva il monito che se il pensiero si estranea dalla poesia, se si allontana da essa disinteressandosene, di essa non rimane che un vuoto guscio, cioè nulla.
Pertanto, è da escludere, per me, la programmatica ricerca di forme nuove nella poesia, se è una ricerca fatta prima ancora che la poesia urga nel bisogno di venire alla luce. Il divenire è connaturato a tutte le cose, è una delle ineliminabili strutture dell'esistenza stessa (che anche in questo divenire persegue un suo fine). Il poeta ha solo il compito di esprimere, nella maniera più aderente alla Dichtung heideggeriana, il suo mondo interiore (che non può essere costituito da frammenti sparsi a meno che il frammento non abbia la stessa pregnanza di senso che riscontriamo nell'enucleazione del mito, tale da renderlo per ciò stesso un emblema).  E sta in questo l'unica rivoluzione che il poeta può permettersi: ma è proprio lì che una rivoluzione si compie. Mutamento e rivoluzione sono insiti al nascere stesso della poesia, non sono elementi alienati da essa, accessori o collaterali, non precorrono il suo nascere, ma sono nell'atto stesso del suo nascere. Il rischio di costruire prima e non “dentro” alla poesia la sua particolare forma, non può che essere destinato, a mio modesto avviso, al fallimento. La rivoluzione consiste nel fatto che la forma da costruire nasce in relazione a un prodotto unico, per quella sola specie esistente, per quella particolare poesia, nella sua indissolubile comunione di anima  e carne: sola ed unica come ogni individuo e come l'individuo che l'ha prodotta.
L'assoluta unicità del mondo interiore del poeta deve trovare espressione in una forma unica che è la forma di quel mondo. La sua singolare fisionomia non risiede né nella sola forma né nella sola sostanza della poesia, ma è nell'interezza che tiene immanentemente in sé la “materia” del canto e la sua forma. Non ha senso, pertanto, assumere acriticamente da altri ciò che non ci appartiene, che nasce da un'individualità che non è la nostra o da un contesto sociale, politico, culturale che ci è estraneo. Assumerlo solo perché la corrente ci trascina in quella direzione, solo perché è una via da altri battuta, indicata, peggio ancora perché è “di moda”, non è un bene, non fa onore alla natura umana.  Se qualcuno viene a dirci che, camminando in una certa direzione, incontreremo il baratro, vi pare più sensato scapicollarci verso di esso o tentare il più possibile di aggirarlo ed evitarlo? Quanto sta avvenendo ai nostri giorni, questo processo al quale stiamo assistendo e nel quale ci troviamo immersi, che porta ad un indebolimento del pensiero che non è più in grado di concentrarsi sui grandi temi e valori, come è stato fino al XIX secolo e in parte nel XX, né di avere una visione unitaria del Tutto, è figlio del nostro tempo, di tutto ciò che caratterizza il nostro tempo: lo sviluppo tecnologico e telematico, la globalizzazione dei mercati e ciò che il capitalismo ha generato di più nocivo per l'uomo, cioè, da una parte l'asservimento al diktat del capitale, dall'altra lo sviluppo insensato del consumismo, divenuti ormai espressione di un dominio nuovo e  di un asservimento alla materia e al denaro.
Lo sviluppo sempre più vertiginoso della tecnologia, il suo essere parte di questo nuovo dominio, di questo perverso ingranaggio che è la logica del Capitale con la conseguente ricaduta sulle masse nella forma imposta del consumismo, è il principale artefice della cattiva piega o, se si vuole dell'involuzione, della società ai nostri giorni. La prassi, ormai istituzionalizzata, del consumismo, mettendo tutto, e assai facilmente, a portata di mano di ognuno, da una parte ha imposto scelte che non sono più dell'individuo, ma servono il Mercato, dall'altra ha generato abulia, soprattutto intellettuale. Gli strumenti delle nuove tecnologie si sono sostituiti alle nostre possibilità di pensare, di indagare, di interrogarci. Ed è da queste premesse che il pensiero è andato via via indebolendosi e assottigliandosi sino all'inconsistenza, e con esso anche sentimenti umani che hanno una matrice nella comprensione profonda dell'altro. Ma sta qui la rivoluzione, l'andare contro corrente: il nostro pensare non dovrebbe consistere nello “stare alla finestra” a guardare ciò che accade, a vedere il mondo transitare, a noi quasi estraneo, ma dovrebbe continuare ad interagire con esso. Pensare è esercitare le facoltà di cui si compone il pensare: l'analisi dei dati della nostra esperienza, la sintesi, l'attività critica. Non abbiamo veramente cognizione di nulla se non operiamo sintesi, accostamenti, parallelismi, analogie, se non interreliamo e incanaliamo le svariate esperienze in un processo unitario. E le nuove tecnologie informatiche sembrerebbero create apposta per impedirci di farlo, distraendoci dalle cose importanti per un mondo fatto solo di futilità. Ci avviamo, in tal modo, al caos, nel senso che non avremo più ragione delle cose e ne saremo allora governati, saremo in loro balia. Saremo in balia di un flusso di eventi che non potremo più dirigere e ne saremo trasportati come i cadaveri nella corrente, le foglie nel vento...
