sabato 4 maggio 2013

PAOLO BASSANI: LE FOGLIE DEI CASTAGNI







RICORDO DI UN AMICO

Testimonianza di Paolo Bassani




Sabato 6 luglio 2013 si terrà il 34° incontro dei "Ragazzi del '55", un appuntamento annuale, curato da Dario Bello, con i ragazzi che, oltre mezzo secolo fa, frequentavano l'oratorio di San Bernardo alla Chiappa, che aveva come assistente ecclesiastico, don Luciano Ratti, divenuto poi monsignore e vicario generale della diocesi della Spezia – Sarzana – Bugnato. Dal 1979, data del primo incontro, i "ragazzi" d'allora si ritrovano ogni anno per trascorrere una giornata insieme all'insegna dei valori dell'amicizia che ha contraddistinto la loro giovinezza e che vive oltre le stagioni e il tempo.
La manifestazione si inizia alle ore 11,00 nella chiesa di San Bernardo, con la Messa in ricordo di  don Luciano e degli  amici scomparsi.

Anch’io, come ogni  “Ragazzo del ‘55”, custodisco un  gradito ricordo del tempo vissuto negli anni della giovinezza, all’insegna di quei valori cresciuti nella comunità dell’oratorio grazie all’opera di don Luciano. Per questo, interpretando anche un comune desiderio, ho pensato di pubblicare su “Alla volta di Leucade” la mia testimonianza. Innumerevoli sono i momenti che hanno lasciato traccia nella memoria. Vorrei ricordarne tre che si sono succeduti nel tempo e che, in qualche modo, più d’altri segnano il percorso.  
Il primo ha una data ben precisa: 2 gennaio 1978. E’ la lettera che don Luciano mi scrisse quando uscì il mio primo libro di poesie. Ne voglio riportare un breve passo: “Caro Paolo, ho letto “Immagini e fremiti”; mi complimento vivamente e auguro di tutto cuore il più grande successo.
Rinnovo il ringraziamento di avermi fatto dono delle tue poesie e Ti confesso di aver provato un pizzico di orgoglio, domenica 18 dicembre u.s. durante la premiazione in Gaggiola, averti vicino e poter parlare del libro.”  Confesso che quelle parole mi hanno gratificato più della vittoria di un concorso letterario (invero, allora la mia poesia non aveva ancora ricevuto alcun premio).  
Anche il secondo momento ha una data ben precisa: domenica 28 settembre 1997. E’ l’articolo scritto da don Luciano su “Spezia sette”, la pagina di Avvenire, in occasione del riconoscimento ricevuto dal mio libro “Lungo la via Francigena”. Anche in questo caso desidero riportare un breve passo del suo scritto: “…La raccolta si apre con “Il tempio della vita”, poesia dedicata alla madre Esterina Cosci a quarant’anni dalla morte: le esequie si tennero il 13 settembre 1957, lo stesso giorno in cui il figlio, 40 anni dopo, avrebbe colto questo importante alloro poetico. Semplice coincidenza? Chi crede sa che nulla capita a caso: per coloro il cui orizzonte non si limita all’ “hic et nunc”, vita e morte non sono così separate e lontane.”  
Il terzo momento si colloca qualche giorno prima della dipartita di don Luciano. Ero andato a trovarlo presso l’”Alma Mater” ove era ricoverato, assistito amorevolmente dal cugino Piero.
Che cosa potevo mai dire a don Luciano, lucido e cosciente del suo stato? La poesia, ancora una volta, mi venne in aiuto. “In questi giorni –dissi- ho messo ordine nel mio archivio. Ho ritrovato le poesie apparse negli anni su “eks” (la pubblicazione a cura degli ex ragazzi della Chiappa 1955). Voglio riunirle in un libro. Caro don Luciano, grazie per tutto quello che è stato fatto per la mia poesia. Grazie. Ora, però, vorrei ancora qualcosa: la benedizione. Nel volto di don Luciano, segnato dalla sofferenza, comparve un lieve sorriso, come se le nubi della tempesta si fossero aperte lasciando trasparire un frammento di sereno. Mi inginocchiai davanti al suo letto e chinai il capo. La voce di don Luciano riprese vigore e innalzò la sua benedizione. Custodisco nella mente e nel cuore quel momento, come il ricordo di una luce apparsa nel buio della notte.



