Vito Lolli collaboratore di Lèucade |
cLa morte di un dio, la nascita dell’uomo
Sull’onda del meraviglioso complemento da Lei aggiunto, Nazario, alla
speranza che gli dèi ritirati siano sempre disponibili al dialogo con gli
umani, e sull’onda della tua costante tensione, Franco, per la sola vera
frontiera della Poesia che è la Mitopoiesi, dobbiamo tentare il salto oltre
rientrando nello spazio mitico. Come si rievoca un dio? Come, cioè, lo si
chiama di nuovo fuori dal suo nascondersi? Come possiamo noi renderci di nuovo
capaci di chiamarlo e attenderne la manifestazione, noi che l’abbiamo disatteso
e disprezzato? Come possiamo divenire capaci di ospitarlo e profetarne il
mistero? No, non è anacronistica, la domanda. E’ folle. E’ la sola domanda, Nazario e Franco carissimi, e tutti voi
logonauti, con cui deve addormentarsi chi cerca il Mito e la Poesia, la rotta
per Leucade, la Bianca, candida come una pagina senza parole. Forse l'illusione che ha creduto il mito
un'espressione della mente primitivo-infantile lo è, anacronistica. E questo
gioco, il falso mito razionalista-positivista dell’”affrancamento” da “arcaiche
false credenze” in nome del dominio del Mondo sulla Terra , è stato giocato. Naturalmente, non c’è mai stato
alcun dominio che non sia stato un’ illusione: gli uomini, le cose, i mondi
sorgono e decadono, e la Terra impone le sue Leggi come le sole vere leggi. Le
“magnifiche sorti et progressive” si
sono rivelate il fuoco fatuo di una barca in deriva. E’
da questo gioco che gli dèi si sono sottratti, lasciandoci soli in tale deriva.
Ci troviamo soli in noi stessi, in
superfici sempre più anguste, separati dal profondo psichico, dall’Aperto, in un oblìo alienante. E questa
tenebra non è euphrone, la benevola notte in cui la chiusura degli occhi
quotidiani accende la Visione profonda rimemorante, quella dalla quale mai alcun dio si è sottratto. Ogni illusione, in quanto tale, si
risolve in delusione: ci si trova fuori del sogno, nei brandelli di realtà che
quel sogno ha prodotto. Il gioco è esaurito. Ed è allora che il crepuscolo
degli idoli diventa il vuoto angoscioso che implora; l'implorazione si fa grido
e può farsi canto, e questo può ri-evocare il dio. Il dolore fecondo di una
morte consapevole è la forza della ri-evocazione.
Consapevole della morte, dunque. Forse, orizzonte autentico della
conoscenza, culmine di vita vissuta fino alla profondità abissale ove essa si manifesta
nel suo mistero. Solo l'abisso è la dimensione di una evocazione, e solo
l'abisso ove si perisce e si es-perisce si può ri-evocare. Per questo è il dio
stesso colui che perisce la vita ed es-perisce la morte. Nel rischio
dell'abisso, il pericolo, sorge la sapienza. Non fuori del ribollire delle passioni e degli istinti, del fremere
della vita, ma nel loro vortice straziante
ed esaltante. Questo è l’arcano di
nome Dioniso.
Un dio nasce da un’occhiata sublime, appunto la visione, di un aspetto
della vita che si vuole fermare e cogliere. Ma Dioniso guarda tutta la vita: come si può guardare
assieme tutta la vita? Questa è la
tracotanza del conoscere: si vive una
certa vita, ma voler essere dentro a tutta
la vita, questo suscita “Dioniso”, la hybris
onde sorge la sapienza. Dioniso è la contraddizione di ciò che si esprime in
parole, l’impossibile e assurdo vero perché presente. Vita e morte, gioia e
dolore, estasi e spasimo, benevolenza e crudeltà, cacciatore e preda, toro e
agnello, maschio e femmina, desiderio e distacco, gioco e violenza, ma tutto nell’immediatezza di un gesto senza prima né dopo, vissuto
con pienezza sconvolgente in ogni estremo. Contemplando Dioniso l’uomo
non riesce più a staccarsi da sé stesso, come quando vede altri dèi: Dioniso è
un dio che muore. Nel crearlo, l’uomo
esprime tutto sé stesso e qualcosa al di là di sé. Dioniso non è un uomo: è un animale e un dio, e manifesta gli
estremi delle opposizioni che l’uomo porta in sé, i confini di quella terra di
Nessuno che noi siamo, ove la bestia e il dio si confondono e confliggono. Per
questo è cifra dell’uomo.
