Marco Onofrio |
Marco Onofrio Ai bordi di un quadrato senza lati Marco Saya edizioni (2015) pp.
80 € 10 - Recensione di Paolo Di Paolo
Marco
Onofrio è uno scrittore poligrafo e multicorde, che ha una sua riconoscibilità
non solo stilistica, ma quantitativa: dovuta cioè anche all’estensione della
sua opera (22 volumi finora pubblicati, tra cui dieci di poesia) che è
cominciata molto presto con qualcosa di connaturale alla prosecuzione del
percorso effettivamente compiuto. La sua prima raccolta poetica si intitola
“Squarci d’eliso” (2002) e ha molto a che fare con il cielo, con il racconto di
meteorologie particolari. Mi colpì subito questo suo modo di guardare al cielo,
al suo trascolorare, alle modificazioni atmosferiche, alle sfumature, alle
pagine di luce che lo compongono. Come se lo sguardo di questo io poetante
fosse sempre rivolto verso l’alto. In realtà, poi, tutto quello che viene dopo
contraddice e richiama, ovvero conquista e riconquista, quell’inizio. C’è forse
una parola che io vedo fondamentale in questo percorso, utile a chiarire qual è
l’itinerario di Onofrio: l’oscillazione.
C’è un oscillare costante a vari livelli: non solo tra scrittura poetica e in
prosa – dopo un libro di poesia, o già accanto ad esso, ha bisogno della prosa,
e poi di nuovo della poesia – ma anche a livello tematico, perché quello
sguardo verso l’alto improvvisamente si abbassa e guarda non solo ad altezza
d’uomo, come il più delle volte uno scrittore fa, ma anche più in basso
dell’uomo, o dentro l’uomo, e quindi giù, verso la terra, o sottoterra, fino
alla materia più viscerale e sconvolgente dell’esistenza; e poi ancora lo
rialza di nuovo, e in questa oscillazione uno si disorienta, perché sente che
c’è continuamente un opposto che nega l’altro, o che lo completa.
Tutta
l’opera di Onofrio è fatta di oscillazioni: tematiche, linguistiche e
lessicali. Dall’altezza di una lingua compostissima, classica, antica, anche
nel senso della conquista di un’eleganza che non è dell’oggi, ed è per questo
inattuale, precipita – non solo nella prosa ma anche nella poesia – nelle
profondità di una lingua che invece è materica, viscerale, vivida e perfino
violenta. È come se disponesse di un lessico disarmante, nella sua ampiezza, dalla distillata pulizia di un
libro come il più recente Ai bordi di un
quadrato senza lati (2015) all’accesa indignazione di un libro come Emporium (2009). Da racconti composti
che cercano una classicità anche nella forma della prosa, a racconti
turbolenti, grotteschi, caustici, satirici, obbedienti a una vena rara in
Italia, rabelaisiana, pantagruelica poiché accoglie “tutto il vivente”, senza
escludere la sua materia più greve. Allora come si mettono insieme queste due
nature, che sembrano solo due e forse sono invece molteplici? Si mettono
insieme in un senso di ricerca, proteso ad inseguire domande fondamentali,
quelle che stanno all’inizio e alla fine di ogni percorso serio e autentico. «A
chi si scrive?» ci si chiede nell’ultima raccolta: è la ricerca straziante di
un interlocutore. Immagino Onofrio nella sua bulimica fame di letture e
scritture, questa sorta di gesto sempre ampio che c’è in lui, per cui accumula
testi letti a testi scritti, in un lavoro inesausto, quasi da officina
vulcanica. Alza lo sguardo e si chiede “a chi” sta parlando. È una domanda che
riguarda il senso stesso del gesto creativo, se c’è qualcuno che ne raccoglie
un battito, un eco. Per alcuni, alla cui razza Onofrio appartiene, scrivere e
vivere sono due facce della stessa medaglia: vivere è un’estensione dello
scrivere, e viceversa.
L’oscillazione
è ancora più manifesta perché passa da un presupposto che sembrerebbe
nichilista, contrario alla possibilità di un vivere “altro”, alla conquista di
una dimensione che è molto prossima all’eliso da cui è partito tredici anni fa.
Dimensione di luce che non cala necessariamente dentro una confessione
specifica, ma che è un sentire religioso molto profondo. Come arriva a questo?
