mercoledì 22 giugno 2011

Prefazione a "Echi di memoria" di Giorgina Busca Gernetti

Prefazione
a
Echi di memoria, Edizioni ETS, Pisa 2005. Pp. 32 
di
Giorgina Busca Gernetti


"Ma ora è autunno. Spente le promesse,
svanite le speranze come un sogno
restano solo gli echi di memoria."




Silloge varia quella di Busca Gernetti che alterna versi brevi a versi di più ampio respiro in una trama metrica che denota tecnica poetica e profondità di esperienze umane. Qui note interiori e versificazione si completano in una effusione musicale arrivante e suasiva. Dalla lettura di questa silloge, che fa del lirismo la sua arma vincente, sorge spontanea una riflessione sulla poesia e su quanto sia riduttivo circoscriverla a una semplice definizione. La poesia può essere cuore, ragione, immagine di gioie e tormenti che tornano vivi; riflesso di noi nei giochi del mondo. O forse solo il mondo con i suoi fatti, le sue contraddizioni, le sue anomalie, le sue accattivanti proposte. Può essere  inquietudine, spleen che comporta il fatto di esistere, la poesia; amore oblativo, fusione panica in naturalismi di piane e di marine, di terre aperte ai venti che ci annullano; o forse impegno e denuncia di un mondo ingiusto che ci rattrista. Può essere il tentativo di ognuno di noi di avvicinarsi il più possibile all’inarrivabile, può essere parola, questo mistero d’intrecci, lavorato, incrociato, cesellato e demandato a sortire suoni, effetti, geometrie:  mistero che non è più semplice parola, ma stilema, concretizzazione di noccioli a imprigionare immagini che sgomitano per aprirsi alla luce del sole, alle rive lontane. Ma poesia può essere anche e soprattutto memoria con tutti gli interrogativi che comporta  il dilemma della sua destinazione. E la memoria è vita, vita vera, che è rimasta, degna di esistere, filtrata dal tempo; poche e preziose sono le cose che si salvano considerando il potere dell’oblio: “E’ nel ricordo e nel tempo che gusto quelle lacrime” afferma Pirandello. Io penso che la poesia sia un po' tutto questo: memoria, suoni, paesaggi, voglia dell’oltre, del tutto, dell’immenso, di quella totalità da cui forse veniamo e di cui forse siamo impastati; vita, con la quale la poesia stessa è inscindibilmente legata, come afferma Keats nell’ode l’Autunno, ove esprime il desiderio di essere un “uomo” e di ritornare un giorno “nelle radici ..., da cui ci stacchiamo come frutti sfacentisi, non per perire, per verdeggiare di nuovo al sommo dei rami dell’albero della vita e respirare insieme con la natura”.
      E proprio questa silloge si nutre di echi di memoria: l’eco è voce che ritorna filtrata dai monti, dai passi, dai colli, come lo è il risveglio di un accadimento sedimentato da tempo nell’anima. Si riveste di un sentire che lo rende immagine, e col reale ha poco a che vedere, si ingrossa, si trasfigura; quello che non è stato detto non è più silenzio, ma silenzio rumoroso, fatto di spine che graffiano dentro, e che spesso la stessa magia della poesia non è sufficiente a ridire: è eco, suono che torna, a volte acuto, a volte vago, indeterminato, appannato, chiuso da ambiti stretti e vorticosi. E sono proprio questi ambiti a vestire le memorie che trasferitesi nelle parvenze si fanno corpo: grigia selva, conchiglie, stelle marine, siepe, ruscello, lucciole, il grande fiume, gli aerei campanili; rumori, colori e profumi che richiamano stati d’animo, rosi dal tempo, a farsi nuova vita, ad animare ambienti, figure umane di sapori recuperati, riciclati, per tempo silenziati: “Quei giorni luminosi dell’autunno / nella mia prima infanzia / erano sgombri di nubi nell’anima, / protesa a scegliere le foglie gialle / nel variopinto e stridulo tappeto / sul lungo viale delle antiche mura” “Restano solo gli echi di memoria / a sorreggere l’anima / nel lento e melanconico cammino / verso la selva grigia.” “E le piccole mani racchiudevano, / lievemente stringendola, / una vivace luce intermittente: / una magica lampada.” Momenti di grande intensità lirica, dove l’ispirazione, la “cascata” dei ripetuti endecasillabi alternati a settenari, il memoriale tanto caro alla poetessa e il senso di fragilità dell’esistenza si compenetrano  in una calda simbiosi fra forma e contenuto.
      L’opera è divisa in due sezioni: nella prima, Echi di memoria, la nostalgia per un tempo passato si muta in sentimento di tristezza, e i periodi dell’esistenza chiusi in uno scrigno per tanto tempo si fanno tesori: “quando i giorni di luce non chiedevano / sostegni per resistere o nascondere / l’amarezza dell’esistenza grigia / prima della sconfitta.” “Ed è il ricordo di una veste chiara / con le violette appuntate alla vita / come si usava allora, in primavera.”