E qui è l’origine oscura della
sapienza. La tracotanza del conoscere, l’avidità di assaggiare tutta la vita in modo estremo nella
simultaneità delle opposizioni, sono cifra dell’esperienza indicibile della
totalità. Dioniso è dunque uno
slancio insondabile, lo sconfinato elemento acqueo informe, il flusso di vita
in cascata di roccia in roccia tra l’ebbrezza del volo e lo strazio della
caduta, l’inesauribile frammentarsi che vive in ogni lacerazione del tenue
corpo acqueo contro le taglienti pietre del fondo.
E’ antichissimo, Dioniso. Tavolette in lineare B del XV-XIII sec. a.C. ne
riporterebbero la presenza più remota a Creta, in uno schema mitico arcaico e
aspro che secondo gli studiosi resta oscuro, inafferrabile nelle sue linee
primordiali, e che sovrappone Dioniso al Minotauro nella cornice degli altri
personaggi del mito minoico. Tanto nella
risonanza dionisiaca in Eleusi quanto in quella nella poesia orfica vi sono
frequenti accenni a tale derivazione cretese. Ma la datazione di un reperto non
riguarda l’origine di ciò che esso riporta. Sta di fatto che la primitiva
azione del mito è stata dimenticata e le linee generali del più crudo tema
della contraddizione dionisiaca sono le sole a prefigurare il significato
profondo del dio.
Il tema dell’animale-dio, centrale della sua natura, si rivela, in
apparente assurdità, come cifra archetipica della sapienza in quell’aspetto del
culto dionisiaco che è l’orgiasmo. Se questo si esaurisse nello scatenamento
animale degli istinti niente sembrerebbe più lontano dalla conoscenza, ma l’orgiasmo
è danza, musica, gioco, allucinazione, stato contemplativo, trasfigurazione
artistica, controllo di grandi emozioni. Siamo certi che quanto chiamiamo istinto sia il solo retaggio evolutivo animale, cioè il passato
della vita? Non è forse questo il luogo
in cui confliggono e interagiscono due istinti, i due complementari ordini del
tempo, quello del passato e quello del futuro? Il dionisiaco è un istinto estetico, un trauma della conoscenza
quotidiana spezzata da elementi artistici che scatenano una nuova visione della
realtà.
C’è, infatti, un elemento che accomuna tutti gli aspetti dell’orgiasmo
in opposizione a quello del trascinamento incontrollato dell’impulso vitale: al
culmine dell’eccitazione, e proprio come risultato ultimo, trasfigurato, del
suo più intenso scatenarsi, subentra una rottura
contemplativa, artistica, visionaria, cioè un distacco conoscitivo. L’”uscire
fuori di sé”, l’”estasi”, libera un “al di là di
sé” conoscitivo che non è altro da sé. L’estasi non è il fine
dell’orgiasmo dionisiaco, ma il mezzo di
una liberazione conoscitiva: uscito dalla sua individualità, il posseduto da
Dioniso “vede” quello che i non
iniziati non vedono. L’orgiasmo porta
a una liberazione dai vincoli dell’individuo empirico, dalle condizioni della
sua esistenza quotidiana, e questo nuovo stato viene chiamato mania, follia. A questo punto il dio
stesso si fa immagine nell’uomo; il “posseduto” da Dioniso, l’”entusiasta” (“en-theos”, la presenza interiore del
dio), non perde totalmente la coscienza e non è preda di un gesticolare
animalesco, ma è folle: uno stato
della coscienza che si contrappone a quello “normale”, quotidiano. A volte il
risultato della mania è una visione, proprio come l’epopteia è l’apice dell’iniziazione eleusina. In sostanza, uno
stato allucinatorio. Oggi parliamo spesso di “psicologia transpersonale”, ma il
culto dionisiaco ne serba e illustra l’arcano. Fonti antiche attribuiscono a
Dioniso la potenza mantica apollinea e la sua divinazione sorge dallo stato
orgiastico. Ma la visione del futuro è l’aspetto primigenio della conoscenza
della verità e qui.
