Sonia Giovannetti collaboratrice di Lèucade |
Sonia
Giovannetti su "La tempesta" di Claudio
Vicario
“Urla il vento” fuori
e dentro l’anima del poeta.
Fin
dall’esordio, la natura è resa specchio del turbamento interiore di un’anima che
patisce lo scatenarsi degli elementi. Sotto il cielo in tempesta, lo spettacolo
della furia turbinosa del vento diventa poi via via, agli occhi del poeta,
dolente metafora di una “guerra selvaggia
/ che l’uomo fa all’uomo / quando il sangue brucia / di odio”.
Tutto
il poema è così una tormentata meditazione sulla condizione umana,
dolorosamente esposta ai colpi di una violenza sopraffattrice di cui essa è,
insieme, artefice e vittima. E se incolpevoli, pur nei loro effetti devastanti,
possono pensarsi le violenze della natura scossa dagli elementi, esecrabili
sono invece quelle prodotte dalle nequizie umane.
“Non è questa follia? / O la preghiera è
finzione / e commedia / è la vita?” si chiede il poeta,
contemplando tutte le sfaccettature della propria sofferta solitudine.
Il
linguaggio a tratti classico e alcune riflessioni esistenziali sembrano
echeggiare tematiche care al Leopardi, mentre il vento “che mugge” ci trasporta nel bosco evocato dal Carducci ne “La
notte del sabato santo”
Ma la declinazione di un dolore
apparentemente irrimediabile in cui sembra consistere la sostanza di questa
poesia si salda, sul finire, con un accorato appello – che sembra aprire alla
speranza – alla fratellanza tra gli uomini e alla meditazione sul significato
profondo della vita. “Uomini, / aprite il
cuore / all’amor dei fratelli; / pensate che breve / è il viaggio terreno / e
nulla conta / o poco / l’inutile ricchezza / e il nome / e la pompa esteriore”.
Sonia Giovannetti
La
tempesta
Oggi è in tempesta
il
cielo:
nel
cupo, tumultuoso
grigiore
de le
nuvole basse
portate
dal vento che mugge,
nascono,
come crisantemi,
nell’anima
che langue,
tristi
pensieri.
Poi,
calmo il vento,
larghe
gocce di pioggia,
grevi
come i ricordi,
piangono
di nere stelle
la
strada bianca.
Urla
il vento
con
fragor di tempesta
dopo
un breve silenzio,
e le
rame degli alberi
scosse,
tentennanti
in un
fremito di rabbia e di paura,
urlano,
dalle
invisibili gole delle foglie,
roche
parole,
incomprensibili
insulti,
preghiere,
voci
di speranza e d’addio,
lamenti
di dolore,
di
spasimo,
di
follia.
Il
vento non perdona;
è come
la morte il vento,
che su
tutto si stende;
il
vento
è come
la
guerra selvaggia
che
l’uomo fa all’uomo
quando
il sangue brucia
di
odio,
e gole
umane,
gli
occhi serrati
dal
veleno dell’ira,
cercano
sangue umano,
e
bramosia di cadaveri
oppone
il fratello al fratello.
Come
la guerra
è il
vento:
forza
insaziabile,
inverosimile,
deboli
e forti rami
travolge
e i
nuovi arboscelli
sbocciati
alla vita
uccide,
e
l’erbe e i fiori roridi
d’innocenza
e i
dolci frutti
dai
verecondi seni
d’alberi
generosi
germogliati,
e
tutta infine la vita
che
ferve in ogni atomo.
E chi,
chi nell’impetuosa
rabbia
del vento
che in
moti impazza
di
vendetta e di odio
zeffiro
dolce
ravvisar
potrebbe
che
appena sussurrar
tra
fronde senti,
timido,
sospiroso
in mormorii
di
dolci note
tra
virgulti nuovi?
E chi
nell’uomo che uccide
l’uomo,
e
schianta i focolari
e ne
disperde (sacrilego)
i
nomi,
e al
sacrificio delle madri irride
e al sudor
delle fronti,
l’uom
che s’inchina
alle
are sacre
e
dice: “Siam tutti
fratelli”
e schiude,
d’amore
divino fervide,
le
labbra
alle dolci preghiere?
