martedì 11 febbraio 2014

FRANCO CAMPEGIANI SU "L'OCEANO INGORDO DEI PENSIERI", DI F. PAOLO TANZJ



"L'oceano ingordo dei pensieri", di Francesco Paolo Tanzj
(Libreria Rinascita - Roma - 9 febbraio 2014)



La voce di Francesco Paolo Tanzj è particolarmente squillante nel coro della poesia italiana di questi tempi. Possiede un timbro personalissimo, di natura visionaria ed esplosiva, con un verso libero, ipermetrico, galoppante, in linea con lo spirito ribelle da cui è animata. Per certi aspetti le ascendenze potrebbero sembrare campaniane (mi riferisco alla rêverie, alla visione fantasmagorica che la contraddistingue), ma occorre avvertire che qui gli orizzonti non sono propriamente orfici, intendendo con l'aggettivo una poetica squisitamente contemplativa e onirica. Questo canto fa piuttosto pensare al vitalismo dirompente delle avanguardie storiche (futurismo in prima fila), depurato tuttavia di ogni elogio o esaltazione del mondo tecnologico; reo, secondo l'autore (ma siamo in molti a pensarlo), di avere esautorato il dominio della natura e della vita.
Il dinamismo da cui questa poesia è animata, allora, non fa che evocare la diacronia del creato, l'élan vital, il flusso incessante dell'energia universale. Un dinamismo cosmico che non fa riferimento agli artifici tecnologici, bensì alla motilità misteriosa dell'Essere. Una poesia pertanto immersa nel mistero. Da qui l'aspetto semioracolare del verso, scritto di getto e senza eccessive preoccupazioni formali. O meglio, con l'unica preoccupazione formale di assecondare l'impulso creativo. Una naïveté, un candore che non esclude la raffinatezza culturale, ovviamente. Si deve sottolineare infatti che l'autore, noto anche come saggista e narratore, nonché come docente di materie umanistiche e di filosofia, è in possesso di una solida cultura, che tuttavia nelle sue pagine poetiche non pesa, è posta fra parentesi, dimenticata, preferendo egli affidarsi all'istinto creativo.
La versificazione è libera, non costruita secondo regole precostituite, ma questo non vuol dire che sia priva di regole, perché ha una regola propria, una sua musica, un timbro personalissimo e ben riconoscibile. La scrittura è immediata e senza ripensamenti, ma ciò non vuol dire che sia sciatta. Al contrario, risulta dotata di sapiente compostezza formale, pur essendo refrattaria ad ogni tecnicismo. Voglio dire che la tecnica c'è, ma non è quella canonica, bensì quella generata direttamente dall'illuminazione interna. Per Tanzj la tecnica non è un a priori, una gabbia, ma è quella che si fa nell'esecuzione stessa dell'opera, nell'azione creativa. In pratica è quella che la cosiddetta Musa impone nel momento in cui si appropria delle proprie corde vocali, quelle con cui il poeta canta o scrive. L'artista puro crea in stato di trance, è un veggente, a prescindere dalla sua formazione culturale. E' così dalla notte dei tempi, a parer mio. So che questo discorso meriterebbe degli approfondimenti, ma in questa sede non è possibile farlo, perché ci porterebbe fuori dal seminato.
E' un verso indubbiamente bizzarro, quello che Francesco Paolo Tanzj espone. Un verso che alcuni potrebbero definire sperimentalistico, ma non è così, se con il termine si allude ad una ricerca formale fine a se stessa. E' lo stesso poeta a dirlo. Ascoltiamolo nell'incipit della poesia intitolata Polemos: "Mi fanno ridere i poeti del secondo novecento / un po' introversi timidi e civili / padroni di sé / consapevoli d'ardua riflessione / chini su pagine sapientissime / di ricerca verbale". Ripeto quello che ho detto: Tanzj preferisce la scrittura automatica alla scrittura costruita a tavolino. Non per questo la sua poesia è riconducibile alle atmosfere del Surrealismo, cui, come sappiamo, quella modalità artistica risulta assai cara. Quello di Tanzj è piuttosto un Espressionismo che propone una navigazione a trecentosessanta gradi, vuoi nei mari dell'anima, vuoi principalmente in quelli della vita.
Per certi aspetti si potrebbe anche parlare di poesia civile, ma a me sembra riduttivo, se non improprio, dati i presupposti misterici di questa weltanschauung, di questa visione della vita. A mio parere, siamo in presenza di un mito cosmogonico vero e proprio. Di un mito nuovo, cui non è estranea la lezione dell'amore francescano; di quell'amore che, secondo Dante, move il sole e l'altre stelle. Un mito di forza dirompente. Un desiderio di rompere gli schemi, le barriere, per poter finalmente abbracciare il mondo e l'universo intero. Poesia di aggregazione, pertanto. Di contaminazione. Poesia della complessità dell'esistente. Poesia metropolitana, anche, intrisa di suggestioni multimediali, come in una grande orchestra jazz (è questo il titolo di una famosa raccolta di Tanzj). Il jazz: un genere musicale dove l'improvvisazione, guarda caso, la fa da padrona, pur essendo implicita la raffinata preparazione artistica dei singoli orchestranti.