D'altra parte, questo indebolimento del pensiero – che è innanzi tutto delle masse- è andato progressivamente accentuando il divario, all'interno del sistema dei saperi e delle conoscenze umane,  tra i pochi che la cultura detengono e determinano, e la posizione, sempre più amorfa, superficiale, non creativa e non intimamente coinvolta delle masse, istituendo, in tal modo, un diaframma tra attori e spettatori del sapere ma anche del mondo, tra chi ne detiene il dominio e chi lo subisce, anche se  nell'ambito culturale agiscono per lo più fattori non prettamente culturali, ma relativi alle direttive della macroeconomia globale e del Mercato. La loro onnipotenza e quella della finanza induce alla constatazione di una implicita sudditanza delle masse, e del plagio della volontà che a loro pertiene, manipolata, appunto, e sostituita dai poteri forti, inarrivabili dell'economia e della finanza globalizzate. Le Nazioni stesse che, un tempo, svolgevano un ruolo determinato e peculiare nell'orbita della politica internazionale, ora, per la politica globalizzata che ne consegue, si allineano allo stesso ruolo degli individui, divenendo essi stessi parte di una massa senza volto e senza identità: esattamente come gli individui hanno perduto la loro individualità, non sono più tali, ma numeri asserviti ad una perversa incoercibile forza.
L'ottimismo con cui Vattimo e tanti altri - filosofi e non- guardano al postmoderno (con la morte di Dio e della metafisica e dei grandi sistemi di pensiero ecc.) mi appare abbondantemente contraddetto e destituito di valore dagli innumerevoli efferati accadimenti in corso, come le tante guerre volute e combattute e senza via d'uscita, e le tante disparate nefandezze che affollano le cronache dei giornali quotidianamente, cronache che investono ambiti e istituzioni la cui lungimiranza era  un tempo garanzia inoppugnabile, e che vanno ad intaccare, ora, in maniera definitiva, la consistenza stessa dei principi più irrinunciabili dell'etica  umana.  E' sotto gli occhi di tutti il fatto che le vicende dei nostri tempi, gli accadimenti nei quali ci troviamo immersi, coinvolti, contravvengono platealmente al pensiero di un rinnovato umanesimo, più laico, più sregolato, più libertario e all'insegna del buonismo e del mite godimento di quel che la realtà ci offre, come lo stesso Vattimo aveva preconizzato.  E con questo, siamo proprio nella direzione di quel minimalismo che il sistema predilige, ricercando l'assuefazione e la sottomissione e la non emancipazione delle masse, che è necessario assoggettare.
   Il divario apertosi tra i pochi che detengono un dominio e chi tale dominio subisce,  tra mondo  egemone e mondo assoggettato, si è andato poi esasperando a tutti i livelli di realtà riflettendosi in ogni suo aspetto. Gli stessi filosofi brancolano nel buio.  I veri depositari di un sapere ancora credibile, sono, appunto, coloro che operano senza un fondamento del loro sapere cioè gli scienziati.  Essi, infatti, non si interrogano sul fondamento della realtà che indagano. Ma a loro, in qualche modo, si crede, da loro si attende, a loro è demandata la rifondazione di una scienza  sulla base di un nuovo fondamento o sulla riconferma di quello che è stato dal sapere stesso sconfessato.    
Insomma, invertito il processo, si torna a ciò da cui il pensiero, anticamente, aveva preso le mosse, si torna  alla riproposizione della questione dell'Origine, al problema dell'Essere e della realtà. Infatti, le grandi interrogazioni degli scienziati, al giorno d'oggi, mi pare vertano proprio su questo punto nodale, il primo e il solo punto indagato nelle lontanissime origini del pensiero stesso. Questo è, per me, la riprova  dell'impronta  teleologica dell'universo, come se una sua logica interna, un pensiero immanente ad esso ci indirizzasse all'Oltre, in un processo di Immanenza/Trascendenza che rimane la radice dell'Universo stesso, o che dir si voglia, di Dio. Infatti, comunque si attui questa ricerca, sia che parta da un'indagine sul suo fondamento, sia che parta dalle cose stesse, dall'Essere o dall'ente, essa conduce sempre ad additare un Oltre, che si colloca, irrimediabilmente, al di là delle coordinate esistenziali, come se  il  fondamento dell'esistenza di fatto, e delle facoltà interpretative con le quali ci orientiamo in seno ad essa, fosse quel limite dal quale l'”Esserenascosto” accenna a se stesso senza mai rivelarsi.                                                                  
Mi appare allora inevitabile il parallelismo tra Immanenza/Trascendenza e tra Linguaggio umano (pensiero-canto)/Dikthung (heideggeriana). Il pensiero di Heidegger, a riguardo, mi è sempre apparso però controverso e forse volutamente o inesorabilmente ambiguo: da un lato, infatti,  sembrerebbe additare la  Dikthung  come matrice che accomuna, in una sorta di immanenza, sia il  Pensiero che la Poesia, dall'altro, vivendo essi nella luce di essa senza mai  identificarsi con essa (che rimane inattingibile e nascosta), sembrerebbero additare la trascendenza stessa della Dikthung che nel suo mostrarsi attraverso  il linguaggio, come espressione e del Pensiero e del Canto, allude a se stessa senza mai dichiararsi, rimanendo “dietro le quinte” per così dire, essenza stessa di un linguaggio - quello umano, naturalmente- che nel momento in cui dice, determina e circoscrive togliendo già, dall'oggetto indicato e circoscritto, tutto l'altro che rimane al di là della sua determinazione.
Il rapporto Immanenza/Trascendenza, sarebbe poi, tradotto in altri termini,  il rapporto che lega parallelamente e dialetticamente l'Esistenza all'elemento che la trascende e che ad essa si impone, vale a dire,  il Trascendente, l'Oltre, che per quanto ci adoperiamo a negarlo, sempre risorge,  sempre accenna a se stesso in quel Nascondimento/Disvelamento  che gli è proprio.   Ma tale rapporto, che a noi si mostra come parallelo e dialettico, verrebbe ad esprimere una Identità, una eguaglianza fondamentale poiché, solo nello iato che è l'esistenza, l'Immanenza/Trascendenza,  -ovvero il Nascondimento che si disvela e il Disvelamento che in se stesso si ritrae, nascondendosi a noi- si mostrano come distinti.
                                                                                                  Rossella Cerniglia



