giovedì 6 febbraio 2014

PASQUALE BALESTRIERE: SAGGIO SU "QUINTO ORAZIO FLACCO", 1a PARTE



VI PROPONIAMO LA PRIMA DELLE TRE PARTI IN CUI E' DIVISO QUESTO SAGGIO CHE DIMOSTRA LA PERSPICACE CONOSCENZA E L'AUTOPTICA COMPETENZA IN LETTERE GRECO-LATINE DELLO SCRITTORE PASQUALE BALESTRIERE


QUINTO ORAZIO FLACCO

L’uomo, lo scrittore

                                                                               
Esistono scrittori  nella storia della letteratura di tutti i tempi del cui riconosciuto magistero l’umanità mai potrà privarsi senza pericolose involuzioni. Essi hanno da insegnare qualcosa all’uomo di qualsiasi epoca storica.
Per dirla con S. Battaglia ,“il concetto di scrittore classico risale alla stessa antichità, in quanto designava l’autore che si leggeva nella scuola, nella classe corrispondente. E pertanto acquistava valore distintivo ed esemplare”.[1]
Uno di questi scrittori , certamente tra i maggiori, è Quinto Orazio Flacco.
Venosa ( 65 a.C.) lo vide nascere, Roma (8 a.C.) morire. Il padre era un liberto (libertino patre natum, dichiara più volte il poeta nei suoi scritti) e amò il figlio fino al punto da farlo studiare addirittura a Roma, a prezzo di gravi sacrifici. D’altro canto Orazio ricambiò profondamente l’affetto paterno e non rinnegò mai la sua umile origine. Studiò Andronico e i lirici greci, che si sforzò di superare; e forse, a suo parere, attinse lo scopo, fatta eccezione per Pindaro, al quale si dichiara manifestamente inferiore[2].
Il suo ritratto: corporis exigui, praecanum, solibus aptum,  /  irasci celerem, tamen ut placabilis essem[3]. Dunque era “piccolo di statura, canuto prima del tempo, abbronzato, pronto all’ira ma egualmente pronto a placarsi”; altrove si definisce levior cortice et improbo  /  iracundior Hadria[4], “più instabile del sughero e più irascibile dello sfrenato Adriatico”;  ancora, scherzosamente, pinguem et nitidum bene curata cute...  /  ... Epicuri de grege porcum[5], “grasso e lustro per la pelle ben curata... porco del gregge di Epicuro”.
Basso, bruno, tendente alla pinguedine, instabile, iracondo: uno studioso di antropologia vedrebbe in lui il classico tipo mediterraneo; e dell’uomo del sud Orazio ebbe la fantasia, la potenza evocativa, la volontà di affermarsi in barba alla sua umile origine; sicché, quando la fama gli arrise, spesso nei suoi componimenti affermò che, pur essendo nato ed allevato “non certamente nell’abbondanza” (in tenui re[6]), era riuscito a raggiungere la sua posizione per esclusivi meriti personali: cosa non facile nella Roma di allora.
La produzione poetica del Venosino si esprime attraverso quattro momenti che danno la misura del suo modo di vedere la realtà, della grandiosa e geniale sintesi poetica, delle sue notevolissime capacità espressive: le Satire e gli Epodi (composti contemporaneamente), le Odi e le Epistole.
Non intendo, in questa sede, esaminare analiticamente l’opera oraziana, ma solo enuclearne elementi altamente significativi, attuali e universali.
Dei Sermones (o Satire) colpisce, a una prima lettura, il tono familiare, discorsivo, ricco di bonomia ma anche urbanamente ironico, leggermente graffiante. Altri, prima di lui, si erano serviti della satira come di un corpo contundente e i loro j’accuse si erano abbattuti sui malcapitati destinatari di tanta attenzione con la violenza di un colpo di maglio. Invece Orazio castigat ridendo mores, non muove attacchi ad personam; nessuno camminerà per le strade di Roma demissis auriculis “con le orecchie abbassate, perché la satira di Orazio non  provoca traumi esteriori, ma solo dramma intimo e, per di più, esclusivamente in uomini tesi ad un arricchimento morale e spirituale. Satira di costume, arguta, essenziale, nel contenuto e nell’espressione: già si intravede in essa quel culto tutto oraziano della parola, intesa come verbum  o lògos, strumento divino, atto a significare tutto ciò che mente umana possa immaginare.
