Claudio
Fiorentini: Fermata del bus. Alter
Ego. Viterbo. 2016. Pag. 102. € 12,00
Romanzo che si legge tutto di un fiato; stile paratattico, periodi brevi e fuggitivi
che si rincorrono, quasi a misurarsi in una competizione di resa; in una
successione asciutta senza fronzoli inutili né parafrasi di contorno, dove
tutto verte a narrare un presente attuale in un mondo reale fatto di noie,
abitudini, fermate del bus, moglie, amante, ufficio, casa, famiglia; e gli
ingredienti ci sono tutti: tv in cucina, in soggiorno, in camera; uno
sceneggiato sulla vita di San Benemerenziano di Sigisgulta, Don Matteo…; amore
e disamore; voglie erotico-coniugali sfumate nella memoria delle cosce di Lor
(Loriana) che viaggia su una macchina da museo dove “c’è puzza di ferro marcio,
tappezzeria in similpelle e profumo sudato”. Un andare agile, che sfiora i
fatti, e che li utilizza per dare vivacità psicologica ad una storia; a tante
storie; a vicissitudini moderne in cui gran parte di noi si potrebbe
riconoscere; un racconto che si snoda su un piano narrativo senza brusche
virate; dove tutto sembra accadere con naturalezza sotto la guida di una penna
adusa alla scrittura che spesso si affida a sospensioni in puntini di rimando;
a riflessioni di un autore che non può fare a meno di intrufolarsi fra le righe
con il suo passato e il suo presente: un uomo in carriera, casa, ufficio,
incontri abituali; e il tutto macerato da un tempo che se ne va veloce senza
tener di conto dei fatti della gente. Un
po’ la filosofia di Claudio sulla razza umana vista a volte con ironia e con
sarcasmo, altre con una certa melanconia sul fatto di esistere, casuale e accidentale;
altre, ancora, con uno sguardo
riflessivo e pensoso sul rapporto dell’uomo con ciò che lo circonda e che gioca
in qualche maniera con il suo essere. Il fatto che il personaggio principale sia
senza nome, e che le storie abbiano come titolo giorni della settimana rende
ancora più umana e più oggettiva la narrazione; come se la filosofia di
Fiorentini si volesse disseminare un po’ su ogni presenza di vita: Lunedì,
Lunedì sera, Martedì, Martedì sera, Mercoledì, Giovedì, Venerdì… fino a Lunedì, un anno dopo. “Maledico il
giorno in cui ho distrutto la mia sw sbattendo contro un albero. Ora la mia
belva blu riposa dal carrozziere, quel maledetto platano è ancora lì, e io sono
qui, ad attendere il bus…”. Così inizia il romanzo e fin dai primi righi ci dà una
chiara visione di come scivola generosamente su fatti e cose di estrema
quotidianità: lo smart che squilla, la calca umana sul bus, il posto ceduto ad un anziano, commenti, confessioni,
racconti; tutto ciò che abitualmente si dice o si vede sul bus o durante l’attesa:
la solita signora, il bambino con lo zaino, il solito vecchio chiacchierone…
l’ufficio, Lor, la casa, la moglie che traffica in cucina, il documentario alla
tv…
Alla
fine della lettura quello che rimane in animo e nella mente è un quadro dipinto
con acribia analitico-visiva: sì, un quadro che rappresenta la vita, il suo
perpetuo e inarrestabile andirivieni, il suo convulso movimento di gente che
aspetta e che va.
E
tutti i personaggi, gli ambienti, i contorni non fanno che cadere sotto
l’obiettivo di Fiorentini lì pronto a riprenderli per proiettarli poi in riprese
in bianco e nero accelerate; la sua macchina da presa è fissa alla Fermata, dove ci si guarda, ci si
incrocia, e ci si racconta in attesa di prendere l’assiepata carrozza della
vita. Tutto cresce e si dilata in maniera troppo umana, troppo uguale, troppo
consuetudinaria tanto che alla fine
della storia (se di fine si può parlare) quel lui senza nome e in prima persona
arriva “alla fermata dell’autobus, c’è gente che aspetta,… sempre la stessa
gente… C’è la signora che conosco e ci salutiamo… il bambino con lo zaino
spropositato… arriva l’autobus… Che bella giornata e penso a Lor… aveva
sbagliato i calcoli, il figlio non era mio, ma suo e del capo… la signora delle
storie è sempre una bella donna… tiro fuori la foto di mio figlio e lei
“Complimenti!”. “Ma dica, non si raccontano più le storie alla fermata?” e lei:
“Quando c’è un’anima da salvare” “Come?” “la sua, adesso è…”… e io rimango lì,
con la frase a metà… Guardo l’autobus ripartire, poi guardo il cielo e penso: “Oggi è proprio una bella giornata”. E vado a
lavorare,”.
Così
si chiude il libro con uno sguardo totale come in un film in cinemascope quando,
alla fine, l’obiettivo allarga,
indirizzandosi dal particolare all’insieme; e in questo caso a un autobus che
se ne va portandosi dietro personaggi con cui siamo costretti a convivere, a
stare insieme per guardarsi, una volta, due volte, tante volte; ad ascoltare le tante storie sulla vita,
mentre questa si defila scrutando con occhio sorridente noi attorcigliati nelle
sue maglie.
Nazario Pardini
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