17 commenti:

  1. https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/06/04/poesie-inedite-di-giorgio-linguaglossa-e-mario-m-gabriele-con-una-glossa-a-proposito-del-dicibile-e-dellindicibile-nella-nuova-poesia-la-nuova-questita-delle-cose-e/comment-page-1/#comment-57443

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  2. L'esegesi di Rossella Cerniglia è una pagina di raro interesse intellettuale, artistico, umano, filosofico, spirituale. Una pagina così esaustiva, che commentarla sembra inutile. Ella parte dall'analisi del postmodernismo di Lyotard e precisa che con questa espressione il filosofo francese intendeva identificare un fattore centrale di trasformazione: dare pari dignità a tutti i linguaggi, senza più porre una modalità di pensiero come "superiore" alle altre. In effetti con il diffondersi delle varie tecnologie si sono venute a creare le frammentazioni,in grado di diventare vere e proprie protesi di linguaggio e dei campi operativi di esso. Il postmodernismo si è senza dubbio affermato in molti campi dello scibile umano, basta pensare alla medicina. Oggi il sapere clinico è suddiviso in tante specializzazioni, che impediscono di trovare un sapere unitario, ovvero un uomo capace di svolgere il ruolo dell'internista a trecentosessantagradi. Lo stesso discorso, come sottolinea la Cerniglia, avviene nel settore artistico, Non più quindi sistemi filosofici e grandi narrazioni basate sull'eredità dell'Illuminismo e sui grandi sistemi emancipativi, ma una nuova linea di pensiero fondata sul frammento, sulla eliminazione delle strutture sintattiche, sul lirismo, che sia specchio della società liquida e vada quindi di corsa, ribellandosi agli antichi principi. In Italia i poeti postmoderni sono pochi, ma il tempo darà loro ragione. E come ho già scritto in precedenza, credo che il minimalismo non si adatti a nessuna disciplina. La libertà è un bene che appartiene a tutti, ma la verità resta nel mezzo, cioè nella capacità di conciliare il passato e il presente e di non ridurci a essere frammenti della breve esistenza che ci viene data in dote.
    Ringrazio di cuore Rossella Cerniglia per il suo saggio e mi scuso per l'intervento riduttivo. Di fronte a un'Opera simile ci si può solo complimentare.
    Maria Rizzi