I temi trattati nelle Satire sono attinti dalla vita d’ogni giorno:  riguardano il disprezzo delle ricchezze (ad Orazio basta una casetta, un piccolo pezzo di terra in cui scorra una fonte d’acqua perenne, un po’ d’alberi; e, quando Mecenate gli dona una  villa in  Sabina, con commossa sincerità, ringrazia: hoc erat in votis: modus agri non ita magnus,  /  hortus ubi et tecto vicinus iugis aquae fons  /  et paullum silvae super his foret[7]), l’incontentabilità degli uomini (tema che ricorre anche in altri componimenti oraziani), il dovere dell’indulgenza reciproca, ecc. L’Autore,  da amico discreto, avverte: est modus in rebus, sunt certi denique fines  /  quos ultra citraque nequit consistere rectum[8]: “un giusto mezzo esiste, dunque, in ogni cosa; vi sono insomma limiti ben determinati, oltrepassando o non raggiungendo i quali non può trovarsi il giusto”. È qui, a mio parere, che Orazio si dimostra poeta spiccatamente classico: nel senso della misura e, conseguentemente, nell’armonia tra materia e spirito è da ravvisare il segno di una vera “humanitas” aliena da estremismi clamorosi ma irrazionali.
L’irruenza giovanile dello Scrittore, l’inquietudine e, a volte, la sua ira trovano testimonianza negli Epodi o Iambi: alcuni sono a sfondo politico, altri dedicati a Mecenate, altri ancora sono contraddistinti da attacchi personali. Sembra quasi impossibile, per l’accentuata differenza di tono, che Satire ed Epodi siano stati composti contemporaneamente: insomma, il poeta dei Giambi sembra non essere anche l’autore delle Satire.  E tuttavia il tono più acceso spesso si acquieta in sapidi commenti, come questo: fortuna non mutat genus[9] chiosa bonariamente Orazio, riferendosi a un ex schiavo che ora incede per la Via Sacra, gonfio di insolenza e di boria: “ I beni di fortuna non mutano l’origine dell’uomo”. E qui ritroviamo l’Orazio saggio e arguto dei Sermones.
La sua lirica raggiunge livelli insuperabili nelle Odi o Carmina. Eppure, da tanta perfezione, certamente non solo formale, alcuni critici sono stati capaci unicamente di trarre l’immagine di un Orazio elegantissimo ma superficiale, freddo, lucido, quasi senz’anima. A mio parere, mai errore fu più clamoroso. È ben vero che il Venosino, nel suo verso, crea il vuoto attorno alla parola, offrendo ad essa terso nitore e possibilità di ampie e molteplici risonanze, ridonando al verbum tutto il suo vigore e valore espressivo, oltre al fascino evocativo; sicché la sua sobrietà stilistica, la preminenza nei suoi versi di sostantivi e verbi, l’essenzialità dell’aggettivazione, il parco uso di congiunzioni creano un’armonia inimitabile. La quale poi, a ben guardare, costituisce il segno della vera arte, a patto che non sia disgiunta dalla sincerità dell’ispirazione poetica, dal sentimento profondo della vita e della morte. E allora? Orazio superficiale e freddo? Andiamo a vedere: Eheu fugaces, Postume, Postume, / labuntur anni nec pietas moram / rugis et instanti senectae / adferet indomitaeque morti / ... / visendus ater  flumine languido /  Cocytos errans et Danai genus / infame damnatusque longi / Sisyphos Aeolides laboris. / Linquenda tellus et domus et placens / uxor, neque harum quas colis arborum / te praeter invisas cupressos / ulla brevem dominum sequetur.[10] “Ahimè, Postumo, Postumo, rapidi scorrono gli anni, né la devozione apporterà indugio alle rughe della vecchiaia incalzante e neppure alla morte indomabile ... Bisognerà visitare l’oscuro Cocito, che scorre tortuoso con pigra corrente, e la stirpe infame di Danao, e Sisifo, figlio di Eolo, condannato all’eterna fatica. Dovremo lasciare la terra, la casa e la bella moglie, e di questi alberi che tu coltivi non uno seguirà te, signore per breve tempo, tranne l’odioso cipresso”. Che dire poi del lapidario pulvis et umbra sumus? e della dolente consapevolezza della precarietà della vita umana dichiarata dall’interrogativa  Quis scit, an adiciant hodiernae crastina summae / tempora di superi?[11] “Siamo polvere ed ombra. Chi può sapere  se gli dei superni aggiungeranno   ore future alla somma degli anni da noi vissuti fino ad oggi?”