Questo distacco conoscitivo è l’esaltazione di un distacco vitale – e
questa è forse la contraddizione capitale di Dioniso, il centro del suo
significato. Il massimo impulso vitale, l’acme della tensione che concentra le
forze nell’espansione scatenante della volontà di potenza e della volontà di
vivere, l’irrefrenabile spinta verso la pienezza esplosiva di tale potenziale,
giunto al suo culmine estatico si ribalta
e si distacca in una trasmutazione
che sublima la sua natura. L’estatico
è l’estetico. E questo processo si
esemplifica nella sfera della sessualità. Il fallo è uno dei simboli preminenti di
Dioniso, è sempre presente nelle sue processioni ed egli è considerato sì dio
del desiderio, della tensione sessuale, ma non è mai rappresentato fallicamente, come altri dèi, anzi ne è tenuto
separato. Nelle sue danza sacre non
ci sono riferimenti chiari ad atti sessuali (come in quelli di Artemide, dea
della fecondità), quindi Dioniso non è
un dio della fecondità. Addirittura, non
vuole che il desiderio dei suoi invasati culmini nel compimento dell’orgasmo, e
la castità delle baccanti non può
essere attribuita alla sacralità dei rituali. Qui c’è la cifra evidente di un
affacciarsi della consapevolezza di una ascesi di molteplici stati dell’essere insita
e latente nell’essere umano, fatta di rotture psicologiche e ricomposizioni funzionali
che trasmutano sensi e sentimenti in una sublimazione ispirativa. La Poiesis, dunque, è la realizzazione di
tale stato dell’essere e la Mitopoiesi
non è che il frutto visionario di tale operazione, che crea il “dio” come simbolo significante un significato da perire ed
esperire per diventare ciò che, in fondo, si è.
Il distacco dalla sessualità, la rottura estatica che insorge all’apice
del suo impeto, il disdegno e disgusto aggressivo che la rifiuta fino alla
furia omicida che vuole impedirne l’atto, sono anche un’improvvisa e lacerante
intuizione pessimistica sulla vita che ancora non coglie la sessualità stessa
come un’energia aperta a trasmutazioni di stato?
La multiformità contraddittoria di Dioniso vuole che non lo si possa
identificare mai con una delle parti.
Egli è il luogo ove la tensione dell’incontro- scontro degli opposti ne
fa, nell’istante culmine, unità indistinta. Il crudele vendicatore appare anche in forme
femminili o nell’aspetto di giovinetto effeminato, così come nella figura
barbuta e solenne. Contraddizione, questa, forse più misteriosa delle altre:
Dioniso è maschio e femmina, in una commistione di caratteristiche tese a
scompaginare la facile attribuzione di tratti di genere, perché la sua
indicazione suprema non è quella
della necessità dell’istinto animale ma quella dello specifico umano in cui i
tratti di genere sono variabili e compresenti. La tradizione orfica conserva il
tema nella figura divina ermafrodita di Fanes e nel bambino della
rappresentazione orfico-eleusina. La commistione giovane-vecchio e
maschio-femmina può rimandare anche ad una riconsiderazione del simbolismo di
Giano aperta al grande tema, metafisico e universale, della polarità cosmica
degli opposti complementari e del carattere psichico del tempo-memoria. E
rimanda tanto ad Osiride e al mistero orfico-eleusino quanto a Lao-Tzu ed
Eraclito.
Tutto questo si impone ad una rimemorazione che tenti di ritrovare e
riattivare il dialogo coi divini che solo può resuscitare l’istinto poetico, restituendo
così gli uomini a sé stessi. “<Se voi
tornerete a me io tornerò a voi>, dice il Signore!” fa dire a Giovanni
il Battista il Vangelo, in ripresa di Isaia. Sì, forse è proprio questo l’atto
di fede che, sperando l’insperabile, perisce ad un livello per esperirsi in un
altro. “Se il chicco di grano non muore
non porterà frutto”, recita sempre il Vangelo. E forse gli dèi non
aspettano altro che potersi di nuovo fidare di noi e aspettare il nostro
richiamo di sublimazione del piccolo io quotidiano. Per questo è importante lo
sforzo di rimemorazione evocante. Tentiamo. Chi cerca, trova. A chi bussa sarà
aperto, perché a chi ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto anche il poco che
ha. Ed è questo il marchio della folle solitudine del Poeta che diventa segno
di speranza del ritorno dei divini tra di noi. Vi ascolto.