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    1. RICEVO E PUBBLICO

      Ringrazio io, di cuore, Maria Rizzi, per aver letto in profondità e interpretato compiutamente i passaggi essenziali del testo, aggiungendovi una dovizia di particolari ascrivibili alla sua cultura e al portato di esperienze che ha saputo compendiare in modo vivo e originale.
      Ed è questo anche il compito e il valore intrinseco della Poesia: il saper tessere in unità, un universo di frammenti che rimarrebbero insensati, disarticolati e banali se non ricevessero il crisma della nostra singolarità, della nostra profonda essenza. Se non fossero portati in Uno a costruire nuova realtà, nuovo mondo e nuova Poesia, cioè nuova vita dell'arte.
      Non c'è comprensione del mondo, né rivoluzione, né originalità, né poesia nella visione del solo “frammento”.

      Rossella Cerniglia

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  3. il viaggio vertiginoso che la nostra mente riesce a compiere oggi, tempo di disfacimento e di degrado totale, di mancanza di ideali e di riferimenti culturali,è qui dettagliatamente proposto in una approfondimento ideologico e del segno che è luminosamente inseguibile. Il percorso intellettuale che possiamo ricamare secondo il sussurro timido della "poesia" è sempre unico e meravigliosamente centrale. Non importa se non riusciamo a trovare il nome esatto del movimento che coinvolge. Post o non post , è la "parola" che diventa al momento attuale e coinvolgente. Ottima la scrittura di Rossella Cerniglia , in questo scorrere di immagini e sofismi. Grazie !
    http://antonio-spagnuolo-poetry.blogspot.com

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    1. Grazie ad Antonio Spagnuolo, per avere arricchito col suo commento il mio discorso.Il linguaggio della poesia è per me il linguaggio dell'Anima,ed è perciò "unitario". Non è quello della nostra struttura egoica affermatasi nell'incedere millenario di una cultura che ha dato vita alla nostra civiltà occidentale -che ha finito col mettere in un canto la nostra vera e luminosa essenza. Se parla il nostro "Ego" parla infatti per frammenti, senza riuscire a sanare tutte le sue contraddizioni interne che ritrova poi nel mondo, che è fatto da noi. Il mio riferimento è sempre ad Heidegger, alla sua "Dikthung" e al valore di "voce" dell'Essere che parla nel linguaggio dell'uomo.

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  4. Una riflessione è, di per sé, esplorazione di un tema, avvicendamento di pensieri. Rossella Cerniglia scruta l'oggi con l'educazione dell'analista e con il puntiglio dell'osservatore attento. Mi piace l'idea del "frammento", ma vorrei che la poesia, in particolare, ne rifiutasse la riduttività nell'illusione, forse, che i poeti sappiano ancora assentarsi dalle lusinghe deteriori della contemporaneità. Un applauso a Rossella per la sua preziosa fatica, un felice rincorrersi di pensieri, valutazioni e stime di sicuro interesse intellettuale.
    Eugenio Rebecchi

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  5. Partiamo da qui: “ ... è da escludere, per me, la programmatica ricerca di forme nuove nella poesia, se è una ricerca fatta prima ancora che la poesia urga nel bisogno di venire alla luce”. Mi sento di essere pienamente d’accordo su questo concetto per averlo sostenuto più volte, in svariate circostanze, anche su questo blog. Mi pare assurdo che qualcuno (una persona, un gruppo) si arroghi il diritto di dettare canoni e direttive, e di tracciare solchi entro i quali dovrebbe realizzarsi la poesia, che è per sua natura quanto di più libero possa esserci; di determinarne a priori essenza, modo di essere, forme, finalità; di costringerla in una gabbia normativa che non ha senso alcuno. Anzi mi muovono a un sorriso (di compatimento) certuni che teorizzano poetiche -magari del frammento-, ignorando che per fare poesia ci vogliono innanzitutto i poeti, non volenterosi (e neppur giovani) scolari che si esercitano nel compitino quotidiano, curando scrupolosamente di inserirvi tutti gli ingredienti prescritti. La realtà è che MANCANO I POETI, quelli veri e grandi: ecco il problema di questi nostri tempi; che hanno mille negatività, come compiutamente annota in questo interessante saggio Rossella Cerniglia, ma che poco o nulla hanno a che fare con l’assenza di voci poetiche di alto livello. Perché quelle non nascono a comando, e neanche per un motivo particolare. Nascono, e basta.
    Quanto al frammento, eredità davvero postuma dell’antico epigramma assurto a dignità letteraria in epoca ellenistica, preso in sé ( e da solo) è certamente una forma artistica di corto respiro, soprattutto per la brevità che lo connota; ma se si cambia punto di osservazione e si leggono come frammenti anche scritture poetiche più ampie e complesse, definibili comunque quasi come chiose, glosse o scolî di una vita, allora si vedrà che tali lacerti si comporranno, come tessere di mosaico, a formare un unicum quasi poematico che configura una vicissitudine e un’esperienza artistica compresa tra i termini ineluttabili della nascita e della morte. Si potrebbe perciò dire che nella vita, per certi versi, tutto è frammento; ma, allo stesso modo, si potrebbe affermare l’esatto contrario.
    Resta come dato finale che per fare poesia occorrono i poeti, non le chiacchiere programmatiche.
    Pasquale Balestriere