La verità è che il pensiero della morte è dominante nella mente del poeta, anche se egli si sforza di relegarlo al livello inconscio della sua psiche. Orazio sa che, a ben esaminare la vita, esistono motivi per lasciarsi andare  a un cupo pessimismo; ma, intriso com’è di sani precetti epicurei, che indicano come bene supremo una condizione di aponìa e atarassìa, si crea e delimita un mondo magari ideale e rarefatto, ma senza dubbio rispondente alle sue aspirazioni di equilibrio e di armonia; pertanto rifugge dal dolore in tutte le sue manifestazioni. In questa chiave, mi pare, sono da interpretare la poesia e la personalità oraziane. Intenderemo, così, rettamente anche i motivi poetici delle Odi, attribuendo ad essi il giusto valore.
L’amore è uno dei temi ricorrenti dei Carmina. Un amore pacato, sereno, trattato in superficie: si direbbe che Orazio non abbia mai amato profondamente. Anche qui scopriamo, perspicua, una traccia del suo equilibrio, giacché egli sa bene che la passione profonda  genera anche dolore; e, dunque, più che amare una donna, ne apprezza la femminilità, la bellezza estetica, la discrezione, magari la sensualità e, infine, la previdenza, se gli fa trovare una tavola imbandita e dell’ottimo vino. Le donne? Lidia, Cinara, Fillide, Cloe, Lice, Leuconoe... A quest’ultima dedica un carme bellissimo: Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi  /  finem di dederunt, Leuconoe, nec Babylonios  /  temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati!  /  Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,  /  quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare  /  Tyrrhenum: sapias, vina liques et spatio brevi  /  spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida  /  aetas: carpe diem quam minimum credula postero.[12] “Non indagare - è vietato saperlo!-  quale termine di vita gli dèi abbiano assegnato a me, quale a te, o Leuconoe, e non mettere alla prova i calcoli babilonesi. Quanto è meglio adattarsi a qualunque cosa accadrà! Sia che Giove ci abbia assegnato più inverni sia che ci abbia concesso come ultimo questo che ora sfianca il mare Tirreno contro gli opposti scogli, sii saggia, mesci il vino e, poiché breve è lo spazio della vita, taglia via una lunga speranza. Mentre stiamo parlando è già fuggito il tempo invidioso: godi l’oggi, confidando il meno possibile nel futuro.”
In quest’ode, piccolo capolavoro di umana saggezza, sono individuabili vari elementi della poesia oraziana (sapias; carpe diem, ecc.): a me particolarmente interessa il vina liques, perché quello del vino è un altro motivo che ricorre costantemente non solo nei Carmina: il vino, racchiuso magari in una Graeca testa [13] (anfora greca) che è pia[14], cioè benefica, assume per il nostro autore notevole importanza in quanto apportatore di ebrietas, ebbrezza che presumibilmente è l’unica forma di salvezza dalle cupe meditazioni e dall’amarezza della vita: quid non ebrietas dissignat? Operta recludit,  /  spes iubet esse ratas, ad proelia trudit inertem,  /  sollicitis animis onus eximit, addocet artis.[15] “Che cosa non dissuggella l’ebbrezza? Rivela ciò che è nascosto, realizza le speranze, spinge il poltrone alla battaglia, sgrava gli animi dalle preoccupazioni, perfeziona nelle arti.”
Orazio dovette avere buona conoscenza di vini oltre al vile Sabinum, sono degni di essere ricordati i vini pregiati o “nobili”: il Cecubo, il Caleno, il Massico, il Lesbio, l’egiziano Mareotico, il Formiano, il Falerno ( un buon bianco secco -quest’ultimo- che si produce anche oggi, ma non ne conosco il grado di parentela con l’antico).