Come ci si può arrivare “nel mezzo del cammin di nostra vita”. “Ai bordi di un
quadrato senza lati”, in effetti, sta “nel mezzo del cammin” della vita di
Marco. Se pure fosse l’ultima raccolta poetica, è una raccolta di mezzo, in
senso pieno. C’è quest’uomo che sta a metà di una possibilità d’esistere, e
nella prima parte del libro vede la materia sporca, richiamato da una spinta sotterranea,
dentro il tremore e l’orrore della visceralità, e dà ascolto a questa
possibilità, come se fosse Dante perduto, nel mezzo del cammin della sua vita,
dentro la selva oscura. Ma poi succede qualcosa a metà del libro, qualcosa che
lo spacca in due. L’altra possibilità è la conquista di una dimensione diversa.
Non so bene come ci arrivi, ma è probabilmente rialzando di nuovo lo sguardo,
quindi nell’arco della sua ennesima oscillazione. Rialza lo sguardo verso
l’alto e si accorge che c’è da dire quest’altra zona del mondo, della vita,
dell’esperienza. Come Dante non ne sa molto, e infatti la seconda parte della
raccolta è intrisa di dubbio, pur nel divampare di una luce che abbaglia,
disorienta, e appunto non fa capire. Ma l’immagine che sta al centro del libro,
il “quadrato senza lati”, in questo senso è anche dantesca perché attiene a una
geometria che non è del visibile, e allora tu intuisci una figura, ma è una
figura quasi di luce, che non rientra nella geometria euclidea, anzi: nella
geometria terrena. Allora da tutto questo si potrebbe pensare che “Ai bordi di
un quadrato senza lati” è un libro di grande complessità, e in parte lo è;
tuttavia, attraverso una lingua che gioca con tutte le stratificazioni del
lessico, riesce perfino ad essere “comunicativo”.
Vorrei
però aggiungere un ulteriore aspetto che è ancora più chiaro in questa
raccolta: il lavoro di Marco Onofrio sulla forma. Molto spesso è una forma
chiusa, che aderisce a una metrica classica, tradizionale, fuori dalle
convenzioni del verso libero preponderante nella poesia contemporanea. Ma lui
forza la forma, e non nel senso che la rompe: nel senso che attraverso il
lessico la dilata, un lessico
talmente stratificato in avanti e indietro da non essere più databile. Non è
una poesia di imitazione classica. Onofrio sceglie una forma, questa forma lo
stringe, lo chiude, e lui cerca – restando dentro i confini di quella forma –
di dilatarla attraverso la stratificazione lessicale, e applicandovi
l’intensità del pensiero di un contemporaneo. È come l’irraggiamento della
contemporaneità dentro una forma chiusa. E questo crea davvero qualcosa di
straniante. La forma stessa diventa un quadrato senza lati, perché
effettivamente è chiusa ma non ha più i lati convenzionali, li ha oltrepassati
senza romperli, nel senso che li tiene e insieme li lascia andare. In questa
conciliazione degli opposti c’è una profonda verità del suo modo di essere.
Questa tentazione del fango che però non nega la possibilità della luce è un
tutt’uno con la vita. È uno degli aspetti in cui Onofrio è stato più ostinato e
coerente nel corso degli anni, a dimostrazione che uno scrittore del nostro
tempo non può disinteressarsi a niente che non sia umano. Niente se è umano è
estraneo; ed è dentro l’umano – perché è l’unica possibilità che abbiamo – che
va cercato l’oltreumano. È nell’esperimento con l’umano che c’è la possibilità
del “trasumanar” e quindi di raccontare la luce. Dov’è, a questo punto, la
verità? Se non fosse “la” verità sarebbe il senso, e quel senso è anche nella pienezza
di un gesto che dentro un libro molto sottile si avverte, nella sua irruenza.
La componente più peculiare di Onofrio è proprio questa irruenza. Ogni cosa che
lui conquista con la scrittura è sempre un gesto irruente. È violento perfino
quando parla di luce, di altezze eteree. Sembrerebbe pretendere dal cielo una
risposta che il cielo non può offrire.
Lassù si annida un interlocutore che “deve” rispondere. È impossibile
che non risponda se viene cercato, chiamato, convocato, “strattonato”. Eppure,
ostinatamente tace. E la ricerca poetica continua (trascrizione dell'intervento di Paolo Di Paolo alla presentazione romana del 6
giugno 2015).
Paolo Di Paolo
Paolo Di Paolo
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