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  6. Davvero stimolante questo post di Rossella Cerniglia sul postmodernismo, prendendo spunto dalla querelle tra Linguaglossa e Pardini sulla crisi della poesia contemporanea. Condivido molte affermazioni della scrittrice, tese a mostrare, tra l'altro, che ogni vero cambiamento, ogni mutamento che non sia fatuo ed effimero, debba avvenire sullo sfondo di una immutabile legge universale. Come dire che il Relativo si muove sullo sfondo dell'Assoluto, quasi un capovolgimento dell'Assoluto stesso che in esso si proietta nel desiderio di percorrere nuove avventure. Ne segue che le vere innovazioni non sono fumo di paglia, in quanto portano con sé l'esigenza dell'Essere di entrare in azione. E se dunque il Tempo è il Tempo dell'Essere, allora tutte le elucubrazioni sul suo Nascondimento si sciolgono come neve al sole. A meno che con il termine si voglia intendere l'occultamento necessario alla Rivelazione dello stesso Essere (non sto parlando di una rivelazione straordinaria ed unica, bensì ordinaria e costante nella storia universale). Ora, che l'immutabile possa rivelarsi proprio nel mutabile, sua apparente contraddizione, è concetto comprensibile esclusivamente nell'ambito di quella filosofia che prende il nome di Armonia dei Contrari. Ed è programma indigesto per ogni razionalismo che fa della "non-contraddizione" il suo indiscutibile credo. Dove il razionalismo metafisico dei tempi andati soffocava infatti il frammento, la parte, in nome della Verità universale, il razionalismo nichilistico dei nostri tempi ha ribaltato l'assunto, negando l'Assoluto in nome del Relativo. Ci troviamo sempre e comunque nell'orizzonte di una odiosa prevaricazione. E allora, anziché pensare a Dio, a quell'intelligenza sovrana del cosmo che nominiamo sempre invano, faremmo bene a indirizzare le nostre attenzioni verso quel Dio interiore che vive dentro ciascuno di noi. Sto parlando dell'essere alare (angelo custode?) che si agita in noi e che vorrebbe dialogare con noi, urtando il nostro razionalismo e la nostra superbia, tesi da sempre a chiudere ogni canale. E non sembri fuori luogo l'argomentazione in un dibattito sulla poesia deputata all'ascolto dell'Essere, di quel Dio interiore e di quella Musa ben noti ad ogni poeta, come ad ogni spirito creativo.
    Franco Campegiani

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  7. Due letture e due commenti - quello di Pasquale e quello di Franco - che si integrano a vicenda.
    Ritengo - e non per piaggeria (non ne hanno bisogno) - che aggiungere altro alle loro argomentazioni apparirebbe davvero superfluo.
    Un elogio, però, è doveroso nei confronti della Cerniglia in quanto ha saputo trattare l'annoso problema della contemporaneità, che ha diviso i punti di vista, riuscendo a restare in equilibrio, che non vuole dire - si badi - essere qualunquisti; tutt'altro, oggi i qualunquisti sono proprio coloro che prendono posizione (basta ascoltare un telegiornale o una tribuna politica per rendersene conto).
    Riassumo il plauso riportando un passo che ritengo molto significativo ai fini di quanto sopra sostenevo in proposito dell'equilibrio: "Il pensiero di Heidegger, a riguardo, mi è sempre apparso però controverso e forse volutamente o inesorabilmente ambiguo: da un lato, infatti, sembrerebbe additare la Dikthung come matrice che accomuna, in una sorta di immanenza, sia il Pensiero che la Poesia, dall'altro, vivendo essi nella luce di essa senza mai identificarsi con essa (che rimane inattingibile e nascosta), sembrerebbero additare la trascendenza stessa della Dikthung che nel suo mostrarsi attraverso il linguaggio, come espressione e del Pensiero e del Canto, allude a se stessa senza mai dichiararsi, rimanendo “dietro le quinte” per così dire, essenza stessa di un linguaggio - quello umano, naturalmente- che nel momento in cui dice, determina e circoscrive togliendo già, dall'oggetto indicato e circoscritto, tutto l'altro che rimane al di là della sua determinazione[...]"
    L'ambiguità del pensiero heideggeriano: voluta o inesorabile?
    Forse entrambe le cose.