Il poeta, parco nella scelta degli amici, nutrì particolare affetto per Mecenate, Virgilio, Vario, Tibullo. Pertanto importanza notevole ha nei suoi carmi il tema dell’amicizia che è sostanziata di sincerità, di serenità e umanità. Appunto  ad un amico, Pompeo Varo, è dedicata un’ode molto nota in cui Orazio rievoca la battaglia di Filippi, la fuga e il poco dignitoso abbandono dello scudo: per quest’ultimo particolare, autentico tòpos, si ricordi Archiloco: ᾿Ασπίδι μὲν Σαίων τις ἀγάλλεται ἣν παρὰ θάμνῳ | ἔντος ἀμώμητον κάλλιπον οὐκ ἐθέλων.| ... ἀσπὶς ἐκείνη | ἐρρέτω· ἐξαῦτις κτήσομαι οὐ κακίω [16] “Qualcuno dei Sai va orgoglioso del mio scudo, arma irreprensibile che io abbandonai, contro la mia volontà, presso un cespuglio... Ma quello scudo vada alla malora! Me ne procurerò, in seguito, uno non peggiore”; e Alceo:  Ἀλκαῖος σόος ... | ἐς Γλαυκώπιον ἱερὸν ὀνεκρέμασσαν Ἄττικοι [17]    Salvo è Alceo.../ ma gli Ateniesi hanno appeso le sue armi nel tempio della Glaucopide”; e, ancora, Anacreonte: ἀσπίδα ῥιψας ποταμοῦ καλλιρόου παρ’ὄχθας [18] avendo gettato lo scudo nellonde dun fiume dalla bella corrente”.  Anche il figlio del liberto, meditabondo, dichiara: Tecum Philippos et celerem fugam  /  sensi relicta non bene parmula[19] “Con te io provai Filippi e la rapida fuga abbandonato non dignitosamente lo scudo”; nella litote “non bene” si può ravvisare un pizzico (non di più!) di ironia e di amarezza.
Dalla consapevolezza di aver lasciato ai posteri una grande opera di poesia erompe il carme 3, 30: Exegi monumentum aere perennius; e poi: Non omnis moriar multaque pars mei  /  vitabit Libitinam.  “Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo... Non morrò interamente ma gran parte di me eviterà Libitina”, ossia la morte.
È tempo di passare alle epistole, anche se la penna vorrebbe ancora indugiare sugli argomenti delle Odi.
Le Epistole rappresentano la fase più matura della’arte oraziana: componimenti pensosi e profondi, non privi di un sottile umorismo, si riallacciano alle Satire per il tono garbato e discorsivo, per il linguaggio familiare e per la consueta pacatezza; inoltre un lirismo diffuso, una perfezione formale evidente e la saggezza di sempre indicano le Epistole come indiscutibile capolavoro. Da esse trarrò un solo insegnamento o, se si vuole, suggerimento: Inter spem curamque, timores inter et iras  /  omnem crede diem tibi diluxisse supremum:   /  grata superveniet, quae non sperabitur hora.[20] “Tra speranza ed affanno, fra timori ed ire, fa conto che ogni giorno sia spuntato per te come ultimo: gradita ti giungerà l’ora che tu non avrai sperato.”
Se, a questo punto, qualcuno mi chiedesse che cosa questo scrittore, vissuto oltre duemila anni fa, può “dire” all’uomo del ventunesimo secolo, risponderei che l’insegnamento oraziano ci inonda di quella che il Flora definisce “classicità morale e verbale”: alla nostra epoca, paurosamente ricca di vacua verbosità e di scarsissime realizzazioni, Orazio dà una lezione di stile con il suo dettato linguistico essenziale, scarsamente aggettivato, proprio, sicuro; a noi che, nevrotici ed incerti, ci affanniamo per conseguire misere conquiste personali e benessere materiale, a noi schiavi di un tenore di vita standardizzato e banale, suggerisce di costruirci una  dimensione più vera, più ricca, più armonica, più umana. E questa nostra realtà così frenetica egli ci esorta a guardare con tolleranza, arguzia  e, magari, con ironia; e se una tavola imbandita e un buon bicchiere di vino possono servire a sgravarci dalle pene quotidiane, siano i benvenuti.
Per concludere, alcuni versi di Voltaire (Épître à Horace), che ben rivelano la fervida ammirazione dell’illuminista francese per il poeta latino: J’ai vécu plus que toi, mes vers dureront moins,  /  Mais au bord du tombeau je mettrai tous mes soins  /  A suivre les leçons de ta philosophie,  /  A mépriser la mort en savourant la vie  / ...  /  Avec toi l’on apprend à souffrir l’indigence,  /  A jouir sagement d’une honnête opulence,  /  A vivre avec soi même , à servir ses amis,  /  A se moquer un peu de ses sors  ennemis  /  A sortir d’une vie ou triste ou fortunée,  /  En rendant grâce aux dieux de nous l’avoir donnée[21].