PRIMAVERA ALLA CHIAPPA

Giovane prete allora
tu venisti tra noi
ragazzi del cinquantacinque.
Il nostro entusiasmo
fu tuo e la speranza
già nell'aria s'avvertiva
- primavera di mare -
in te, in noi,
stagione ricca di promesse.
Già nel primo albore
un nuovo giorno s'annunciava:
anche noi sentivamo crescere,
ardere nel cuore il desiderio
del grande Papa del Concilio,
là, nel vecchio sobborgo della Chiappa,
quasi cinquant'anni fa.
Passa la vita,
vanno le stagioni
ma un giorno tornerà.
Sarà bello ancora ritrovarsi
tutti insieme come allora:
tu, giovane prete,
e noi, ragazzi del cinquantacinque.

    Paolo Bassani









LE FOGLIE DEI CASTAGNI


Pagina della memoria

di Paolo Bassani




Castagni Grossi: questo il nome di una località sperduta tra i monti di Caprigliola; una zona immersa nei boschi sul versante sinistro della Valle dei Mulini, di fronte al monte Grosso. Qui la nostra famiglia, unitamente ad altre due di parenti sfollati dalla Spezia, trovò generosa ospitalità presso la cascina dello zio Ermanno. Qui ho vissuto i primi anni della mia vita e, di allora, nonostante la mia giovanissima età, custodisco ancor oggi stampate per sempre nella memoria immagini freschissime. La cascina sorgeva a ridosso del monte, al limitare di un fitto bosco di castagni che danno appunto nome alla località. Tutto intorno piane coltivate, olivi e vigne in pergole e filari. Il complesso rurale si componeva di un vecchio casolare che ospitava l’abitazione e le cantine con accanto una grande loggia ombreggiata da un fitto pergolato. Più distante il fienile, le stalle, il seccatoio con innanzi una piana dove era il pagliaio. Qui ho vissuto tutto il periodo della guerra; qui si è instaurato in me un profondo legame affettivo con la natura e con la mia gente contadina. Ricordare quei tempi e il modo di vita di allora mi pare utile soprattutto per i giovani che ignorano quasi completamente le vicende d’allora. Ai giovani rivolgo dunque questi frammenti di ricordi; e, tuttavia, anche ai miei coetanei o più anziani che forse troveranno in queste parole qualcosa della loro esistenza.
Voglio innanzitutto ricordare quel caro vecchio casolare che ci ospitò, oggi mezzo diroccato e scomparso nella macchia, come sono purtroppo ormai scomparsi molti dei protagonisti della mia storia. La casa aveva davanti un’aia di mattoni, una meridiana solare al muro vicino al grande uscio verde che immetteva direttamente in cucina; il tetto a coppi e poche minute finestre senza imposte. La porta di ingresso aveva il passagatto: il pertugio che appunto consentiva al gatto di entrare ed uscire liberamente dalla casa. La presenza del gatto era familiare nella realtà contadina. A Caprigliola esiste tuttora un casolare che si chiama “Cà dl gato”. Anche da noi il gatto si trovava spesso seduto sulla soglia e, quando nell’inverno si chiudeva la porta, era accovacciato nell’angolo vicino al focolare, mentre noi bambini seduti sulla grande cassapanca stuzzicavamo il fuoco sognando alle storie degli anziani.
Il fuoco. Il fuoco era sempre acceso come nel tempio di Vesta; forse perché la legna abbondava – a dispetto dei fiammiferi (zolfanelli) che erano abbastanza rari; o piuttosto perché doveva servire alla comunità di quattro famiglie che avevano la cucina in comune abitazione. Il grosso nero gorgogliante paiolo era un po’ il simbolo di questa costante attività e su questo paiolo noi bambini avevamo una sorta di diritto alla raschiatura, quando era svuotato dalla polenta. Mi ricordo che dividevamo le pareti in quattro parti e ognuno prendeva possesso del proprio spazio raschiando con estrema diligenza la polenta rimasta attaccata. La polenta: piatto forte della cucina contadina. Dorata e fumante, la rivedo sulla mastra mentre lo zio con il filo (refo) la tagliava. Com’era buona condita con l’olio d’oliva e con una spolverata