      Il ritorno nei luoghi dell’infanzia stringe l’autrice in una acerba morsa di dolente rimpianto. Ora quelle tante lucciole che nella notte scura lampeggiavano come ombre di sogni, sono svanite nell’oscura tristezza della vita e l’acqua stessa del ruscello, una volta chiara e zampillante, è diventata viscida e torbida. Immagini forti che, metabolizzate da un sentire estremamente fertile di motivazioni umane, fuoriescono concretizzandosi in configurazioni naturali, oggettivazioni metaforiche di grande efficacia visiva. Tutto si fa patologico, concreto in questa simbiosi fra interiorità e natura. E le manifestazioni esterne sono a volte nirvana edenico, fusione panica, riposante, quieto addormentamento di un’anima che cerca avidamente quella felicità rievocata da una notte illuminata da sciami di stelle, da lucciole nei prati, dal sussurrare dei frassini, o dalla siepe dell’infanzia. Ma l’autrice cerca invano quella siepe: “Si sono spente le lucciole, / lievi creature della notte, spenti / i miei sogni infantili. / ... / Cerco invano la siepe dell’infanzia / - rammento ancora i graffi / sul braccio e qualche strappo nella veste -. / Il biancospino è morto.” Una tristezza diffusa e sottile, giusto nutrimento per il dipanarsi del tessuto lirico, permea di sé i versi della silloge; una tristezza struggente che spesso si acuisce nel duro raffronto tra la luce dei giorni passati e la notte del presente, ma che mai scade comunque in eccessivo sentimentalismo: “Si dileguano i sogni e le memorie / all’apparir del vero: nel presente / la mia campagna è brulla e desolata.” (Bene intonato il riferimento leopardiano a una realtà che tradisce le attese). 
      Nella seconda sezione Colloquio con la madre l’autrice affronta un tema di per sé rischioso se esteso, ma che in questo contesto, attraverso una vera esegesi introspettiva, si fa poesia oggettiva e di alto spessore umano. Sì, oggettiva per una concreta capacità di coinvolgimento nella rappresentazione di tante sfaccettature del rapporto complesso tra figlia e madre: “Ora sei nella luce. / ... / Forse non giunge a te il dolce profumo / dei fiori che il sepolcro tuo decorano, / ma tu, madre, ora senti / con rinnovato spirito, tu vedi / con occhi non più umani / il vero che la nebbia sulla terra / falsifica e deforma.” Ma l’autrice sembra provare un profondo rammarico per non essere riuscita a instaurare un rapporto giusto, e schietto: “Ora comprendi, madre, / il dramma della nostra incomprensione. / ... / Petali secchi, parole non dette, / macigni insopportabili nell’anima, / dolenti cicatrici.” I silenzi di un tempo, le parole non dette, pesano come grossi macigni. 
      Quanto si bramerebbe poter toccare, abbracciare figure che una volta ci sembravano eterne e che invece sono scomparse nel nulla, come per incanto, a simboleggiare la precarietà dell’esistenza! “E tu ci amavi troppo, / o forse non sapevi temperare / il tuo dolore per amarci meglio.” “Quando fu che per strada ci perdemmo?”
      Quando ci accorgiamo della fugacità della vita, e percepiamo l’inconsistenza del tempo, forse è troppo tardi per dare un senso al dilemma dell’essere e dell’esistere, a ricucire le maglie di una rete ormai irreparabile per un’ora che volge al tramonto; resta il rimpianto per non avere detto, per non avere fatto, per non avere osato: “Ora è tardi. Non c’è più tempo, madre, / di camminare l’una incontro all’altra / per dire quelle semplici parole / che rimasero mute tra le labbra / serrate come pietra.” “Sei fredda e muta” scrive la poetessa, ma il luogo di morte è anche fonte di vita: “rinata nel sereno dialogare / tra una madre e una figlia / che dispone le sue vivide rose / dinanzi al freddo marmo.” 
      Otto poesie, che, attraverso una simbiotica fusione fra interiorità e versificazione, riescono a suscitare nel lettore forti emozioni. E forse proprio nei versi che chiudono l’opera si ritrova la complessità delle tematiche e delle tecniche espressive scaturite dalla spontaneità dell’autrice: memoriale, panismo simbolico, naturalismo metaforico, alternanza di misure e di ritmi ad accompagnare le modulazioni interiori: “e ancora parlerò dei giorni amari / per cancellarli dal nostro passato,  / finché rimangano soltanto / i petali leggeri delle rose.”
Lo stile, dal tessuto classicheggiante, disteso su uno spartito metrico in prevalenza endecasillabo e settenario, incalza e persuade per nitidezza e linearità; d’aiuto all’ordito poetico sono gli Enjambements che, sapientemente distribuiti, s’innestano in una forma lessicalmente puntuale e musicalmente piacevole.
 

                                                                               Nazario Pardini
Arena Metato 20/07/2005            



2 commenti:

  1. Grazie infinite, prof. Nazario Pardini, per aver pubblicato in questo artistico sito la sua bellissima prefazione alla mia silloge "La memoria e la parola", vincitrice del concorso "Il Portone" 2005 e perciò pubblicata dalla ETS-Portone Letteraria.
    "Echi di memoria" è, infatti, il titolo della prima sezione tramata di ricordi, come la poesia eponima, mentre "Colloquio con la madre" è il titolo della seconda sezione.
    Il suo scritto dimostra una profonda empatia e la capacità, che non tutti hanno, di cogliere anche gli aspetti metrico-musicali del dettato nelle loro minime sfumature.
    Grazie ora come allora.
    Giorgina Busca Gernetti

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  2. Cara Busca Gernetti,
    la ringrazio per gli apprezzamenti, ma sappia se c'è qualcosa di bello sono le sue poesie.
    Scriva sul post "Salotto culturale" del mio blog, o pubblichi delle sue poesie, le commenterò volentieri.
    Nazario Pardini

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