               [1] Salvatore Battaglia, Le epoche storiche della letteratura italiana, Napoli, 1965, p.23
               [2] Hor., Carm., 4, 2.1 sqq
               [3] id., Epl.,  1, 20, 24-25
               [4] id., Carm., 3, 9, 22-23
               [5] id., Epl., 1, 4, 15-16
               [6] id., Epl., 1, 20, 20
               [7] id., Sat., 2, 6, 1-3 (“Era questo il mio desiderio:un pezzo di terreno non troppo grande, dove ci
               fosse l’orto e, vicino alla casa, una fonte d’acqua perenne e, oltre a questo, un po’ di selva”)
               [8] id., Sat., 1, 1, 106-107
               [9] id., Ep., 4, 6
               [10] id., Carm.,  2,14, 1-4 e 17-24
               [11] id., Carm.,  4, 7, 16
               [12] id., Carm.,  1, 11
   [13] id., Carm.,  1, 20, 2
   [14] id., Carm.,  3, 21, 4
   [15] id., Epl., 1, 5, 16-18
   [16] Archil., fr. 6 Diehl
   [17] Strab., XIII, 1, 38
   [18] Anac., fr. 381b  PMG
   [19] Hor., Carm.,  2, 7, 9-10
               [20] id., Epl., 1, 4, 12-14
               [21] Epistola a Orazio: “Io ho vissuto più di te, i miei versi dureranno meno  /  ma ai bordi della tomba                   io metterò  tutta la mia  cura  /  nel seguire le lezioni della tua filosofia  /  nel disprezzare la morte                               assaporando la vita  /... /  Con te si apprende a sopportare l’indigenza,  /  a gioire saggiamente di un’onesta                   ricchezza,  /  a vivere con se stessi, a servire i propri amici  /   a ridersi un po’ dei propri casi avversi  /  a uscire               da una vita o triste, o fortunata  /   rendendo grazie agli dèi di avercela data”.   

