Gian Piero Stefanoni, collaboratore di Lèucade |
Remigio
Bertolino, Nìvole da prim/Nuvole di
primavera.
Interlinea
Edizioni, Novara 2019.
Una
poesia tutta incarnata e trasfigurata nella solitudine delle sue montagne, dei
suoi silenzi, l'uomo elemento di una parola che mentre lo racconta insieme lo incalza, accoglie e mette in dubbio nella prova di una
natura ora respingente ora inclusiva, questa di Remigio Bertolino. Autore di
lunga data, anche in prosa, in un passaggio dall'italiano all'arcaico dialetto
piemontese delle colline intorno a Mondovì, al limitare tra Piemonte e
Occitania, ci consegna nella scrittura trasfigurata dei suoi miti, delle sue
figure umili spesso nella fatica di una memoria che spesso non ritorna la
suggestione di una controstoria, o per certi versi di una storia vinta, viva solo
nell'evocazione delle sue perdite e dei suoi dolori cui solo la natura allora
in reciproca evocativa appartenenza può nella risonanza del riconoscimento
comunque accompagnare e far sua forse nella direzione di una consegnata
speranza. Così in quest'ultimo lavoro è possibile ritrovare tutta la malia e
l'incantamento di un dettato vivo laddove per l'uomo come detto è solitudine,
separazione, dubbio soprattutto nel paradigma di un'esistenza certo povera,
difficile nel sistema di una civiltà progressivamente al margine nell'opera di
separazione e cancellazione nei microcosmi del moderno. Eppure proprio nella
cancellazione, proprio nella separazione di uomini, tra loro e gli elementi,
tra loro e se stessi più forte risale, ricordando ad ognuno la medesima
appartenenza, il senso di una terra saldamente incarnata in tutta la sua
creaturalità d'origine, più forte il dialogo allora in un dirci in lei, ogni
uomo, ogni cosa nella tensione di una nascita e di una espansione continua a
fronte delle realtà dominanti. L'arma, avvertita in tutta la fragilità della
sua urgenza, è nel restare vivi in questo dialogo nell'umiltà di una consegna e
di condizione di limite (per questo appunto allora esemplare) negli strumenti
all'uomo dati, nella fatica della presenza certo ma di una lingua, anche,
accesa nei suoi spiriti, nelle recriminazioni e nelle passioni delle sue
figure, dei suoi uomini e delle sue donne di ritorno nel subbuglio reclamante
dei mondi. La quinta nell' umana stagione di resistenza, nell'inverno che va a
dominare le pagine, è quella di un paesaggio che tra luci e ombre delle sue
trasformazioni ha nelle nuvole il gregge di attraversamento, addensamento e
rivelazione degli spazi, metafore con noi così
di un rabbuiato, determinato, acceso passaggio all'interno di un cielo e
di una terra nella sacrale necessità di un mistero più grande. Ecco allora
sotto questo cielo spesso in un'abbassarsi cenere delle nubi a coprire sole e
speranza, sotto una luna evocata in una infanzia perenne di sogni, il dire di
uomini e terra per frammenti, di padri e figli fra lutti e perdite, fra
contrasti e aspirazioni, in quelle intimità che soprattutto, forse, possono
anche dirci, e dire, restando di amori e contrasti tutta la fuggevole presenza.
L'apprendimento della terra, nel risvolto doloroso e acceso delle sue
rivelazioni, ha allora nella figura del pastore la sua presenza principe, qui
magistralmente delegata all'esperienza vicino alla mistica "del pastorello
a contatto con i silenzi e la bellezza sublime della montagna" come da
Bertolino ricordato nelle note. L'infanzia così è anche quella dell'uomo, non
nell'idillio sia chiaro, ma in una conoscenza data per spinta, per custodia
nell'ascolto di una bellezza e di una parola data in ognuno in tutto ciò che
rivelandolo assume in lui la partecipata confidenza di una creaturalità cui è
chiamato, rimesso tra incisioni di carne e di pietra, nell'ascolto nell'anima
dei cerchi dal silenzio, dal bisbigliare di segreti dalle ombre, dei passi
nella domanda di un orizzonte, di quale orizzonte è dato aldilà dei confini. Un
orizzonte che i versi come in ogni vera, autentica poesia, in realtà evocano soltanto
restando piuttosto concretamente appesa nel corpo di relazioni e dinamiche non
concluse e che mai lo saranno nell'intreccio umano delle storie che una natura
tutta negli elementi del suo ghiacciare e del suo fiorire sa comprendere,
specchiare e trasfigurare dalla sua carne . Storie di padri e figli, di lontane
e nelle ferite ancora presenti guerre, di mitologie e di cantari (Bertran de
Born su tutti) nell'incalzare di un pensiero sì riflesso ma che va perdendo i
suoi modelli. Tutto allora nell'interrogazione pare fermo a una "miseria
antica" (per dirla con Giovanni Tesio), "cristallizzato in una sorta
di contemplazione affettiva", in
una inscioglibile destino segnato "da rigide leggi ancestrali"
(Ombretta Ciurnelli) nel tempo fermo di una brina del cuore e dell'anima che
quegli stessi paesaggi, quelle stesse nuvole non possono nella loro parola che
confermare. La forza di questa poesia, nel segno, o per meglio dire nella fede
in una lingua aperta perché viva alla trasparenza di una scrittura che viene
come dall'acqua delle montagne, dei sentieri, dei dirupi che questi paesaggi
attraversa nella rima scoperta di una sorgente che sa specchiare in sé rivoli e
spine, aridità e cadenzare di piante ed uomini, viene a ricordarci allora del
patire, e del restare anche dell'uomo stesso quella confidente storia che proprio
nello smarrimento e nella mortalità detta il suo assenso entro quella terra che
lo pronuncia lo prova e lo nutre. In questi tempi di lingue e di mondi nella
sclerosi di un ascolto che non ha riferimenti, in una parola che ha smarrito se
stessa smarrendo la centralità della terra non è poco, anzi è tutto confermando
dal margine (se poi di margine è giusto parlare) il cerchio irradiante della
sua genesi, del suo divenire nel contrappunto di una natura che tutto lega
richiamando a sé spiriti e tempi, catene d'elementi e uomini ad allungarsi da
misteriose lontananze, "da pozzi che sprofondano/ chissà dove"("da
poss ch'i calo/chissà landa"), da sciami di misteriosi segreti. Così se
l'andare è come di inverno un andare tra mondi di ombre nel bozzolo di letti
freddi, rosari a vegliare sui sogni, l'alba pur nel gelo sarà sempre nel
rovescio di rivoli di luce, da cui è possibile leggere, dal basso, del cielo il
suo vangelo di pace ("vangel ëd pass"). Per questo in conclusione il
canto di Bertolino nell'intensità lirica delle incarnazioni, nel fremito raccolto delle sue ingiunzioni,
degli uomini piegati resta un canto d'amore.
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