Una trattazione pluridisciplinare che coinvolge il sapere in tutta la sua polisemica valenza: filosofia, letteratura, escatologia, mistero, mitopoiesi… dalla vita la morte dalla morte la vita. Una dualità: luce, buio; giorno notte; bene male;… una simbiotica fusione di elementi che sono alla base del divenire vitale. « Il male, dunque, che più ci spaventa, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è lei, e quando c'è lei non ci siamo più noi. » afferma Epicuro; mentre Voltaire: “La vita è un naufragio, ma nelle scialuppe di salvataggio non dobbiamo dimenticare di cantare”; Cicerone: “La vita dei morti si trova nella vita dei vivi”; Alda Merini: “portiamo i nostri morti con noi fino a quando moriamo noi stessi”; Anassimandro – “..Principio di tutte le cose è l’àpeiron (infinito, illimitato, indeterminato) che comprende in sé tutte le cose e a tutte le cose è guida. Immortale e imperituro. Da dove infatti gli esseri hanno l’origine lì hanno anche la distruzione secondo necessità…”; il fatto sta che è il pensiero della morte ad inquietare l’uomo nei momenti delle grandi riflessioni; è l’idea del niente, del nulla o del troppo a renderlo cosciente della sua precarietà; nato, egli, per misurarsi con le cose caduche, lui stesso caduco, si sperde facilmente nell’immensità dei cieli dove non concepisce la fine. Come non riesce ad ingoiare il rospo del non esistere più, per sempre; tutto questo perché siamo esistiti, abbiamo avuto i contatti col tempo e con le cose che ci circondano, abbiamo preso parte a circostanze, a fatti a emozioni, a trasalimenti, anche, che ci hanno dato il senso di quella eternità che proviamo di fronte alla Bellezza, sindrome di Stendhal, sperdimenti di noi stessi in cospirazioni che più si avvicinano al “tutto”. Pascal definiva la nostra posizione di fronte all’universo “Un milieu entre rien e tout”. Ed è questa la nostra sofferenza esistenziale: vivere con l’animo rivolto al cielo e con i piedi inchiodati nel fango. Potrà morire un dio per dare vita ad un uomo rinnovato; ad un uomo convinto di essere pedina di una piramide che crollerebbe senza il suo apporto; ma io credo che sia ora e sempre lo stato d’animo del caduco, la sua saudade, il suo nostos, e la sua voglia di toccare l’impossibile a renderlo artista, e umanamente vivo; vivo nella sua infelicità; in quello stato di mortalità che gli consente di elevarsi alla grandezza del canto. Complimenti a Vito per il suo immenso articolo.
RispondiEliminaNazario
Complimenti a Vito anche da parte mia. Un saggio, questo, che unito agli altri recentemente pubblicati nel blog, danno l'idea di una ricerca estetico-ascetica originalissima e di raro spessore. Conosco Vito da circa un ventennio e non mi meraviglio più di tanto di fronte a prove letterarie e a guizzi di pensiero ardui e geniali come questo. Molte cose ci accomunano nella ricerca, in primis il superamento del razionalismo (che ha dato tutto quello che poteva dare all'umanità), nella speranza di accendere una nuova spinta mitopoietica (e spirituale) che possa consentire il ritorno del divino (non nel mondo, ma tra gli uomini, perché nel mondo il divino c'è già). In un punto, tuttavia, sul quale ci confrontiamo da anni, le nostre ricerche si divaricano, ed è stupenda questa diversità. Lui sostiene, in linea con la ricca tradizione ascetica, sia orientale che occidentale, che l'annullamento della Parte è l'unica strada che abbiamo per accedere alla Totalità. In questo straordinario articolo, egli ci parla della trance dionisiaca come mezzo per giungere all'assorbimento dell'umano nella divinità: una "trasmutazione di stato". Ebbene, io ritengo che esista un'altra tradizione misterica, alla quale Vito pure accenna (non distinguendola da quella "orfico-dionisiaca", però): quella "gianica" e "taoista", che parla di Equilibrio, o di Armonia di Contrari, parla di Incontro delle Parti, di Cooperazione, di Dialogo e non di Fusione o di Unità. La differenza fra Parmenide ed Eraclito, fra Taoismo ed Induismo, pur nei contatti inevitabili, è tutta qui. L'annullamento della Parte genera a mio avviso una distorta visione dell'universalità. Ciò che bisogna annullare è il Particolarismo, non la Particolarità. E' l'Individualismo, non l'Individualità. C'è un modo di essere universale dell'individuo, e viceversa. La parte è nel tutto e il tutto nella parte. Non dobbiamo annullare né l'uno né l'altra, ma solo riconoscere quello che è. Con il mistero (che è poi il mistero che noi stessi siamo) noi possiamo e dobbiamo stabilire un contatto, un rapporto confidenziale. Non dobbiamo farci assorbire totalmente da esso, anche perché in tal modo perderemmo la facoltà di riflettere sul mistero stesso. Credo sia chiaro che sto parlando di un'altra tipologia di trance: una trance non allucinatoria ma cosciente, che non annulla la ragione, ma che la rende "saggia" (e va bene anche "folle", se è comunque alla "saggezza" che alludiamo). E' questo il "buon senso" che oggi ci manca e che il divino può portare ancora nel mondo. Il "buon senso", sinonimo di "sesto senso", di spirtualità.
RispondiEliminaFranco Campegiani