15 commenti:

  1. Una vera lectio magistralis di grande tenuta culturale. Mi ha fatto grande piacere leggere questo saggio. Ha rinnovato in me il desiderio di rivedere certi passi del liceo, e dell'università poi. Ma devo riconoscere mai trattati con tanta specificità e tanta competenza filologica.
    Grazie
    Maria Luisa

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  2. Bella pagina in un blog che continua a sorprendere per i suoi interventi di alto profilo letterario.
    Grazie
    E. Partigiani

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  3. Quanto attuale la lettera di Voltaire sul problematico dono della vita! E quanto la filosofia di Orazio!
    Giachino

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  4. L'autore non esita a delineare la propria collocazione in fondo all'antichissima e luminosa storia delle letterature antiche, dominata dalla poesia di Orazio.
    Ottimo lavoro. Miriam Binda

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  5. Ars Poetica dunque! Complimenti e buona continuazione per le restanti parti del saggio.

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  6. All’Università di Padova si è svolto un ottimo lavoro di ricerca e di équipe, sulla raccolta completa della lirica oraziana in cui si affacciano anche le istanze civili del poeta.
    La lettura alla luce dei principali modelli letterari, è stata assegnata recentemente a Tiziana Briolli dal responsabile del dipartimento per una durata triennale (2011-2013) sarà prossimamente resa nota anche una pubblicazione e saranno adoperate tavole rotonde a tema, per la divulgazione in collaborazione con personale esterno preparato sull'argomento. Grata per l'approfondimento, distinti saluti.
    Tiziana

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  7. Carissimo Pasquale,
    quale onore per me ospitare sul mio blog tanta assennatezza, ma soprattutto tanta materia originale; di franca e sana voce per i tempi in cui viviamo. Orazio. Il grande poeta interprete di quella cultura classica di cui tutti hanno dovuto dobbiamo e dovremo tenere di conto. Non solo per i contenuti zeppi di saggezza, di equilibrio, e di umanissima riflessione sul mondo, sul senso, e sulla precarietà della vita, ma per il culto del verbum, del lògos, come tu dici; di quell'elemento indispensabile a fasciare gli abbrivi interiori; quegli impulsi emotivo-intellettivi che senza corpo possono rimanere soltanto incompiuti dentro di noi. Ed è cosa buona farlo conoscere, ottima direi, ai tanti, ai più, che pensano di essere scrittori pervenuti e di poter fare letteratura senza avere alle spalle un tirocinio di classica memoria. A coloro, soprattutto, che pensano di far poesia ritrattando la realtà, in maniera asettica, con un bagaglio di parole povero e inadeguato, che sventolano come vero, come bandiera a garrire, proprio perché non hanno quella formazione di base che permetta loro giuste corrispondenze verbali. E magari pretenderebbero di far passare per antiquato e sorpassato un tipo di scrittura: quello sodo, robusto, sano, ben strutturato per formazione; quello che si può permettere di spaziare fino agli slanci più arditi del nostro vivere, senza tempo, esistenziali, e universali; sempre attuali che ritroviamo nei canto di Orazio, di Catullo, di Virgilio, di Dante, Petrarca, Parini, Foscolo, Leopardi, Pascoli, D’Annunzio…, perché in loro trovano forma. Quelli dell’uomo in quanto tale; quelli di noi tutti che ci siamo trovati, qui ed ora, a vivere una vicenda di cui vogliamo renderci conto. Di voci che non verranno mai dimenticate, come la Letteratura dimostra. Soprattutto, perché, ognuno di questi ha avuto alle spalle quell’Orazio che l’ipertrofia soffocante di nuove proposte modernistiche vorrebbe cancellare. E io credo che l’optimum sia proprio nella Forma; in quella desanctisiana, per intenderci; quella piena capace di tenere il tutto: quella classica attualizzata; quella che sa rispettare certe regole con spontaneità perché decantate in una storia pregna di umanistico sapore.