    Sandro Angelucci

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  8. Un lungo articolato mini-saggio che si immette nella quaestio a lungo dibattuta sul blog -poesia-non poesia-, una summa, una iper-riflessione che potrebbe essere sviluppata in un impegnativo saggio filosofico, senza pretesa di fare adepti : il frammento…il linguaggio le grandi sintesi, il caos della frammentazione…il linguaggio del non-senso , le avanguardie…l’Oltre., il Nascondimento, il Disvelamento, l’immanenza, la trascendenza, la teleologia dell’Universo….Lyotard , Heidegger e Vattimo…. , cui risponde indirettamente G. Linguaglossa-, il quale ci rimanda a una sua riflessione su L’ombra delle parole e col commento di “LETTURA DI TESTI DI AUTORI CONTEMPORANEI" riproponendo una diversa summa: rifiuto dei canoni e mini canoni posticci fatti a tavolino della poesia contemporanea italiana, la poesia italiana che dorme il suo lunghissimo sonno letargico iniziato negli anni settanta e dal quale sembra non essersi mai scosso , il tentativo di «nuovo» che rifluisce tranquillamente nell’«antico» , considerato come la vera damnatio memoriae della poesia italiana del novecento, trasformismi e i minimalismi…. ( Cioran, Adorno, Derida , Heidegger …)Altro saggio filosofico. Prese di posizioni interessanti che secondo me vanno studiate, approfondite serenamente, anche nella propria pratica letteraria, alla luce delle proprie convinzioni (pseudo) filosofiche..., tenendo per fermo quello che dice F. Campegiani su l’Armonia dei Contrari, ma nella convinzione che la poesia, la parola poetica, se c’è, quando c’è, parla comunque con voce propria senza esclusioni, si definisce nel suo divenire, ed ha una voce indomabile ed incoercibile sempre miracolosamente mutante.

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    1. RICEVO E PUBBLICO

      Non vorrei “direttamente” intervenire nella ormai “Vexata quaestio” su manifesti e assunti programmatici relativi al modo di fare poesia che viene qui contestato. Mi astengo da ogni discorso “ad personam” per non urtare la sensibilità di chicchessia.
      Ringrazio, invece, ognuno dei commentatori di queste mie “Riflessioni” -che risalgono ormai a qualche anno fa, ma che, in qualche modo, credo possano essere adattate allo scopo di questo dibattito – ringrazio soprattutto quelli che non ho ancora ringraziato e cioè: Eugenio Rebecchi, Pasquale Balestriere ( nomen omen: colui che lancia frecce! Wow!), Franco Campegiani, Sandro Angelucci e Maria Grazia Ferraris, per aver letto e aver messo a confronto taluni aspetti di queste riflessioni con le proprie idee. Vi ho trovato considerazioni pertinenti e condivisibili che ho molto apprezzato, e che meriterebbero di essere più compiutamente analizzate, tenendo conto anche della “visione d'insieme” che le regge e ne è il fondamento.

      PRIMA PARTE

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    2. SECONDA PARTE

      Secondo quanto sottolineava Pasquale Balestriere, e cioè che non vi sono grandi poeti nel nostro tempo, è da dire – anche se il nostro studioso lo sa benissimo - che la nostra epoca segna un momento di crisi, una divisione, una spaccatura, un disorientamento, e quindi confusione e sbandamento, forse più marcati dei tanti che si sono susseguiti in epoche passate, e nella letteratura che in esse è stata prodotta.
      I posteri, forse, riusciranno a fare chiarezza su ciò che vale e ciò che non, come è avvenuto per le cosiddette “Avanguardie” novecentesche, assegnando ad esse un valore per lo più storico e non letterario.

      Rossella Cerniglia

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  9. TERZA PARTE

    E questi “principi programmatici” che circolano nell'insensatezza del mondo contemporaneo, a mio modesto avviso, hanno in se stessi, la propria sconfitta per il fatto di basarsi fondamentalmente sugli stessi presupposti, ormai frusti, di quelle avanguardie.
    In via di principio, trovo addirittura, non solamente “non apprezzabile, ma “sconcio” questo star dietro a principi che si fondano su esperienze -spesso nobili - di altri poeti, di poeti stranieri come per lo più accade. Ma essi, per aver tentato una certa strada, avevano delle forti ragioni che nascevano dalla loro singolare visione della realtà, ed erano state elaborate secondo l'individualità del proprio essere e del proprio pensiero. Siamo “singolarità”, esseri assolutamente unici, e solo all'interno della nostra singolarità possiamo elaborare i nostri “Statuti”.

