Ivan Pozzoni: QUI GLI AUSTRIACI SONO PIU’ SEVERI DEI BORBONI. Casa Editrice Limina Mentis. Villasanta (MB). 2015. Pg. 44
Una
poesia ampia, densa, ipermetrica, razionalmente guidata, ma emotivamente
sorretta, quella di Ivan Pozzoni; dove il verso tende a concretizzare le tante questioni
di un mondo che viaggia al contrario; in cui la borghesia, che aveva soffocato
le istanze sociali di un proletariato una volta intento ad andare sulle
barricate per far valere i suoi principi (rivoluzione francese del 1848), ora
continua il suo predominio creando una struttura materialista, liquida,
affarista dove prestanomi di multinazionali decidono delle sorti dei popoli:
Qui gli austriaci sono più
severi dei Borboni,
la Merkel tuona da Bruxelles
minacciando risoluzioni
del Consiglio Europeo, in cui
siedono retribuiti in modo sovranazionale
i vari prestanome dell’una o
dell’altra multinazionale,
indecisi, con rigorosità
scientifica tutta teutonica,
se far fallir la Grecia o un’azienda
agricola della Valcamonica (Qui gli austriaci son più severi dei
Borboni).
Un
“Poema” concreto, che va al sodo, e con cui l’Autore si schiera sia
politicamente che esteticamente, facendo della sua scrittura uno strumento d’impegno;
uno strumento che tende a evidenziare le aporie e le ingiustizie di una umanità
malata; indifferente, dacché “siamo troppo lontani dai moti del 1848,/ ora
l’intera nazione tira a arrivare alla mattina,/
sognando di incassare un ambo o una cinquina”. E dimostra, l’Autore, in
questo suo linguismo articolato e aduso ad una solida cultura, di avere a cuore
una tematica storico-sociale, ma di non disdegnare argomentazioni che
costituiscono il sale e il pepe dell’essere e dell’esistere: l’amore, il
rapporto della nostra vicenda umana col tempo, la precarietà dell’esser-ci, le
piccole cose della quotidianità, la poetica, i correlativi oggettivi di stampo
eliotiano, o di anceschiana memoria lombarda … Il tutto espresso con una
crudezza anticonformista; con un lessico volutamente scabro, con intendimenti estetici
avversi a tutto ciò che riguarda la nostra più verace tradizione letteraria.
Tanto è vero che le rime baciate inserite nelle composizioni, come in quella che si pone come momento incipitario
con valore eponimo, evidentemente, sono poste là, in bella vista, con propositi
ironici nei confronti di un certo lirismo. Qui tutto è anti, dal metro ai
contenuti, dalla cifra lessico-fonica ai risultati. Si va e si vuole andare
controcorrente; è l’ora di cambiare; è l’ora di finirla con quella poesia tutta
fiorellini e languidi baci; tutta armonia e espansioni liriche. Come a dire che
sono finiti i tempi di Puccini, o di Mascagni, di Bellini o di Leon Cavallo;
per entrare nel campo musicale che poi tanto lontano non è da quello della
poesia, visto che, per un’altra corrente legata alla tradizione, ambedue i generi dovrebbero tener di conto
della melodia, del ritmo, e della musicalità, considerando che l’uomo, da
quando è nato, ha sentito dentro di sé il bisogno di esprimere i suoi stati
emotivi accompagnandosi col battito di legni su altri legni; o seguendo il ticchettio
ritmato della pioggia sugli alberi.
Le parole "Mostrano il loro legame con la musica... La parola
nasce dal ritmo, come la musica. La poesia utilizza il ritmo in modo letterale
e la filosofia, che non canta, si muove sulle tracce del ritmo e attraverso di
esso vede. Vede il Ritorno. Vede l'Enigma" (Carlo Sini).
Se si vuole però considerare che l’Autore si
propone di sperimentare o di continuare su un modus dicendi tutto nuovo, si
deve pur apprezzare il suo odeporico coraggio dove la ben guarnita fecondità
esplorativa trova posto in un ductus poetico solido e sicuro; in una
plurivocità di generosa estensione significante; in cui, spesso, si ricorre a
parole e a modi di dire che farebbero rabbrividire i buon pensanti, ma che, non
per questo, non si può dire che non rappresentino uno stile nuovo e mordace:
l’officina dei morti di fame; il gatto Keats da una parte, e bollette, stipendi,
quadri aziendali dall’altra; il Vate vobis: “il sacerdote di Masera ai vespri
della sera/ senza rilevare sociologicamente, facendosi un minimo di mazzo, / sa
a costoro dell’impresa artistica interessi un cazzo”… Anche l’amore, sì, proprio il sentimento dei
sentimenti, quello che gioca con la vita, con gli esseri umani, facendo di loro
pedine da giostrare, artefice di odî, risentimenti, trasalimenti, sperdimenti,
avvilimenti, gioie, e tormenti; proprio lui è trattato con personalità direi
tutta pozzoniana:
(…)
Però Ambra è uno splendore di
ragazza, e mi ama, anche se assomiglio davvero a Bukowski:
mezzo butterato, mezza vita
trascorsa nei magazzini, mezzo amore regalato a troie senza cervello.
Mi mette a dieta, volontà di
farmi sopravvivere ai miei 90 kg, scrive cose bellissime,
che ricordano Paolo Nori, o
Aldo Nove, , o Peppe Lanzetta, o Ivanovijc Pozzoni,
mi conduce con un guinzaglio
d’amore alle mostre d’arte moderna, Pollock o Pollon non ricordo,
e quando piscio fuori dal vate
– come tutti i maschi mediterranei – e mi difendo artisticamente
affermando il mio diritto ad
una oxidation painting wartholiana sul pavimento non si arrabbia troppo,
è una donna post-moderna, col
terrore della muffa e della noia, con uno splendido culo
(…)
(Santo cielo, perché assomiglia a Bukowski?).
Assonanze,
consonanze, rime interne, rime baciate; insomma tutta quella melodia, quella euritmica
soluzione verso cui Pozzoni vuol dimostrare, con sarcasmo, la sua avversione; e
con cui vuole creare un ossimorico gioco, fra il buono e il bello della vita e i “cazzi amari”
da ingoiare:
(...)
col pubblico attaccato alla
canna del gas
autori imbecilli, che vi
sentite Dumas,
fallita ogni forma di
microeditoria sotto i colpi dell’imu,
inquilini di case fallite,
come co-intestatari,
vi divertirete a subire la
T.a.r.i,
e saran cazzi amari
(Scacco alla scacchiera).
Nazario Pardini
Grazie della bellissima recensione!
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