    Grazie
    Nazario

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    1. Ricevo e pubblico

      Un salutare bagno nella classicità, questo saggio ristoratore e luminoso di Pasquale Balestriere, il quale ci conduce con mano sicura nella (ri)scoperta, sì, di un Orazio ironico e leggero, suadente e disincantato; ma che fa anche emergere a tutto tondo uno spirito meditativo e speculativo, consapevole indagatore del mistero del vivere. Dimensione di Orazio, quest’ultima, che Pasquale Balestriere rivaluta e che autorevolmente, per così dire, “sdogana”, quando esamina la sostanza e la valenza delle Odi. Infatti dei quattro momenti fondanti della poesia di Orazio, Satire ed Epodi, Epistole e Odi, queste ultime rappresentano certamente il momento più alto di quella poesia, capace di attingere le più alte vette espressive nel momento in cui riesce a coniugare realtà e desiderio, macerazione esistenziale e rifugio nell’abbandono, consapevolezza del mistero ontologico e fuga nella dimensione gioiosa e serena di una vita che nell’aurea mediocritas fissa il suo principale e indispensabile punto di riferimento. E’ questo, del saggio di Pasquale Balestriere, il passaggio che più mi intriga e mi coinvolge. Proprio da qui, dai Carmina, muove Balestriere per operare, per così dire, un restyling estetico-letterario dell’opera di Orazio. Nella rivisitazione, infatti, di alcuni giudizi critici sull’arte del poeta, Pasquale Balestriere contesta decisamente l’assunto di alcuni critici secondo i quali il poeta sarebbe “elegantissimo ma superficiale, freddo, lucido, quasi senz’anima”, “lettura” che Balestriere respinge decisamente come non condivisibile, per non dire irricevibile. Ma per questo riguardo, a ben vedere, a me sembra che Pasquale Balestriere, più che “bacchettare” quei critici e fare giustizia dei loro (pre)giudizi, abbia in realtà voluto compiere un’assai convincente e riuscita operazione-verità: quella, cioè, di “raddrizzare” la prospettiva con cui guardare all’arte del poeta; arte che, sottoposta ad uno screening rigoroso e approfondito, ci restituisce non solo l’autore raffinatissimo ed inarrivabile del “non omnis moriar”, del “carpe diem”, del “dum loquimur, fugerit invida aetas”; ma ci consegna anche (direi: soprattutto) il poeta sfinito dall’inquietudine del vivere, il cantore consapevole (e dolente) della precarietà della vicenda umana: “visendus ater flumine languido / Cocytos errans / … / Linquenda tellus et domus”; e ancora “pulvis et umbra sumus”. Di modo che il “sapias, vina liques” e il “carpe diem” altro non sono che la salvifica risposta allo struggimento del dubbio esistenziale, una reazione istintiva, quasi di legittima difesa, di fronte al “Quis scit, an adiciant hodiernae crastina / summae / tempora di superi?”; terapeutica e salvifica fuga nella dimensione di una vita serena e misuratamente intensa e gioiosa.
      E’ da individuare qui, a mio parere, la chiave di lettura dello specifico passaggio nella trattazione di Pasquale Balestriere, un’operazione condotta magistralmente dallo scrittore di Barano nello straordinario paradiso lirico del poeta del “carpe diem” (nobilissimo progenitore del più ruspante “Chi vuol essere lieto, sia!”), insuperato Maestro dal cui testamento morale e poetico anche l’uomo del terzo millennio può attingere quelle indicazioni e quei praecepta di temperanza, misura, condivisione, che ancora oggi costituiscono un preziosissimo patrimonio pedagogico, laicamente religioso, di altissima valenza civile ed etica.
      Umberto Vicaretti

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  8. Complimenti vivissimi al poeta Balestriere per la sua profonda dissertazione sul mondo classico visto con gli occhi della modernità. E complimenti anche agli interventi successivi che hanno arricchito ulteriormente il cuoe del dibattito.
    Fulvio