    Rossella Cerniglia

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  10. QUARTA PARTE

    Che altri possano appropriarsene, per me, non ha alcun senso: è solo insulsa imitazione.
    Dacché Thomas Eliot adottò le contaminazione e le citazioni da altri autori e testi, tutti giù a scimmiottarlo, tutti a inserire citazioni, magari nella lingua originaria dello scrittore “citato”, ma sicuramente a sproposito, senza tener conto, cioè, del perché, e del senso implicito a questa scelta che derivava dalla visione complessiva che Eliot aveva della realtà del suo tempo. Non so se riesco ad essere chiara: oltre ai miei limiti, il poco spazio e il poco tempo a disposizione, - e nel mio caso, la tanta stanchezza! - rendono difficile esserlo.
    Siamo “singolarità” dicevo, e non perché il nostro essere sia “monadico” e “senza finestre sul mondo”, ma, perché - come ci faceva notare Wittgenstein nel suo concetto di “Solipsismo linguistico”– certi contenuti che afferiscono alla nostra profonda interiorità e alla sensorialità -che è solo nostra- non sono pienamente comunicabili attraverso il linguaggio, e rimangono solo nostri ( per fare un esempio: se cerco di spiegare a parole il mio mal di testa, non riesco a far provare all'altro il dolore che provo ).

    ROSSELLA CERNIGLIA

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  11. Q

    QUINTA PARTE

    Questo per dire che ogni elemento di noi, della nostra realtà si giustifica solo ed esclusivamente facendo riferimento al tutto della nostra interiorità. Ogni nostra frase o verso o parola prendono il loro vero senso, il loro senso più proprio, nella visione in noi del Tutto. Che senso ha, dunque, l'imitazione, il seguire tracce che sono di altri, e che altri hanno costruito secondo l'universo della propria interiorità?
    Per chiarire meglio il mio punto di vista, anche in relazione al gentile, puntuale intervento di Franco Campeggiani, dirò molto brevemente della mia visione della realtà.
    Intanto quando adopero la parola “Dio” che -certamente con ragione- il critico dice “sempre nominato invano”, intendo dire quell'”Inesprimibile” che racchiude, o meglio è, Tutte le cose. Un'analoga espressione usa Anassimandro chiamando tale Principio Apeiron, non definibile e non misurabile, ovviamente attraverso la parola.
    Ma questo “Inesprimibile”, che per Heidegger è l'Essere stesso, che si annuncia e si ritrae nel pensiero e nel linguaggio dell'uomo, può essere da noi visto nella sua “Trascendenza” o assoluta distanza dalla nostra comprensione - quando non siamo “in sintonia” con l'Ordine da lui creato - o come “Immanenza” nella nostra stessa realtà. La sua Immanenza la vedo in noi nel destino assegnatoci di creare nuova realtà prolungando l'opera divina; un destino e un compito che ci rende creatori al pari di Dio - anche si si tratta di una “creazione seconda” derivante cioè da quell'Essere che è sorgente del Tutto. Quel che intendo dire è che la divinità o almeno la possibilità di essere “divini” è in noi, ed è implicita al nostro stesso spirito, alla nostra Anima.
    Ciò che invece mi ha colpito nel commento di Sandro Angelucci è quanto egli riporta alla fine, ripercorrendo il mio pensiero che interpreta Heidegger.
    Di fronte ad esso, io stessa – ma credo anche lo stesso Heidegger, che aveva, nella “prima fase” della sua speculazione, negato in valore della metafisica e soprattutto il tradizionale approccio ad essa- rimango perplessa: ha davvero messo da parte la metafisica Heidegger, o essa torna sempre nel pensiero dell'uomo a fare capolino, accennando a quel qualcosa di “Imprendibile”, di non conoscibile che chiamiamo “Mistero” e additando un “Oltre”che costituisce la “soglia” di un mondo nel quale siamo ingabbiati?
    La “Dichtung”, l'archelingua heideggeriana, apre, infatti, alla possibilità dell'Essere di divenire e di dirsi, di manifestarsi attraverso di noi nel nostro stesso linguaggio. E questa “Apertura” dell'Essere a noi, questo connubio con la divinità, viene a costituire, per il filosofo tedesco, l'“Evento” per eccellenza ( Geschehnis ), attraverso cui l'Essere si dona a noi e parla in noi, divenendo “Immanente” nella nostra realtà.
    A proposito poi della Poesia, ecco le parole dello stesso filosofo: “Nella dimora dell'essere abita l'uomo, e i pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è portare a compimento la manifestatività dell'essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono.” (Lettera sull'umanismo)
    E con questo mi sento di rispondere anche al gentile e pertinente commento di Maria Grazia Ferraris che cita direttamente Linguaglossa, la cui poetica mi pare assolutamente distante da quest'ultimo illuminato pensiero del filosofo tedesco.