E in questo contesto non può non apparire il plurilinguismo. Eccone un esempio: "Abbracciamoci amore / "scurdammoce ò passato" / i just love you / mon amour / besame mucho". Ed ho un'ultima annotazione da fare, a proposito della pagina poetica, del suo aspetto grafico-visivo inconfondibile. I versi, nel loro insieme, formano un'immagine, danno l'idea di segni mobili, come di dune fuggenti, o di onde che s'inseguono, di cavalli al galoppo, di nubi trascinate dal vento... Sperimentalismo? E' probabile, ma io preferisco vederci una metafora del Divenire, del mutare precipitoso dell'Essere, del tragico e festoso rincorrersi ed abbracciarsi delle cose. Il che non esclude la presenza di quel mito cosmopolita, internazionalista e girovago che fu proprio della beat-generation, di cui ci parla l'autore, ma questo è soltanto il puntello di una costruzione più ampia.
Viva è indubbiamente la memoria di quell'epoca, di quegli eventi, al tempo stesso grandiosi ed amarissimi, che hanno coinvolto il poeta in prima persona. Vivo il lampo della fallita utopia sociale che abbagliò la generazione del Sessantotto. Vivo il guizzo dell'ideale di giustizia e libertà, il sogno dell'immaginazione al potere che accese il cuore dei giovani di tutto il mondo, per carbonizzarlo poi nel braciere del cinico materialismo. Ma tutto questo a mio parere allude a significati più alti, perché il canto di Tanzj balza sulle rovine aride e fumiganti del villaggio globale e senz'anima dei nostri tempi, per seminare, più che un ideale politico contingente, il sogno intramontabile di una fraternità senza confini fra tutti gli esseri viventi.
E' una preghiera sorgiva ed inedita. Una rinnovata, luminosa accensione della simbologia edenica. Il ritorno di una memoria incancellabile, legata a un Paradiso della Terra irrimediabilmente perduto, ma pur sempre ambito e sognato, e pertanto vivo e presente nel cuore degli umani. Scrive Tanzj: "Quante volte ti ho detto / che i sogni sono pure realtà? / Sono sempre esistite quelle sottilissime voci / che si perdono nello spazio dei pensieri / ... / Oh, povere le nostre menti / disperse tra le scacchiere dei concetti / povero il nostro cuore /così solo e impaurito. / Riuscirà a scorgere il paradiso che ci aspetta?". E' il racconto del grande mistero d'amore che non riusciamo a comprendere e che in continuazione purtroppo tradiamo.
Così tutto precipita nel vuoto inesorabilmente, nonostante la vita sia e continui ad essere incomparabilmente bella. E allora bisognerebbe imparare a non sciuparla l'esistenza, con quell'egoismo che ci fa schiavi, con quella presunzione che ci ingabbia. Bisognerebbe soltanto sapersi affidare al mistero, seguirne le rotte senza tentare di aggredirlo in qualunque maniera, come da sempre facciamo. La felicità, l'amore, la pienezza sono comunque e sempre presenti, a dispetto delle nostre negazioni. La fede di Tanzj non barcolla, e questo è straordinario. Ovviamente parliamo di una fede non confessionale, di una certezza nella realtà dell'invisibile, che fa sentire vivo lo spirito, come fosse carne, materia. "La mancanza di qualcosa non è mai vuoto assoluto", scrive Francesco.
Questa poesia ci trasmette il senso di una navigazione nel mistero. Sprofondato nella voragine dell'universo, l'uomo è colto da un brivido che lo fa sussultare, da una corrente che lo trascina, facendolo sentire al tempo stesso fragile ed invincibile, pronto ad affrontare eroicamente qualunque sacrificio. Può cadere sul campo, ma risorge, "così... come se mai / perdita alcuna fosse avvenuta". E' il racconto dell'umanità di sempre, presa nel conflitto tra il suo statuto archetipo e la sua realtà esistenziale. Un contrasto che appartiene all'uomo di tutti i tempi, preso tra le sue aspirazioni all'assoluto e le sue meschinità, i suoi tradimenti nel relativo. "Bye bye Allen" è una formidabile preghiera dove si parla della morte dell'utopia, di quell'"oblio così colpevole / che ci ha fatto scordare d'esser fatti di terra e di mare / e di esser tutti di passaggio in questa vita sempre tutta / da scoprire". Poi però, nel poemetto intitolato "Per dove non sono mai stato", il poeta grida che la vera rivoluzione è interiore: "un accompagnamento tutto mentale / perché - sappiatelo - / la fantasia è più forte di qualunque cosa / e vola senza freni / per gli impervi sentieri del cuore".
Dunque un percorso altalenante. Dove, se è vero che "è la legge del mercato quella che conta / che impera libera e sovrana / ora che son caduti i muri e le illusioni", è altresì vero che "mai come adesso - forse - / abbiamo tutti bisogno d'amore / e ci osserviamo - timidi - in attesa di parole / di gesti contatti sensazioni". Per cui "non vergognamoci / di questa voglia maledetta di volare / nonostante l'anonima folla / dei giocatori di borsa on-line e dei rampanti scalatori / di un Grande bluff globale". Mi permetto di concludere così: la lotta tra le due opposte visioni (poesia o utopia, da un lato, e cinismo dall'altro) c'è sempre stata e sempre ci sarà. Non accadrà mai che uno scontro possa essere l'ultimo e il definitivo, forse perché noi abbiamo bisogno di entrambi i contendenti: di incanti e disincanti in equa misura. Se ci si sbilancia da un lato, ci si deve riequilibrare dall'altro, e viceversa. I due avversari sono entrambi necessari alla vita. Nessuno soccombe. L'importante è che ciascuno svolga il proprio ruolo.

                                                                 
                                                   Franco Campegiani 




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