Non è
questa follia?
O la
preghiera è finzione
e
commedia
è la
vita?
Uomini,
aprite
il cuore
all’amor
dei fratelli;
pensate
che breve
è il
viaggio terreno
e
nulla conta
o poco
l’inutile
ricchezza
e il
nome
e la
pompa esteriore
a chi
andrà spoglio
de le
miserie del mondo
a
quella soglia.
Pensate
a
quanti attendono muti
sotto
la terra erbosa,
che di
tristi fior
s’infiora
e
odora di cipressi…
Inutilità
Inutilmente
la sua vita vive,
inutile
per sé e per gli altri tutti,
chi di
sé lustro in opere non lascia,
chi
non affida al tempo ciò che nasce
dalla
sua intelligenza, dalla forza,
ché
non imprime in ciò che sopravvive
l’impronta
del suo spirito, chi pensa
solo
al presente, al godimento, ai beni,
all’effimere
gioie della droga,
al
bere, al fumo, al pasteggiare scelto,
che al corpo pensa e l’anima trascura.
Morto
è quest’uomo, morto è con lui tutto,
e il
figlio non può dir: “Questo egli fece”,
ma il
vuoto immenso trova nel ricordo.
Miglior
sorte hanno gli alberi caduti
sotto
i colpi di scuri e magli e seghe:
tagliato
in lunghe tavole ne è il legno,
che
prende varie forme, a più funzioni
destinate
dall’uomo, e ognun si serve
per
propria utilità di quegli oggetti.
Così se un uomo regalasse gli occhi
a un
nato cieco, morirebbe in parte
lasciando
di sé il meglio a chi abbisogna
con
quella carità che di sé gode,
e in
lui egli vedrebbe, anche se morto,
come
vivesse ancora in altro corpo,
e il
figlio potrà dir: “Quegli è mio padre:
vive,
pur morto, e può vedermi ancora”.
Homo
homini lupus
Spazio nel mondo non avrà mai Temi
finché
coscienza ciascuno non abbia
del
suo dovere, fino a che il potente
privilegi
otterrà, sprezzo la plebe;
fino a
che, superato l’egoismo,
ch’in
suo fermo voler ciascun coltiva,
fratelli
non sian gli uomini, e su tutti
l’amor
non regni e la pace sovrana;
fino a
che Carità l’altrui travaglio
non
farà suo, finché ciascun mortale
anello
non sarà d’una catena
ch’amore
leghi e invidia non disgiunga.
Vano
sperar! Ché nella tempestosa
scena
del mondo, il veleno dell’odio
nel
sangue brucia, e sete di vendetta
l’uom
contro l’uomo spinge. E nel selvaggio
cozzar
d’armi funeste, quasi avversi
sentimenti
dell’Essere, l’eterna
lotta
dell’uomo all’uomo, ciecamente
cerca
indarno nei lutti un lieto fine….
Mi congratulo con Sonia per l'introduzione a "La tempesta" di Claudio Vicario e con lo stesso autore.
RispondiEliminaTrovo interessante la presentazione perché incentrata, si, sul tormento della condizione umana (decisamente presente nel testo) ma, soprattutto, per quanto riguarda il senso catartico da attribuire all'interiorità come antidoto e ridimensionamento-recupero della condizione umana.
Sandro Angelucci
Sonia Giovannetti, nota scrittrice e poetessa conclamata, conferma, in questa breve nota introduttiva, le sue qualità di critico letterario ben collaudate. Direi che Claudio Vicario può dirsi fiero di questo scritto. Il suo orizzonte umanistico ben si conforma agli orizzonti esegetici ed alla cura di questa voce emergente nel diorama della giovane letteratura italiana. Lo mostrano, tra l'altro, quei puntuali e scrupolosi riferimenti alla poetica leopardiana e soprattutto carducciana che ci sa regalare. Complimenti vivissimi.
RispondiEliminaFranco Campegiani