    Rossella Cerniglia

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  12. RICEVO E PUBBLICO

    L' "unità" impossibile di Rossella Cerniglia
    Rossella Cerniglia nella sua onnicomprensiva ed esaustiva relazione sulla contemporaneità sfiora molteplici tematiche dal post-moderno alla funzione del linguaggio, dalla frammentazione artistico-sociale-scientifica alla progressiva separazione tra l'unità di "pensiero" e "canto" di Heidegger (il vero problema della creatività poetica del nostro tempo).
    In effetti oggi la creatività poetica è compressa sempre più dalla globalizzazione totale di azione e pensiero e rischia di annullarsi nel dettaglio solipsistico ovvero nel rifugio privato, senza ampliamenti di orizzontalità che travalichino il contesto codificato della creazione già delimitata a monte.
    La risposta che Cerniglia espone e cerca, tuttavia non può ritrovarsi nell'attuale dimensionalità, sia tecno, sia di mercato, se non rifiutando canoni e codici nella celebrazione della Libertà di espressione.
    Solo la Libertà propositiva, infatti può tentare un'interpretazione "autentica" di quel tormento interiore che l'Origine impone agli artisti e che si nasconde sempre mostrandosi in qualsiasi esplosione interiore. Anche il linguaggio del non-senso (così definito) non sfugge al tormento, con il cercare nuove spazialità forse più filosofiche che poetiche. La "forma unica" enunciata e condivisa nella relazione, non si compone peraltro con facilità ma risente della sensibile dicotomia causata dalla contemporaneità. Tale sofferenza di rivoluzione mancata o di mutamento difficile e auspicato non produce pura arte, ma cronaca (derivata o meno), che nulla condivide con la poesia.
    La stessa "immanenza/trascendenza" senza Libertà espressiva rimane confusa in una dialettica sterile, priva di veri contenuti alternativi che ne favorirebbero lo sviluppo di pensiero incorporato nel Canto. Tutto lo svolgimento di Cerniglia, incentrato sulla dogmaticità intoccabile (ab origine) del dirigismo poetico, rischia dunque il naufragio dell'abulìa tecno/consumistica, cioè del vuoto che fagocita ogni teoria, da Lyotard al colosso Heidegger, dal minimalismo di Vattimo al "nulla" delle "avanguardie".
    Il super problema rimane comunque l'Essere nelle sue interpretazioni filosofico-artistiche diversificate nella Storia.
    L'Essere è infatti il padre di tutte le rappresentazioni umane, ma l'Essere reclama la Libertà in altrettante forme e dimensioni prospettiche.
    Non la libertà unidirezionale che ci propone la Cerniglia, ma la libertà multiforme e polivalente che deve comprendere ogni possibilità di ampliamento sia linguistico sia artistico. L'Essere è tanto unico quanto molteplice comprensivo quindi del dettaglio, del frammentarismo, dell'Immanenza/Trascendenza, della ricerca scientifica e dello stesso "Dikthung" (di Heidegger, unità di pensiero e Canto) e come l'Oltre rimane inconoscibile per tutti noi, ma tutti noi lo ricerchiamo e indaghiamo da sempre.
    Quindi tutte le espressioni poetiche hanno diritto di presenza partecipativa al grande orizzonte dell'Essere-Oltre, al di là di ogni dogmatistica o dirigismo di corrente o di moda.
    La Poesia stessa è quell'Oltre che esiste ma non si consegue mai per la gioia creativa di tutti i poeti del mondo.

    Marco dei Ferrari

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  13. Grazie a Marco dei Ferrari per la lettura e per il commento, ma io non mi riconosco nelle sue parole. Innanzitutto non ho mai negato libertà di scelte in Poesia, ma ho solo detto che le scelte non dovrebbero, secondo il mio punto di vista, essere programmatiche, ma attuarsi nel "farsi stesso" della poesia, dovrebbero cioè nascere all'interno di essa per una necessità intima alla stessa poesia.

    Rossella Cerniglia

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