di formaggio! A volte, in alternativa, si variava con la polenta dolce (farina di castagne e latte), con la pattona (una specie di castagnaccio povero, senza pinoli e uva secca) cotta su foglie di castagno. Granturco e castagne erano in quel tempo la base della nostra alimentazione e molteplice l’utilizzo: così le pannocchie di granturco erano arrostite sulla brace, così le castagne bollite con l’allora (i baleti) o arrostite nella padella coi fori (le mondine). In momenti eccezionali c’era anche il pane nero, ma per poco: la cassa rimaneva ben presto vuota. E allora mi ricordo che scandivamo il ritornello. “Cucù, cucù? N’ tla cassa n’ ghe ne pù”. Un altro piatto comune erano i panigazzi, che poi sarebbero diventati italianizzandosi “panigacci” o testaroli. Spesso i testi, uno sull’altro, crescevano a dismisura assumendo la forma di una torre in miniatura, a volte come quella di Pisa “che pende, che pende e mai viene giù”: così diceva un motivo cantato in quegli anni. Ma un giorno la pila dei testi si rovesciò e uno volle lasciarmi su un piede il suo ricordo.
            Per noi bambini poi c’era quasi sempre il latte quotidiano, grazie alla generosità della mucca che pareva anch’essa molto sensibile ai problemi dell’emergenza alimentare. Ma la mucca era anche utilizzata per trascinare la treggia (la bena): quella sorta di slitta con vimini intrecciati su due assi di legno che serviva per il trasporto del fieno e, a volte, anche di noi bambini.
            Nella fattoria c’erano però anche altri animali: alcune pecore, il maiale e numerose galline, che durante il giorno ne andavano in giro per i campi e a sera puntualmente rientravano al pollaio. C’era anche Chiappino, un grosso cane che faceva buona guardia; un cane senza nobiltà di razza, ma eccezionale, legatissimo a tutti noi. Un giorno tornò a casa con una formaggetta intera ancora avvolta nella carta e intatta ce la depose ai piedi. Chissà dove l’aveva trovata.
Rapide sequenze scorrono nella memoria riportando profumi e sensazioni: la fragranza del pane appena sfornato, l’aroma della crepitante fiamma d’olivo, la fioca luce del lume ad olio appeso alla trave e le ombre lunghe proiettate sui muri; il mortaio di marmo per pestare il sale, le teglie appese alla parete, il secchio con l’acqua e la mestola di rame. Ma anche gravi sequenze hanno impressionato la giovane lastra della memoria: i tedeschi che perquisiscono la casa, le armi puntate, le colonne che salgono il sentiero del monte portandosi via uomini rastrellati in un sordo angoscioso rumore di passi. Fredde sequenze, taglienti come il vento d’inverno che scende dal monte Grosso, ululando nella notte tra i pini della costa e tormentando gli olivi.


              AI CASTAGNI


A voi ritorno, amici miei castagni,

in questo afoso giorno dell'estate.

La nostalgia d'un tempo mi sospinge

alla magica terra dell'infanzia.


Allora voi placaste la mia fame.


S'aprivano le ricce come scrigni:

generose e lucenti le castagne

furono il nostro pane quotidiano.


Non ho più fame, ma solo sete adesso.

Con le foglie preparerò il bicchiere,

ché l'acqua pura dell'antica fonte

possa spegnermi in cuore quest'arsura.


Ho tanta sete d'alba e di rugiada.

Voi solo ormai serbate di quegli anni

liete stagioni e giorni spensierati,

dolcezza di profumi e di memorie.


Datemi ancora un poco di quel tempo!

E quando stanco poserò il mio passo,

non cercherò ombra cupa di cipressi

 ma il vostro fresco, tenero di verde.

                                                   

                                          Paolo Bassani

                                                       

1 commento:

  1. Una poesia molto delicata che parla della scienza della natura, dell'opera dei castagni e bei ricordi dell'infanzia.
    Ciao

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