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  9. Ringrazio di cuore tutti voi che avete avuto attenzione (e pazienza) di leggere, ma anche volontà di commentare e di gratificarmi. Un particolare grazie a Nazario Pardini e a Umberto Vicaretti, autori di piccoli gioielli critici.
    Sarò lieto se leggerete gli altri due momenti di questo breve saggio che saranno pubblicati, distanziati tra loro, fra non molto. Sempre su questo accogliente blog.
    Un cordiale saluto a tutti

    Pasquale Balestriere

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  10. Caro Pasquale,

    dopo aver letto i commenti alla prima delle tre parti in cui è diviso il tuo magnifico saggio sul poeta del "carpe diem!" QUINTO ORAZIO FLACCO ed anche le preziose valutazioni dei nostri carissimi amici Nazario Pardini e Umberto Vicaretti, non posso che sentirmi onorata di questa bella amicizia. I vostri scritti mi colmano il cuore di gioia per le competenze letterarie e l'indiscussa abilità di ciascuno nel saperle dimostrare, ma al tempo stesso mi svuotano la mente di parole.
    "L'uomo o impazzisce o scrive versi". Così diceva Orazio (e forse sarà proprio per la carenza di ospedali psichiatrici, che abbondano i poeti), ma se il credito di un autore vissuto ben duemila anni or sono fu talmente grande nei secoli passati da essere rivisitato ed apprezzato dal Parini, dal Manzoni, dal Leopardi e perfino dal Carducci, come pensare che anche un poeta quale tu oggi sei, con un'autentica capacità d'avvertire i palpiti interiori, con l'essenzialità del lessico e la prontezza a nuove suggestioni, non senta il fascino insolito di una personalità così pensosa ed inquieta?
    "Siamo polvere ed ombra". E' vero. Tuttavia qualcuno dovrà pur lasciare l'impronta del proprio peso sulla nostra amata Terra.
    So che presto tornerai a navigare la seconda parte dell'arguto mare oraziano e, anche se la brevità della vita ci vieta di concepire speranze, io spero di poterti leggere ancora, per poter trascorrere momenti altrettanto felici come quelli che ho dedicato alla prima parte di questo saggio straordinario.

    Maria Ebe Argenti

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  11. Merita sicuramente una laurea honirem swizzerland (gratuita!). Genius

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  12. Chi ama il mondo della cultura non conosce limiti di tempo e di spazio né limiti di indagine e di riflessione. Chi ama la cultura ama la poesia e i poeti, anche quelli che non ci sono più. E, per amore di poesia, scrive libri nei libri, penetrando nei più nascosti segreti dell’animo umano, per dare luce alle parole e ai significati dell’anima. Con la semplicità e la profondità che fanno alto il proprio dire. E’ anche il caso di questa lettura della poesia di Orazio, poeta che io amo particolarmente. E Pasquale Balestriere scava nella vita nell’opera e nell’anima del poeta di Venosa per donarci un prezioso affresco, da par suo, di una poesia che, dopo il suo dettato critico, è diventata più decifrabile e gradita. Bravo Balestriere, e ti auguro buon lavoro per le altre due parti che ci hai promesso e che certamente gradiremo, perché so che ci darai un’altra prova del tuo coinvolgente e validissimo umanesimo.
    Umberto Cerio

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  13. Ringrazio di vero cuore Maria Ebe Argenti e Umberto Cerio, che hanno impreziosito questa pagina con commenti acuti e arguti, sapidi di interiore sensibilità e ricchezza. Ed anche, per me, rivelatori del loro affetto e della loro stima.
    E ringrazio, per l'incomodo della nota, anche l'ironico "Genius" (nomen omen?), che bene farebbe però a prestare un po' d'attenzione in più all'ortografia.
    Pasquale Balestriere

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  14. Carissimo Pasquale, nel leggere questa prima parte, mi rendo conto di quanta sete di cultura classica ci possa essere in chi, come me, ha una formazione in Lettere moderne. Il tuo saggio mi conforta per chiarezza di dettato e particolari. Vado subito e di corsa a leggere le seguenti parti.
    Patrizia Stefanelli

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